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19/08/2023

[Contributo al dibattito] - Egemonia e rivoluzione

di Nico Maccentelli

Introduzione

Questo intervento non vuole dare certo un quadro esaustivo dell’attuale fase politica italiana e internazionale, ma articolare alcuni aspetti politici, che sino a oggi non mi risulta siano stati sviscerati con compiuta contezza.

L’eredità analitica della Terza Internazionale, ci diceva che i processi rivoluzionari hanno delle proprie peculiarità in base alle composizioni sociali e ai rapporti tra le classi sociali, seguendo uno schema interno alle diverse formazioni economico-sociali: rivoluzioni democratico-borghesi nei paesi in via sviluppo (o sottosviluppati) con diverse gradazioni in base al livello raggiunto dalle forze produttive e alla crescita dei mezzi di produzione del capitale nella formazione delle classi operaie, fino alle rivoluzioni proletarie socialiste a guida proletaria nei paesi a capitalismo avanzato. Ora nel sistema mondo, per essendoci ancora le diverse gradazioni di sviluppo e la diversità delle composizioni sociali, non si può non aver capito come la questione nazionale sia in realtà questione dirimente anche nelle società complesse, di fronte a un dominio imperialista fortemente gerarchizzato che ridisegna le colonie e neocolonie anche dentro la catena dei paesi imperialisti stessi.

Le lotte per l’emancipazione di settori sociali e di classe, per la liberazione della donna, per l’indipendenza nazionale, sono tutte parti di un mosaico che definisce nella sua generalità la lotta di classe nel sistema capitalista. Dentro questo sistema vigente vi sono forme di egemonia e di oppressione differenziate che vanno a comporre un mosaico assai frammentato. Le lotte non seguono un percorso e non hanno un posizionamento definito, ma sono divise e spesso anche in conflitto tra loro.

Tuttavia, le particolarità rischiano di fuorviare la direzione rivoluzionaria giusta nei conflitti sociali e ogni particolare rischia di assumere una sua centralità. È il limite contraddittorio delle istanze sociali spesso giuste e sacrosante, ma che non colgono più il cuore del problema dell’oppressione generale da parte dell’imperialismo sui soggetti, sicché ciò favorisce quel lavoro controrivoluzionario che stiamo vedendo nelle “rivoluzioni” e nei movimenti colorati.

Un primo passo per comprendere se delle istanze di liberazione siano manipolate e usate contro la rivoluzione socialista o siano nella direzione giusta è appunto la direzione stessa che prendono nel conflitto, la scelta di campo. L’egemonia sociale, ma soprattutto politica (in dialettica tra loro) definiscono il carattere rivoluzionario o quanto meno progressivo di un processo. Per meglio intenderci vanno fatti esempi concreti.
 Un esempio tipico riguarda il Rojava da una parte e l’Ucraina dall’altro.

Due contesti che rivelano come i nostri fan della rivoluzione curda abbiano preso un abbaglio, riportando meccanicamente la Resistenza del popolo curdo, il municipalismo comunitario dell’autogestione popolare democratica dei popoli in quella zona, in una frase: l’autodeterminazione dei popoli in un contesto in cui questa no c’è. L’Ucraina: la direzione politica e le forme di gestione del potere sono addirittura naziste banderiste, non vige certo alcuna resistenza di popolo ma una direzione dall’alto della NATO nella guerra contro la Russia, dopo anni di aggressione sanguinaria alle popolazioni russofone del Donbass. Semmai è nel Donbass, tra la popolazione russofona che si è ripresentata questa questione, dopo il golpe di Euromaidan e una vera e propria pulizia etnica da parte dei nazi banderisti. Semmai è la miriade di azioni di Resistenza alla repressione della SBU (servizi segreti, la Gestapo ucraina), atti di diserzione, tentativi di espatrio e di darsi alla macchia per non divenire carme da cannone a rappresentare l’autodeterminazione del popolo.

Il primo processo di guerra rivoluzionaria contro poteri esterni (la Turchia), ossia quello curdo nel Rojava è a direzione popolare dal basso, esattamente come lo zapatismo o le guerriglie come quella filippina. E poco importa, in questo caso, se tatticamente può avere avuto un sostegno militare degli USA, nel fornire loro appoggio contro il Daesh. Qui siamo davvero su un terreno della tattica come fu per il CLN e in particolare i comunisti nella guerra al nazifascismo del 1943-45, dove l’apporto militare degli alleati (paesi imperialisti) fu addirittura decisivo per la Liberazione.

Il secondo è il mero esercizio sotto il giogo anglo-euroimperialista di un regime nazista che ha soppresso in Ucraina le più elementari libertà democratiche, perseguito le opposizioni, adottato assassinii e torture come prassi dominanti, in un quadro politico nei rapporti tra potere e opposizioni del tutto inesistenti. Un paese terrorista che nel perseguire le politiche di potenza e di aggressione dell’unipolarismo, non determina nulla a vantaggio delle masse popolari di quel paese.

