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01/10/2019

Egitto - Un'analisi delle nuove proteste

di Francesco De Lellis

Un’analisi delle nuove proteste.

L’Egitto è sull’orlo di un’altra stagione rivoluzionaria o di un altro colpo di stato? Forse entrambe le cose, forse nessuna delle due. Da dieci giorni una inattesa ondata di proteste contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi sembra aver inaugurato una nuova fase di agitazione sociale e un’ulteriore involuzione repressiva del regime, i cui esiti restano per ora fortemente incerti.

Cosa sappiamo delle proteste

Venerdì 20 settembre, appena finita la partita di coppa tra le due principali squadre di calcio del paese, alcune migliaia di persone si sono riversate in strada in diverse città (Cairo, Alessandria, Suez, Mahalla al-Kubra, Ismailiyya, Mansoura). “Dì: non aver paura. Al-Sisi deve andarsene” e “Vattene Sisi” sono stati gli slogan più comuni, insieme a “Il popolo vuole la caduta del regime”, riecheggiando quelli delle leggendarie 18 giornate che portarono alla caduta di Mubarak nel gennaio-febbraio 2011.

Chi ha manifestato lo ha fatto in risposta a un appello lanciato da Mohammed Ali, imprenditore edile e aspirante attore che per quindici anni ha lavorato a stretto contatto con l’esercito ricevendo appalti e commesse statali. Dal 2 settembre, Ali (figura fino allora quasi sconosciuta) inizia a spopolare sui social con alcuni video in cui denuncia scandali di corruzione che coinvolgono i massimi livelli dello stato, a cominciare dal presidente al-Sisi. Dal suo esilio volontario in Spagna racconta che con soldi pubblici l’esercito ha fatto costruire più di una residenza di lusso per il presidente e un albergo per un generale-ministro.

Le proteste nella nottata di venerdì sembrano aver colto impreparati i corpi di sicurezza, che però hanno reagito attaccando i gruppi che iniziavano a formarsi per strada. A Port Said c’è stata una marcia di protesta sabato 21, mentre a Suez le proteste sono andate avanti per la notte consecutiva e gli agenti di polizia hanno sparato lacrimogeni e inseguito strada per strada i manifestanti armati di fucili da caccia.

Proprio nella città portuale di Suez si è avuto un primo assaggio della strategia repressiva adottata poi anche nel resto del paese. Oltre ai fermi in strada, nelle ore successive alle proteste le forze di sicurezza hanno iniziato i rastrellamenti casa per casa facendo almeno un centinaio di arresti.

Nei giorni successivi il centro del Cairo è stato posto sotto un regime di sicurezza mai visto nella storia recente. Chiunque cammini per strada, soprattutto giovani, può essere fermato arbitrariamente, perquisito, e portato via. Molti di questi fermi si traducono in un’incriminazione, in altri casi dopo una notte di interrogatori e pestaggi, all’alba viene concesso di tornare a casa. Allo stesso tempo le forze di sicurezza hanno iniziato a colpire in modo mirato la dirigenza dei partiti di opposizione, sia quella islamista sia quella laica e di sinistra. Sono molti gli attivisti e le attiviste scomparse, di cui non si ha più notizia da giorni

Decine di avvocati sono incessantemente al lavoro nel cercare di dare un nome alle persone arrestate, individuarne il luogo di detenzione e fornire loro difesa legale. I tribunali stanno sfornando ogni giorno centinaia di rinvii a giudizio (quasi tutti con le accuse di appartenenza a un’organizzazione terroristica e diffusione di notizie false) all’interno di un unico maxi-processo.

Il 27 settembre, per il secondo venerdì consecutivo, alcune migliaia di persone hanno nuovamente raccolto l’appello a manifestare. In una Cairo blindata (chiuse tutte le stazioni metro del centro e bloccata ogni via d’accesso a Piazza Tahrir, luogo simbolo della rivolta del 2011) nessuno ha osato scendere in strada nei quartieri più militarizzati. Piccoli gruppi di poche decine di persone sono stati visti assembrarsi per poi essere rapidamente dispersi nelle zone popolari di Giza e Helwan. Una massiccia mobilitazione, forte di alcune migliaia di persone (compresi anziani, donne e bambini), si è avuta ad al-Warraq, un’isola del Cairo dove la popolazione da due anni ormai contesta la speculazione edilizia che vorrebbe espropriare e sgomberare quasi tutti gli abitanti. Alcuni video diffusi dai social media legati alle opposizioni mostrano proteste avvenute anche nelle province del sud, Qena, Sohag e a Luxor, zone classificate come ‘rurali’ e in genere considerate scarsamente reattive.

Parallelamente, una immensa contro-manifestazione pro-regime ha avuto luogo nel quartiere residenziale di Madinat Nasr, alimentata secondo diverse fonti da migliaia di soldati di leva e impiegati pubblici trasportati da ogni parte del paese in autobus.

In una settimana oltre 2000 persone sono state arrestate in relazione alle proteste, in quella che è la più vasta campagna di arresti dall’insediamento di al-Sisi.

