di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Mentre Washington
accumula denaro per le opposizioni siriane e i jet parigini iniziano a
bombardare l’Iraq, nel paese non cessa il bagno di sangue figlio non
solo dell’avanzata dell’Isis ma anche degli effetti della guerra civile
in corso. Non passa giorno senza attacchi: ieri ad essere colpita è
stata Imam Qasim, nord di Kirkuk, 10 vittime e 20 feriti. Morte anche nella capitale: quattro autobombe sono saltate in aria
di fronte alla moschea sciita di al-Mubarak (nel quartiere di
Karradah), nei mercati del sobborgo sciita di Nahrawan e di quello di
Bayaa e in un parcheggio a Mahmoudiyah. Bilancio di almeno 20 morti e una cinquantina di feriti nell’ennesimo venerdì di sangue iracheno.
La polizia ha puntato il dito contro lo Stato Islamico, ma per ora
non ci sono rivendicazioni. L’offensiva del gruppo islamista sunnita,
però, prosegue e si radica. Lo raccontano i residenti delle aree
settentrionali e occidentali dell’Iraq, dove le milizie di al-Baghdadi
dettano legge. Dopo l’emissione di documenti di identità e di
nuovi curriculum scolastici, l’Isis ora ha creato la sua polizia, nella
provincia di Ninawa, la prima ad essere occupata a giugno.
Obiettivo, «implementare le leggi della giustizia religiosa», si legge
in un sito web vicino al gruppo. Uomini vestiti di nero, con scritto sul
braccio «Polizia Islamica dello Stato di Ninawa», sono chiamati a
controllare checkpoint e strade, perquisire case, arrestare i criminali
(ovvero chiunque si opponga alla causa di al-Baghdadi) e «reprimere il
dissenso».
L’altra faccia della medaglia delle violenze esercitate in Iraq sono
quelle compiute in Siria. Dopo la presa di 21 villaggi curdi vicino la
città di Kobani, lungo il confine con la Turchia, oltre 4mila
civili sono fuggiti per il timore delle violenze dell’Isis. Ankara ieri
ha aperto i confini per permettere l’ingresso dei profughi, donne,
uomini, bambini esausti, fuggiti a piedi o con mezzi di fortuna sotto i
colpi di mortaio lanciati dai miliziani. Poche ore prima nella
città di frontiera di Dikmetas erano scesi in piazza centinaia di curdi
turchi, per protestare contro l’iniziale rifiuto delle autorità turche a
permettere l’ingresso dei rifugiati. La polizia ha disperso la folla
con lacrimogeni e cannoni ad acqua, fino al passo indietro di Ankara:
«Accetteremo i nostri fratelli dalla Siria che scappano alla morte», ha
detto il premier Davutoglu che ha aggiunto di voler estendere il mandato
per il dispiegamento di truppe al confine con la Siria ma non ha
confermato la notizia di una possibile zona cuscinetto lungo la
frontiera.
La risposta della comunità internazionale pare un palliativo, che lavora a valle chiudendo gli occhi sulle cause a monte. La
frammentazione dell’Iraq, a seguito dell’occupazione Usa, la mancata
ricostruzione, la cancellazione dell’esercito e l’inasprimento dei
settarismi interni si affiancano al sostegno più o meno diretto che i
regimi sunniti hanno dato negli ultimi 15 anni ai gruppi islamisti
impegnati a destabilizzare Damasco e Baghdad e arginare la
crescente influenza iraniana. Di questo, ai meeting internazionali si
evita di parlare. Meglio agire, con raid che alcuni generali
statunitensi hanno definito inefficaci per l’assenza di una verifica di
quanto accade sul terreno: che cosa si è colpito, dove, quali i danni
arrecati all’Isis.
Quale la percezione e la volontà dello stesso governo iracheno: ieri
l’Ayatollah al-Sistani, leader religioso sciita nel paese, ha ricordato
la necessità di «garantire la sovranità e l’indipendenza» dell’Iraq. Una
reazione che fa eco a quella del premier al-Abadi che ha tenuto a
precisare che truppe straniere sul suolo iracheno non saranno le
benvenute. Ma intanto ai droni statunitensi si sono uniti i jet
Rafale francesi di stanza negli Emirati Arabi: Parigi, dopo sole 24 ore
dall’annuncio di Hollande, ha lanciato i primi quattro raid contro la
città di Zumar (decine di miliziani uccisi, secondo l’esercito iracheno)
e distrutto un deposito dell’Isis che conteneva veicoli, armi e
carburante.
La Francia diventa così il primo paese ad impegnarsi militarmente al
fianco del presidente Obama che ha pubblicamente ringraziato Parigi.
Poco prima, giovedì notte, la Casa Bianca incassava con 78 voti a favore
e 22 contrari anche l’ok del Senato – dopo quello della Camera,
ottenuto mercoledì – all’avvio del programma di addestramento e
armamento delle opposizioni siriane al presidente Assad. Un pacchetto da
500 milioni di dollari che sarà implementato entro i prossimi tre mesi.
Come i deputati prima di loro, anche i senatori non hanno nascosto malcontento e scetticismo. Poco
prima del voto, i senatori democratici avevano precisato di non voler
votare risoluzioni sull’operazione in Siria e Iraq prima delle elezioni
di medio termine, a novembre. Eppure Obama ha finto soddisfazione per il
risultato finale e un’unità che non c’è: «Siamo più forti come
nazione quando il presidente e il Congresso lavorano insieme – ha
scritto in un comunicato la Casa Bianca – Questi terroristi pensavano di
poterci intimidire. Americani, noi non abbiamo paura». E una strategia
reale ce l’hanno? Secondo il segretario alla Difesa Hagel, l’esercito ha
già preparato un piano per colpire l’Isis nel nord della Siria, ma i
timori restano. Damasco, cuore del mondo arabo, non è Baghdad e un
intervento non coordinato con il governo potrebbe avere ripercussioni
difficili da prevedere.
AGGIORNAMENTO ore 11.00 – LIBERATI OSTAGGI TURCHI. L’ISIS TAGLIA L’ACQUA A 800MILA IRACHENI
Secondo quanto riportato dal premier turco Davutoglu, i 49 ostaggi
turchi catturati dall’Isis a Mosul sono tornati in Turchia accompagnati
dall’intelligence. Non si hanno dettagli del rilascio. Tra loro bambini,
diplomatici del consolato turco in Iraq e militari.
In Iraq, intanto, i miliziani dell’Isis hanno chiuso l’accesso al
canale di irrigazione Mahroot, a nord est di Baqubah (provincia di
Diyala), impedendo a 800mila iracheni di approvvigionarsi di acqua
potabile e acqua per l’irrigazione dei campi.
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