Dunque fa specie che personaggi della sinistra radicale, “libertari” che hanno vissuto l’esperienza del Rojava, o sindacalisti di base, o ancora realtà che si dicono autonome, municipaliste o anarchiche finiscano con il sostenere i nazi-banderisti del governo di Kiev e in ultima analisi la NATO.

1. Cosa ha significato la lotta politica di massa in questo periodo di pandemia da Covid-19: indipendenza e classe

Molti soggetti e piccole organizzazioni si sono battute in questi tre anni contro le restrizioni che sono state adottate dai sistemi politici dominanti e contro l’imposizione dei sieri genici alla popolazione. C’è chi si è limitato a vedere la questione come un attacco alle libertà civili che definisco borghesi, ossia nate dai cambiamenti messi in atto dalle borghesie liberali negli ultimi duecento anni, considerandoli come libertà assolute ed esaustive, ma senza inquadrare il problema dentro gli scopi fondamentali dei ristretti ceti dirigenti che sono essenzialmente quelli del capitalismo dominante.

Questo insieme di vertenze avevano il denominatore comune nei principi costituzionali che sono inscritti nella nostra Carta, nella visione di una loro applicazione che non si è mai realizzata e quindi della conquista finalmente di una sovranità nazionale, del popolo per il popolo.

La comprensione di un passaggio autoritario di portata epocale, ossia che ha chiuso e aperto un’epoca nuova per le democrazie liberali nel divenire democrature: democrazie borghesi senza nemmeno una soglia minima di rappresentatività, non ha corrisposto a una piena comprensione di questo passaggio, poiché la fase precedente è stata letta da una pletora di apprendisti dell’antagonismo interclassista come un periodo ideale, democratico, non viziato (in realtà) dalle politiche di regime delle classi dominanti del capitale e quindi priva di un’analisi marxista rivoluzionaria che ci porti dalla fase precedente a quella attuale con una lettura politica coerente.

Infatti, dopo il ciclo espansivo del capitalismo nel secondo dopoguerra del secolo scorso, alla crisi strutturale e di sistema si accompagna da circa quattro decenni una risposta neoliberista di distruzione dello stato sociale e della politica keynesiana con l’inizio del tatcherismo e reaganismo e a una progressiva separazione tra democrazia rappresentativa e politica coercitiva dominante di tali ceti basata sul TINA: there is not alternative. Questo passaggio politico autoritario è il prodotto storico ed epocale di questo processo di dominio di classe e di sistema a livello planetario, con il quale procede l’imperialismo, ossia la catena di paesi imperialisti a dominanza USA.

Considerata questa traiettoria politica di sistema, il passaggio pandemico coincide con l’avvento di un totalitarismo dei grandi gruppi oligopolistici multinazionali e finanziari sul resto dei settori sociali, compreso il piccolo capitalismo e le attività territoriali di prossimità. Dunque, le restrizioni delle più elementari libertà, per un approccio marxista al problema, rappresentano una vera e propria svolta autoritaria, biopolitica, tecnologica di controllo e irreggimentazione dei rapporti sociali e di produzione e circolazione del capitale, che oppongono le oligarchie transnazionali del capitale al resto della società che vive e produce in un dato territorio.

Per questo, le lotte dei sabati contro il greenpass e l’obbligo vaccinale, contro il lockdown e le norme che di sanitario non avevano nulla, sono elemento fondamentale sia sul terreno della questione nazionale, dell’indipendenza dall’oligarchia sovranazionale del capitalismo, sia su quello della lotta di classe tra basso contro l’alto, tra classi popolari che vanno dal proletariato più o meno precario ai ceti medi colpiti da tale irreggimentazione, contro i ceti politici di regime e gli apparati che dentro lo stato capitalista conducono per campagne emergenziali, in modo bipartisan, destra o sinistra che sia, gli interessi del TINA, dalla pandemia alla guerra. Occorre pertanto comprendere che la politica di questo sistema di potere del grande capitale degli oligopoli multinazionali e finanziari ha due fronti:

a) un fronte esterno di riaffermazione manu militari dell’egemonia atlantista messa in discussione dalle tendenze economiche e geopolitiche al multipolarismo di popoli e paesi sul piano internazionale, ben rappresentata dal suo epicentro bellico (su cui non mi soffermo per ragioni di spazio) della guerra in Ucraina, gravida di un’escalation autodistruttiva in una guerra su vasta scala, dove l’obiettivo è separare la Russia dall’Europa e sottomettere quest’ultima al disegno suprematista dell’anglosfera a dominanza USA;

b) un fronte interno, in cui il grande capitale finanziario e multinazionale riconduce le filiere, i flussi di capitale, i rapporti commerciali e di committenza, le modalità consumistiche, l’accesso alle risorse, i sistemi di relazioni sociali e di welfare, la catena del valore sotto il proprio diretto controllo, configurando questo totalitarismo politico, tutt’altro che transitorio. In questo si spiega il superamento della democrazia borghese liberale e non certo il suo trionfo. Per questo anche se spontaneamente e istintivamente sono scese in campo componenti di borghesia colpita da questa irreggimentazione.