Chi è sceso in piazza e perché?

La novità assoluta delle proteste del 20 e 27 settembre consiste nel fatto che per la prima volta dal luglio 2013 a scendere in piazza e a contestare direttamente al-Sisi e il suo sistema non sono né gli islamisti che rivendicano l’illegittimità del colpo di stato né i gruppi di attivisti laici oppositori del regime militare. Le opposizioni politiche sono state quasi del tutto neutralizzate. Per timore di scatenare un ulteriore giro di vite, se non addirittura un bagno di sangue, in molti inizialmente hanno persino fatto appelli a non scendere in strada.

Il fatto stesso che le proteste abbiano avuto luogo è dunque già un dato importante, anche se i numeri finora sono stati contenuti. La reazione spropositata delle forze di sicurezza del regime ne è una conferma. Che da un giorno all’altro una mobilitazione come quella dell’isola di al-Warraq sia passata dagli slogan per la terra e contro lo sgombero alla netta condanna di al-Sisi e del regime militare indica inoltre la maturità politica di queste lotte, per cui il passaggio dalla singola vertenza locale al necessario cambiamento di sistema è consciamente acquisito, e attendeva solo l’occasione opportuna per essere esplicitato. Il fatto che città operaie come Mahalla, Suez e Port Said siano state protagoniste della prima giornata di proteste è anch’esso un dato rilevante, anche se finora manca ancora una mobilitazione nelle fabbriche, decisiva per la caduta di Mubarak nel 2011.

Ma chi sono allora le persone scese in piazza nell’ultima settimana? Si è mosso finalmente il “partito del divano” (“hezb el-kanaba”), la maggioranza silenziosa che ha assistito dal proprio televisore agli eventi politici degli ultimi anni con sentimenti misti, ma senza attivarsi? Quelli che hanno in un primo momento inneggiato al ritorno alla stabilità portata dal colpo di stato perché stanchi del caos e della crisi frutto della rivolta?

In molti, analisti e militanti, concordano sul fatto che stavolta si tratta di una composizione sociale diversa da quella mobilitata nella stagione rivoluzionaria 2011-2012. Sono per lo più giovani, uomini (nelle province, a giudicare dai video circolati, spesso bambini o appena adolescenti), molti dei quali senza precedenti esperienze politiche.

Li muove soprattutto la frustrazione economico-sociale, l’assenza di prospettive e la rabbia contro le quotidiane violazioni arbitrarie delle forze di sicurezza. Il tenore di vita della maggioranza degli egiziani è crollato drasticamente negli ultimi anni. Per ammissione della stessa Banca Mondiale il 60% della popolazione è “vulnerabile”, di questi oltre la metà sono poveri assoluti (oltre 30 milioni di persone). In tre anni, dal 2014 al 2017 più di 9 milioni di persone sono finite sotto la soglia di povertà. Sanità, istruzione, servizi e infrastrutture pubbliche sono al collasso.

La strategia economica, guidata dal Fondo Monetario Internazionale e consistita nella svalutazione drastica della lira egiziana e nel taglio dei sussidi su molti dei beni essenziali, avrà pure risistemato i conti e fatto registrare qualche segno positivo nel PIL e nei bilanci dello stato ma è stata una mattanza sociale. I salari reali sono rimasti al palo, incalzati da un’inflazione che in certi periodi ha viaggiato anche sopra il 20%.

Al-Sisi in questi anni si è rivolto più volte agli egiziani chiedendo sacrifici, spiegando che bisognava attendere le ricadute dei suoi progetti economici, che però non sono mai arrivate trattandosi per lo più di investimenti-spot senza una visione di lungo periodo. Le monarchie del Golfo non sono più generose come un tempo, i mega-progetti hanno drenato risorse senza produrre ricchezza e lavoro, i debiti dello stato sono aumentati (al punto che il 30% del bilancio statale va al servizio degli interessi sul debito) e l’austerità ha morso violentemente i ceti medi e medio-bassi.

Il discorso della talpa Mohammed Ali fa presa per questo. L’intreccio strettissimo tra militari e affari è cosa nota in Egitto. Sapere però che il presidente e la sua cerchia spendono milioni per ville e palazzi, mentre la popolazione fa la fame, ha riattizzato l’indignazione latente proiettandola su un colpevole ben definito.

Il giovane imprenditore (che si presenta come un self-made man, un figlio del popolo) è riuscito, secondo lo storico egiziano Khaled Fahmi dell’università di Cambridge, a veicolare riflessioni politiche importanti con un linguaggio semplice e diretto, arrivando a intercettare un malcontento popolare a cui per anni le opposizioni politiche non hanno saputo parlare.

Senza fare riferimento ai diritti umani e alla democrazia, ha reso lampanti alcune contraddizioni chiave: c’è una minoranza che si arricchisce mentre la gente è affamata; il presidente non è una divinità, al-Sisi ha sbagliato e va rimosso; la sovranità appartiene al popolo e non alle élite.

