di Chiara Cruciati – Il Manifesto
«Uno dei più devastanti
conflitti urbani dei tempi moderni»: in un tweet il presidente della
Croce Rossa, Peter Maurer, riassume la devastazione di Aleppo. Alla sua
si unisce la voce di Zedoun al-Zoabi, capo dell’Union of Syrian Relief
Organization, che al The Independent disegna un quadro di disperazione:
«Bambini e adulti sono anestetizzati, non sentono più nulla. La vita
normale è un bombardamento. La vita normale è non avere cibo, è non
avere acqua».
Così crescono (e si spengono) le nuove generazioni siriane.
Lontano, le potenze internazionali si riposizionano. La battaglia
finale, che sia solo un’immagine forzosa o una realtà prossima, morde: da venerdì a lunedì sono morti tra Idlib e Aleppo oltre 180 civili, per raid governativi o attacchi suicidi delle opposizioni.
A muovere le fila del conflitto è la Russia: nella galassia
di Mosca rientrano alleati vecchi e nuovi, rinvigoriti dalla capacità
russa di dettare tempi e modi della guerra. Ieri è stato lo stesso
Ministero della Difesa russo ad annunciare l’utilizzo (ufficialmente per
la prima volta dal settembre 2015, quando Mosca avviò le operazioni in
Siria) delle basi aeree iraniane per raid contro le opposizioni
islamiste – Isis e Jabhat Fatah al-Sham, ex al Nusra – nel nord della
Siria. Nello specifico, dice il Ministero, i jet Sukhoi sono decollati
dalla base di Hamadan, Iran occidentale.
Una posizione ottimale, spiegano da Mosca, perché riduce i tempi
bellici del 60%: partendo dall’Iran un aereo da guerra percorre 900 km,
contro gli oltre 2mila dalla Russia del sud. Tempi ridotti, costi
tagliati. Ma soprattutto un migliore posizionamento militare:
per usare una base aerea è necessario trasferire uomini, munizioni,
carburante, jet. Ovvero ritagliarsi una presenza significativa nel
paese.
Si cementa così il rapporto con l’Iran sulla questione siriana a cui
Teheran ha dedicato denaro e uomini in abbondanza. L’obiettivo iraniano
resta quello dei 5 anni precedenti: impedire una divisione su base
settaria della Siria, membro fondamentale dell’asse sciita che corre da
Teheran a Hezbollah via Damasco.
Una visione che ieri il premier turco Yildirim ha condiviso: in un’intervista al quotidiano Karar,
ha proposto una road map che impedisca la divisione della Siria in
entità amministrative, possibilità che porterebbe al riconoscimento
dell’autonomia della kurda Rojava, inaccettabile per Ankara.
Centrale (ma Yildirim non lo dice, affidando le dichiarazioni
a fonti interne anonime) sarebbe la partecipazione del presidente Assad
alla soluzione politica, presenza ad interim nella sola fase di
transizione. Se confermato, si tratterebbe del primo compromesso su
Assad mosso dalla Turchia e probabile frutto del riavvicinamento a
Russia e Iran.
Sullo sfondo resta Washington, stretta tra le pressioni della Russia e
la difficoltà a discernere tra “ribelli” alleati e nemici. Mosca
approfitta del guado in cui la Casa Bianca è costretta per buttare sul
tavolo dichiarazioni che costringano gli Usa a prendere posizione: il
ministro della Difesa Shoigu ha detto ieri che le due super potenze
sono vicine ad un accordo per operazioni militari congiunte.
«[Siamo] in una fase molto attiva del negoziato con i nostri colleghi
americani», le parole del ministro che parla della definizione «di un
piano, non solo per Aleppo, che ci permetta di cominciare a lottare
insieme per portare la pace e far tornare la gente nelle proprie case».
L’amministrazione Obama non commenta. A frenarla la
situazione di Aleppo, massacrata dal fuoco incrociato di governo e
opposizioni, con queste ultime monopolizzate dai gruppi islamisti.
Ma il ministro degli Esteri russo Lavrov insiste: ieri, ha detto, ha
discusso con il segretario di Stato Kerry della gestione della crisi di
Aleppo. Una telefonata su iniziativa Usa, precisa.
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