Questa duplicità delle questioni pone una duplicità nella lotta per l’egemonia. Ma questo lo vedremo in seguito, sul finire di questo saggio.

2. Lo scenario internazionale

Nello scenario internazionale vediamo due tendenze scontrarsi:

– quella egemonica dell’imperialismo atlantista a dominanza USA e i suoi vassalli, i paesi imperialisti come UE, Canada, Giappone e Australia;

– e dall’altra potenze mondiali e regionali capitaliste come Cina e Russia, India ossia i BRICS, ma anche paesi che procedono in processi di transizione al socialismo, da Cuba al Vietnam, dalle esperienze sudamericane di ALBA e il bolivarismo.

Questa seconda tendenza rappresenta nel complesso quella parte maggioritaria di mondo che non costituisce un blocco omogeneo come quello atlantico. Sono paesi spesso in frizione tra loro, ma che rappresentano la spinta alla decolonizzazione, ossia a rompere i vincoli coloniali e neocoloniali della supremazia dell’Occidente che fino ad oggi si è espressa con lo sfruttamento delle risorse, il monopolio commerciale e finanziario: dall’egemonia del dollaro a quella del franco CFA. È uno scenario diverso dalla tripartizione di mezzo secolo fa tra capitalismo, socialismo e paesi non allineati, ma è comunque l’espressione che assume oggi la contraddizione globale tra imperialismo e popoli emergenti, per la quale un sincero schierarsi verso questi ultimi, al di là dei singoli sistemi politici in campo, costituisce una scelta di campo strategica antimperialista e internazionalista.

Questo schierarsi con il multipolarismo e la decolonizzazione, con tutte le loro contraddizioni sociali e culturali, non significa ripudiare lotte sacrosante come la laicità dello stato contro le teocrazie, l’emancipazione della donna o la stessa lotta proletaria contro gli specifici capitalismi, ma comprendere che l’emancipazione globale dal lavoro salariato, la democrazia socialista dei consigli e della socializzazione dei mezzi di produzione passa strategicamente dall’individuazione del nemico principale su scala planetaria, che è unipolare e suprematista sul piano economico, dalla sua sconfitta e dall’affermazione di un sistema mondiale multipolare che aprirà a nuovi cicli di lotte popolari in ogni specificità, ma soprattutto ci farà uscire dallo spettro sempre più imminente di un conflitto atomico. E dalla polvere radioattiva non nasce nessuna società democratica, né tanto meno socialista. Così come, nella migliore delle ipotesi, non nasce certo da un’imposizione bio-tecno-fascista di modelli di sfruttamento e consumo basati su un sempre più goebbelsiano sistema mediatico di consenso valoriale. Non nasce nulla di buono da un società della sorveglianza discriminatoria e selettiva sui comportamenti compatibili e acquiescenti, aderenti alle varie emergenze imposte e alle campagne del terrore allarmistico di cui il capitalismo unipolare si nutre e domina.

Occorre dunque riappropriarci di una politica del cambiamento radicale dei rapporti sociali e di forza tra classi, a partire dalla composizione sociale, dai settori sociali che nel nostro paese ci troviamo ad avere, per quello che essi sono, senza rievocare rivoluzioni del passato nelle modalità in cui sono avvenute e costruirci mentalmente proletariati granitici e coesi, che esistono solo nei giornaletti e nei proclami di una sinistra comunista ormai in confusione e priva di una visione realistica della fase e del contesto socioeconomico e culturale che ha davanti a sé.

Occorre comprendere le contraddizioni economiche e sociali, e quindi politiche, della nostra contemporaneità, che muovo dialetticamente bidirezionalmente dal generale al particolare e dal globale al locale, riconoscendo in questa dialettica le tre contraddizioni fondamentali dell’epoca attuale.

3. Le tre contraddizioni

Partendo dal generale e arrivando al particolare, dal mondiale al locale, ci troviamo davanti a tre contraddizioni entro le quali operare, senza distorsioni meccanicistiche e nostalgie del passato che fu.

