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09/10/2019

Il Joker e l’odio di classe

“Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare.” (Edoardo Sanguineti)

La settimana passata è arrivato al cinema il Joker di Todd Phillip, e ci ha consegnato una terza iconica versione cinematografica del personaggio della DC Comics, dopo quella interpretata da Jack Nicholson (diretto da Tim Burton) e da Heath Ledger (nel secondo capitolo della trilogia del cavaliere oscuro di Nolan).

Il film con protagonista Joaquin Phoenix è un film molto cupo, angosciante e disturbante, che ha buone probabilità di lasciare uno spettatore turbato, e che non a caso sta suscitando molte polemiche negli USA. Il debito nei confronti della filmografia di Martin Scorsese, che infatti era inizialmente legato al progetto come produttore, è evidente, ed esteticamente il film regala delle sequenze di grande pregio artistico.

La sua vittoria a Venezia ha suscitato scalpore, e molti si sono stupiti che un “cinecomics” avesse guadagnato un premio così prestigioso. Posto che “cinecomics” è un termine sostanzialmente insensato (i fumetti sono un media molto variegato, e connotare un film in quanto tratto da un fumetto ha lo stesso senso che connotarlo in quanto tratto da un libro), lo stupore è parzialmente giustificato dal fatto che non tanto il film deriva da un fumetto, ma proprio da quel mondo supereroistico (e dal pantheon dei personaggi di una delle due case editrici maggiori) che fino ad ora avevano ispirato film di tutt’altro genere.

Questo Joker è elegantemente collocato nell’universo narrativo di Batman, ma affronta un personaggio già reinterpretato decine di volte in una maniera inedita, affrontando temi problematici e controversi.

Innanzitutto è la prima volta (ma non sono assolutamente un’autorità in materia quindi potrei sbagliarmi) che vedo il Joker presentato come un malato mentale. Non come un pazzo cartonato, non come un genio del crimine, ma come una persona affetta da una patologia, derivante da una vita di abusi, traumi ed emarginazione sociale. La follia del Joker non viene (quasi per niente) glamourizzata, ma rimane per tutto il film un disturbo reale e realistico, magistralmente resa da un Joaquin Phoenix che la telecamera non abbandona per un secondo. La recitazione sopra le righe, esagerata addirittura, di Phoenix ben rende il disagio di una persona che non si comporta “normalmente”, che non riesce a nascondere il profondo disturbo che lo riempie e che è tragicamente consapevole sia di quanto questa sofferenza sia visibile sia di quanto disagio crei in chi gli sta intorno.

Ma il principale elemento di novità consiste nel fatto che si tratta del primo film Hollywoodiano, per quanto posso ricordare, che affronta direttamente del tema dell’odio di classe. Attenzione, non è assolutamente la prima volta che una produzione americana parla di conflitto di classe, anzi. Il tema della lotta di classe necessariamente appare nella produzione artistica, anche di massa, in un sistema capitalista, e in particolare dall’inizio della crisi è stato un fiorire di film che pongono la questione della contrapposizione tra una élite e la massa della popolazione.

Ma conflitto di classe e odio di classe sono due cose distinte, e per la prima volta qui si parla dell’odio puro nei confronti dei padroni del mondo, di chi ha una posizione sociale dominante. Un odio intorno al quale non si costruisce una giustificazione morale e che, in realtà, non si indaga neanche particolarmente: viene presentato come una cosa pura, primitiva, una condizione di fatto.

Una caratteristica peculiare è che questo odio di classe non si riduce ad una storia individuale. Quella del personaggio di Arthur Fleck (il vero nome di questa versione della nemesi di Batman) non è una storia di odio di classe. È una storia di disperazione, di abusi, di malattia mentale. I suoi omicidi non hanno alcuna pretesa di giustificazione sociale: Arthur ammazza persone che gli hanno fatto torto, indipendentemente dalla loro posizione nella società.

No, l’odio di classe è il contesto all’interno del quale la storia del Joker si dispiega.

La tensione sociale è chiara dai primi minuti del film, in cui ci viene presentata una città messa in ginocchio da uno sciopero a oltranza dei netturbini. La Gotham che ci presenta Phillips è lancinata da fratture sociali che nel climax del film si manifesteranno in tutta la loro potenza.

La storia personale di Arthur si intreccia dialetticamente con questo contesto durante tutto il film: il suo primo (triplice) omicidio è quasi di auto-difesa, verso sì dei finanzieri membri dell’élite cittadina, ma quasi per caso – solo il giorno prima era stato picchiato con dinamiche simili da ragazzini dei quartieri popolari.

È la città a riempire questi omicidi di significato sociale. La stampa ipotizza che i tre fossero stati uccisi in quanto ricchi, l’élite cittadina (incarnata da Thomas Wayne) parla di invidia sociale e con disprezzo definisce “clown” tutti coloro che non hanno combinato niente nella vita, e sempre più persone si riappropriano di questo termine, indossano maschere da pagliaccio, manifestano contro il potere e contro i ricchi. I giornali arrivano al punto di titolare “Uccidere i ricchi – Un nuovo movimento?”. Tutto questo non è parte di un piano diabolico del Joker, ma è la reazione spontanea di una società attraversata da brucianti contraddizioni.

