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12/06/2022

Un salario meno che minimo: una farsa europea

La vicenda della direttiva europea sul salario minimo è un ottimo esempio di quello che le istituzioni europee possono fare in concreto per migliorare la vita dei lavoratori: nulla. L’esempio è istruttivo per due ragioni, una di merito ed una di metodo, strettamente intrecciate tra loro.

La ragione di metodo discende dal tortuoso percorso seguito dalla bozza di direttiva, proposta dalla Commissione europea nel 2020, poi sottoposta ad una lunga consultazione e, nella notte tra il 6 e il 7 giugno scorsi, fatta oggetto di un accordo tra i due legislatori europei, il Parlamento europeo ed il Consiglio dell’UE. Per comprendere questo lungo e (come vedremo) inconcludente percorso legislativo siamo costretti a scavare nelle fondamenta dell’Unione europea, e cioè in quei Trattati istitutivi che ne disciplinano le funzioni essenziali, i poteri e le competenze.

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al Titolo X dedicato alla Politica Sociale, menziona nell’art. 151 il “miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro” tra gli obiettivi dell’Unione. Un principio molto nobile, che trova la sua articolazione nel successivo art. 153, secondo cui l’Unione persegue tale obiettivo sostenendo e completando l’azione degli Stati membri in una serie di settori che include, al paragrafo 1, lettera b, le “condizioni di lavoro”.

In questo settore, prosegue il paragrafo 2, lettera b del medesimo articolo, i legislatori europei “possono adottare ... mediante direttive, le prescrizioni minime applicabili progressivamente”. In altri termini, l’Unione europea può intervenire in tema di condizioni di lavoro con una direttiva, cioè con uno strumento normativo che vincola solamente nell’obiettivo (si parla qui di “prescrizioni minime applicabili”), lasciando libero ogni Stato membro di raggiungerlo con il percorso normativo più idoneo al proprio assetto istituzionale. Tutto lascerebbe intendere che vi sia lo spazio per fissare, come ci stanno raccontando in queste ore, un salario minimo europeo, che sarebbe un prezioso strumento di tutela del lavoro, un argine al cosiddetto lavoro povero.

Peccato che lo stesso art. 153 si concluda con il paragrafo 5, che recita testualmente: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata.” Non si poteva essere più chiari, più espliciti, più netti di così nel definire il perimetro entro cui l’Unione europea esercita il suo potere vincolante nei confronti degli Stati membri. Nessuna ingerenza dell’Unione è prevista nella determinazione delle retribuzioni e nei più fondamentali diritti di associazione sindacale e di sciopero.

Basta dunque leggere i Trattati che disciplinano il funzionamento dell’Unione europea per capire che una direttiva in tema di salario minimo può essere solo un esercizio di stile, una roboante dichiarazione di principi sulla necessità di garantire condizioni di vita dignitose ai lavoratori europei e nulla più. Ed infatti, leggendo il comunicato stampa del Consiglio dell’UE sull’accordo raggiunto con il Parlamento europeo, apprendiamo che la direttiva si comporrà di due pilastri, uno più ridicolo dell’altro.

Il primo pilastro riguarda i Paesi membri che hanno già un salario minimo nella loro legislazione, e richiede (tenetevi forte!) che questi “realizzino uno schema procedurale per fissare ed aggiornare questo salario minimo secondo un insieme di criteri chiari.” Questo serve a capire cosa sia il nulla di cui parlavamo prima: un mero esercizio metodologico da offrire in pasto alla burocrazia europea per mostrare che la fissazione del salario minimo, lì dove è già normata, segua un qualche criterio formalmente accettabile.

Ma il nulla non finisce qui. L’adeguamento del salario minimo all’inflazione – un tema caldissimo in un frangente in cui la rincorsa dei prezzi ai costi dell’energia divora il potere d’acquisto dei salari – dovrà avvenire “al più tardi ogni quattro anni per i Paesi che individuano un meccanismo di indicizzazione automatica”, mentre per i paesi che non si doteranno dell’indicizzazione questo periodo dovrebbe essere di due anni. Anche se non si capisce a cosa farebbe riferimento questa indicizzazione (per chi ce l’ha...), non ci vuole un dottorato in economia per capire che un adeguamento completo dei salari ai prezzi calibrato su un orizzonte temporale così esteso – fino a quattro anni! – equivale ad una perdita secca. Fatichi ad arrivare alla fine del mese? Fatti coraggio, alla fine del quadriennio ci sarà un adeguamento del salario minimo all’inflazione!

Il secondo pilastro riguarda quei Paesi in cui la contrattazione collettiva copre meno dell’80% dei lavoratori, e richiede (allacciate le cinture!) che questi “definiscano un piano d’azione per la promozione della contrattazione collettiva”. Di nuovo, imperativamente, il nulla.