Cosa si muove nel regime

L’importanza dell’“effetto Mohammed Ali” va al di là di quali siano le possibili manovre orchestrate alle sue spalle. In molti infatti sostengono che il novello leader contestatario sia in realtà una marionetta in mano a pezzi di stato che vogliono liberarsi di al-Sisi, nell’ambito di uno scontro tra apparati. Non è un’eventualità da escludere: il presidente salito al potere con un colpo di stato (era ministro della Difesa quando spodestò Mohammed Morsi) negli anni si è fatto molti nemici e ciò che lo spaventa di più è proprio l’opposizione interna al regime. Sono centinaia gli ufficiali dell’esercito e di altri corpi di sicurezza che il presidente ha arrestato o rimosso negli ultimi due anni, assicurandosi il controllo degli apparati attraverso le nomine di suoi fedelissimi ai vertici.

Al-Sisi ha tentato di rendere permanente una situazione caratterizzata da una forte eccezionalità. Se il regime di Mubarak si basava su un delicato equilibrio tra presidenza, ministero dell’Interno ed esercito, la rivoluzione del 2011 ha scosso questi equilibri rimescolandoli in favore dell’esercito. Con il colpo di stato del 2013, quest’ultimo ha occupato un ruolo inedito nello spazio politico ed economico.

È vero che le forze armate egiziane hanno sempre avuto un notevole peso in politica interna. Ma nel 2011 l’esercito ha saputo approfittare della cosiddetta transizione e, con l’aiuto dei Fratelli Musulmani, è riuscito a dirottare le forze della rivoluzione per ampliare il suo spazio di manovra a livelli senza precedenti. Al-Sisi ha spinto per una forzatura introducendo delle modifiche costituzionali con le quali ha preteso di istituzionalizzare questo stato di cose. Secondo le nuove norme potrà essere rieletto presidente fino al 2034.

Si tratta di una condizione però instabile per natura. La legittimità di al-Sisi deriva dall’essere riuscito ad affermare il principio “o me o il caos”, tanto caro anche a molti governi occidentali. Quella legittimità ha iniziato a sgretolarsi prima di tutto tra gli strati popolari che non hanno guadagnato nulla dall’instaurazione del regime militare. Inoltre, l’alleanza tra esercito e gli altri poteri (economici e non) poteva avere senso di esistere finché era ritenuta necessaria per stroncare il rischio della rivoluzione e riportare la calma. Ma non è nata per durare in eterno, e ora potrebbe iniziare a stare stretta a qualcuno.

Cosa c’è da aspettarsi nel prossimo futuro?

Al-Sisi e i suoi sono terrorizzati e l’unica reazione di cui sono capaci è alzare sempre di più il prezzo da pagare per chi si mobilita. Ma un tale livello di repressione e di militarizzazione delle città non è sostenibile se non per brevissimi periodi. E se le proteste dovessero continuare nelle prossime settimane? Il fatto che non si tratti di attivisti ma di gente comune, per lo più non politicizzata, rende molto più difficile controllare la situazione. Neppure i partiti e gruppi di opposizione sanno cosa aspettarsi, ma dopo lo sbigottimento iniziale hanno iniziato a sostenere la protesta e ad affiancare le vittime di repressione.

È certo che in questo momento non esistono forze civili abbastanza solide da avere la capacità di assumere la leadership di questo movimento embrionale e ingaggiare col regime una prova di forza. In una prima fase almeno, l’unica iniziativa capace di sbloccare la situazione potrà probabilmente venire solo dall’esercito, ma è difficile comprendere e prevedere le dinamiche interne agli apparati.

La rabbia si è accumulata come in una pentola a pressione. Quelli visti finora sono stati probabilmente solo gli sbuffi di vapore iniziali. L’esplosione prima o poi arriverà, e dovrà essere incanalata nella direzione giusta perché non vada dispersa di nuovo, causando ulteriore disillusione. Secondo Ibrahim Heggi, attivista del Movimento 6 Aprile, “si tratta di uno scontro che rimandiamo da troppo tempo”, che va alla radice delle contraddizioni del sistema, che la rivoluzione del gennaio 2011 ha scoperchiato ma non è riuscita ad aggredire.

Per chi aveva dato per spacciate le cosiddette “primavere”, credendole una stagione di passaggio a cui è seguito un inevitabile inverno di autoritarismi, terrorismo e guerre civili, le proteste egiziane (insieme alle mobilitazioni in Sudan e Algeria) ricordano che i processi innescati quasi 9 anni fa dall’auto-immolazione di Mohammed Bouazizi in Tunisia sono lungi dall’essersi dispiegati ed esauriti.1 Le rivolte del 2011 non sono state le “rivoluzioni di Facebook”, ma fenomeni con origini molto più profonde e complesse.

Le possibilità aperte e sperimentate allora sono una memoria collettiva che non si cancella facilmente.

“Mi sono detto di non sperare più, perché tutto è contro di noi. Ma eccomi qui, un’altra volta. Non impariamo mai. Eppure, nonostante tutti questi colpi, sono quasi contento che questa è la lezione che non abbiamo imparato. Questa è la lezione che non impariamo mai, la lezione che non vorremo mai imparare”.

Wael Eskandar

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