Le azioni di Arthur influenzano quindi la società, e al contempo le azioni della “massa rabbiosa” hanno conseguenze dirette sulla storia di Arthur: sia a livello psicologico, facendolo sentire importante, facendogli sentire “che esiste”, sia, in almeno due occasioni, a livello pratico - quando approfittando della folla riesce a entrare a teatro e quando è inseguito dai due detective.

Arthur subisce gli effetti delle reazionarie politiche di austerità quando lo sportello psicologico che lo aveva in carico chiude, e lui si trova impossibilitato a procurarsi le medicine di cui ha bisogno. Tuttavia le motivazioni di Arthur non diventano mai direttamente quelle della folla che a lui si ispira.

Anche la sua avversione verso Thomas Wayne è legata non tanto alle loro differenti posizioni sociali, quanto ai deliri della madre (probabilmente, anche se sulla credibilità di Penny Fleck rimane un elegante ambiguità). Tant’è che poi se ne disinteressa, ed elegge come vittima “di spessore” un comico famoso che lo aveva sfottuto durante la sua trasmissione, un “collega” percepito che sì aveva successo (a differenza sua) ma soprattutto che gli aveva fatto un torto diretto.

Arthur ha il suo personale percorso verso la follia, non diventa un avatar del riscatto sociale. In questo film non abbiamo l’incarnazione delle classi sociali in personaggi rappresentativi, secondo un compasso morale chiaro – un artifizio solitamente usato da quella tradizione cinematografica che affronta il contrasto tra masse e una élite privilegiata, spesso attraverso una lente distorta che se va bene è molto liberal (Timeless, Akira, Elysium e molti altri) se non beceramente reazionaria (vedi, rimanendo nell’universo narrativo di Batman, the Dark Knight Returns). Joker non è un paladino della working class, e Thomas Wayne, per quanto detestabile, non è il classico borghese malvagio (probabilmente, come dicevamo). Allo stesso tempo Joker non diventa mai il pazzo psicotico assoluto con cui nessuno potrebbe empatizzare: risparmia la vita al collega nano e probabilmente, ma la cosa è lasciata volutamente ambigua, anche alla vicina di casa. Non è un cattivo senza “assoluto” come il Bane di Tom Hardy, per dire, contrapposto ad un guardiano dell’ordine costituito (Batman).

Un aspetto fondamentale del film è che la trasformazione da Arthur a Joker non è affatto brusca, né soprattutto è radicale quanto poteva essere. Mi spiego, basandomi sui trailer e sulla storia (almeno, alcune delle storie) del personaggio, io mi aspettavo una trama tipo: quello che poi sarebbe diventato il Joker era una persona normale, emarginata socialmente, vessata dal mondo e in particolare dal malvagio capitalista Thomas Wayne, che a un certo punto non ce la fa più, sbrocca e diventa il super-cattivo che tutti conosciamo, riversando la sua vendetta contro la società intera.

Il film che invece Phillips ha deciso di raccontare è un altro, pur con degli elementi in comune con la mia idea preconcetta. Intanto un primo sbrocco ce l’abbiamo quasi subito, ma le conseguenze psicologiche non sono istantanee, tardano a manifestarsi. Ma soprattutto Joker non diventa mai un super-cattivo: non acquisisce mai quella perfidia, quel genio caotico quasi sovra-umano che ha caratterizzato il personaggio nelle sue precedenti versioni. Joker, anche quando diventa effettivamente tale, rimane umano, rimane un malato di mente, rimane vulnerabile e in balia degli eventi.

E sono gli eventi infatti a portare la storia avanti per lui nella sequenza finale del film. Per questo dico che è forse il primo film Hollywoodiano che vedo che ha come tema centrale l’odio di classe, quello collettivo e anonimo. L’exploit finale, l’esplosione, la rottura, il climax di tutto il film, ovvero il riot che mette a ferro e fuoco la città, non è opera del Joker, ma della società di Gotham stessa. Lo sbrocco in diretta di un folle è solo la miccia che infiamma la prateria, una prateria che comunque poche ore prima era abbastanza calda da pestare a sangue due poliziotti.

Le masse informi dei diseredati della città, resi anonimi e terrificanti dalle maschere da pagliaccio, fanno proprie le parole del Joker “you get what you deserve” e riversano la loro rabbia cieca contro la società responsabile della loro condizione e contro chi questa società la guida. Al punto che il film ci regala una versione inedita di una delle scene più iconiche della mitologia di Batman: l’omicidio dei genitori.

Philips riprende gli elementi classici di una sequenza raccontata decine di volte (il film di Zorro, il vicolo, la collana), ma trasforma una rapina in un omicidio mirato e motivato dall’odio viscerale verso i potenti di questo mondo. E la classica collana di perle si trasforma da refurtiva a simbolo del privilegio e della ricchezza, strappato con violenza da chi era sempre stato escluso dal benessere sociale.

In conclusione, il Joker di Todd Phillips è un film che sorprende, per i temi trattati e in particolare per la mancanza di un compasso morale chiaro e definito, che solitamente caratterizza le produzioni americane. È difficile, e forse anche un esercizio inutile, capire il livello di consapevolezza con cui un regista con alle spalle film ben poco impegnati (diventato famoso per aver girato la trilogia di Una notte da leoni) ci ha donato un film che tocca uno dei nervi scoperti della società senza inserirvi i classici meccanismi di salvaguardia dell’ordine costituito.

Ma sembra che la coscienza dell’insostenibilità di un sistema sociale che condanna fette sempre più grandi della popolazione alla miseria si stia facendo sempre più strada anche ad Hollywood.

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