Su questi due pilastri, se così possiamo chiamarli, Consiglio dell’UE e Parlamento europeo stanno definendo gli ultimi dettagli della direttiva che dovrà poi essere votata da entrambe le istituzioni. A quel punto... bé, per questa rivoluzione occorrerà aspettare ancora un po’: è lo stesso comunicato stampa del Consiglio UE a confessare che “gli Stati membri avranno a disposizione due anni per trasporre la direttiva nella legislazione nazionale”. Insomma, l’Unione europea ha preso il coraggio a quattro mani e ha abbozzato una direttiva che chiede per favore agli Stati membri – ma solo a quelli che hanno già un salario minimo – di adeguare quel salario minimo all’inflazione in qualche maniera tra circa sei anni. Davvero, come dice il Partito Democratico, “un passo decisivo per la costruzione dell’Europa sociale”.

Se tutto questo non bastasse a dimostrare l’assoluta inconsistenza della proposta europea in tema di salario minimo, provate a mettervi nei panni di un lavoratore a) così sfortunato da vivere in un Paese europeo in cui non c’è alcuna normativa sul salario minimo e b) così fortunato da vivere in un Paese in cui la contrattazione collettiva copre già più dell’80% dei lavoratori. Già, stiamo parlando proprio dell’Italia, un Paese a cui non si applica nessuno dei due “pilastri” della nuova e folgorante direttiva europea. Una direttiva che non impone l’introduzione del salario minimo ai Paesi che non hanno previsto questo strumento e non impone alcun rafforzamento della contrattazione collettiva ai Paesi che hanno già un sufficiente grado di copertura. Insomma, una direttiva completamente inutile per i lavoratori italiani.

L’obiettivo è vago, non c’è alcun vincolo su modi e tempi, né meccanismi di verifica condivisi. È una misura fatta per non incidere su nulla: propone due vie per garantire un salario dignitoso, o il salario minimo o la maggiore diffusione della contrattazione collettiva, lasciando completa libertà di scelta ai Paesi. Dunque, nei paesi dove c’è già il salario minimo, non serve perché lo strumento già esiste e non impone alcun miglioramento né tantomeno diffusione della contrattazione collettiva. E nei paesi dove è diffusa la contrattazione collettiva (come l’Italia), non serve perché non impone l’introduzione del salario minimo né tantomeno alcun rafforzamento dei sindacati. Insomma, il nulla.

Chiudiamo questa breve riflessione con la ragione di merito che, a nostro avviso, rende interessante tutta questa storia. Abbiamo visto che l’inutilità della direttiva europea non è un caso – magari connesso agli equilibri politici del momento – ma è radicata nell’architettura istituzionale dell’Unione europea, che impedisce alle istituzioni europee di incidere sui fattori chiave delle condizioni di lavoro, ossia su remunerazione, sindacalizzazione e scioperi.

Per capire il senso di questo assetto, il significato di questa impotenza europea in tema di salari, proviamo a volgere lo sguardo verso le materie che, al contrario, i Trattati affidano alla legislazione esclusiva dell’Unione europea, sottraendole al potere degli Stati membri e concentrandovi tutto il potere delle autorità europee: dazi, concorrenza, politica commerciale e politica monetaria. L’Unione europea si regge sulla libertà della produzione di spostarsi lì dove è più conveniente, ovvero la libertà di movimento dei capitali, e sulla libertà di continuare a vendere le proprie merci in tutti i Paesi europei, ovvero la libertà di commercio interno. Le istituzioni europee, disegnate dai Trattati, nascono in altri termini per garantire ai capitali di muoversi liberamente tra i Paesi europei alla ricerca delle condizioni più favorevoli per accrescere i profitti. Ma cosa sono, in ultima istanza, queste “condizioni più favorevoli”, se non le peggiori condizioni di lavoro – cioè proprio salari, sindacalizzazione, libertà di sciopero – che consentono alle imprese di sfruttare al meglio il lavoro e, dunque, di rendere massimi i propri profitti?

L’Unione europea nasce per tutelare i profitti di pochi, e quindi si fonda sulla necessità del capitale di mantenere bassi i salari, in modo da conservare e alimentare in Europa un habitat ideale per lo sfruttamento del lavoro. Se i lavoratori vogliono difendersi dal carovita non devono chiedersi cosa l’Unione europea possa fare per loro (lo abbiamo visto: non può fare assolutamente nulla), ma devono piuttosto chiedersi cosa possono fare loro per smantellare quell’organizzazione sociale basata sullo sfruttamento e sulle disuguaglianze.

Nel frattempo, se si vuole sostenere davvero il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori ed evitare che questi siano costretti a pagare l’ennesima crisi, serve una legge sul salario minimo di almeno 10 euro lordi l’ora, la cui introduzione comporterebbe – questa sì! – un aumento dello stipendio in busta paga per oltre 5 milioni di persone. Il salario minimo può essere una misura di civiltà e un argine all’aumento del costo della vita, peccato che la direttiva europea si riveli solo una misura di marketing senza conseguenze reali sulle condizioni materiali dei lavoratori.

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