1. La contraddizione tra imperialismo e popoli/paesi (già trattata nel punto precedente), dentro la quale in chiave capitalistica o welfariana-statalista, pur burocratica ci stanno varie forme di capitalismo regionale o nazionale. Ma anche esperienze di carattere socialista, come il bolivarismo. In sintesi: la contraddizione tra unipolarismo e multipolarismo. Da una parte abbiamo un blocco coeso di paesi imperialisti che riproducono, o intendono farlo, le dinamiche di accumulazione capitalistica di sempre, di stampo predatorio coloniale e neocoloniale, di supremazia negli scambi basati sul dollaro, di controllo dei flussi economici sulle materie prime, sulle filiere, sulla ripartizione dei mercati e sulle politiche di sfruttamento intensivo della forza-lavoro. Dall’altra il resto del mondo, piuttosto diversificato per realtà economico-sociali e culturali.

A questa politica di supremazia, quindi, non corrisponde un blocco contrapposto omogeneo, se non un’alleanza tra due potenze: Cina e Russia. Il resto è una rete di partenariati a livello mondiale, coordinati da alleanze economiche come i BRICS o l’alternativa alla Banca Mondiale: NDB (New Development Bank), che sta attraendo sempre di più paesi. Più che di “interimperialismo” (con buona pace delle tesi neutraliste e manichee nel loro essere dottrinarie quanto eurocentriche) si tratta di uno scontro tra il dominio colonialista e predatorio ultrasecolare del sistema imperialistico occidentale e il processo di decolonizzazione e sganciamento della parte di mondo fatta di questi paesi e popoli in via di sviluppo.

2. La contraddizione dentro le nazioni stesse tra le diverse frazioni di capitale e di borghesia, che corrisponde del resto a quelle frazioni capitaliste che rispondono alle politiche di potenza del capitalismo unipolare e delle sue cancellerie occidentali e dall’altra quel piccolo capitale che ha i propri interessi economici e le sue attività sul territorio di riferimento.

In definitiva è la contraddizione interna agli stati nazione tra classi capitaliste locali, nazionali e imperialismo atlantista unipolare. E anche in questo caso vive la lotta di classe tra diverse frazioni borghesi: capitale sovranazionale delle oligarchie dell’alta finanza e delle multinazionali e piccolo capitale, borghesia nel vero senso della parola, ossia che ha i suoi interessi prevalenti nel borgo, mentre questo viene devastato dalle grandi filiere della produzione multinazionale, della logistica che impone nuove modalità di accesso alle merci e al consumo, l’amazonizzazione della circolazione del capitale. A farne le spese, dunque, è anche l’economia di prossimità. E anche in questo caso dentro i settori sociali legati al territorio abbiamo la composizione di classe proletaria, spesso non facilmente distinguibile se non dal fatto che il TINA delle politiche neoliberiste imposte dal grande capitale oligopolistico ha imposto il blocco dell’ascensore sociale e la pauperizzazione o proletarizzazione di vasti settori di piccola e media borghesia. Sicché ci si chiede se una famiglia composta da un piccolo commerciante ortofrutticolo con moglie operaia in cassa integrazione è proletaria o piccolo borghese. O ci si chiede per esempio se un impiegato licenziato che si mette a fare il fontaniere con partita IVA è collocabile sempre nella medesima categoria del lavoro subordinato o cosa un operaio o cosa. Una visione schematica dell’esercito industriale di riserva, dopo decenni in cui si è passati dall’operaio massa all’operaio sociale, e in cui abbiamo avuto forti cambiamenti tecnologici nei processi di produzione, non solo non aiuta ma è fuorviante e occorre agire nell’ambito di una composizione sociale subordinata estremamente (questo sì) fluida e mobile dentro i recinti dello sfruttamento capitalistico nelle sue varie modalità di lavoro subordinato.

3. È precisamente questo il terzo punto: il proletariato con la sua contraddizione capitale/ lavoro esiste, è il cuore epocale e apicale del problema, la contraddizione di ultima istanza, che non va trascurata, ma fatta vivere dentro le altre contraddizioni. Chi la mette al centro tatticamente e meccanicisticamente agendo su vecchi schemi politici e modelli di classe anacronistici, elidendo, ossia, cassando le altre due contraddizioni è destinato a fare la fine che sta facendo: essere esterno e marginale allo scontro tra unipolarismo e multipolarismo, tra popoli ed élite, nel conflitto intercapitalistico e interborghese in atto, come se la questione non riguardasse il proletariato stesso. Significa costruirsi un recinto politico avulso dal resto della società e della classe stessa, dalla composizione sociale di classe, restringere il campo dei referenti sociali e condannarsi alla marginalità politica. E nel nostro paese la forza politica di un soggetto di classe non esiste proprio per questo. Si approda, per esempio, a un mutualismo missionaristico, che surroga la funzione del pubblico di welfare invece di rivendicarlo come sottrazione/riappropriazione di ricchezza sociale, pianificazione e centralità dei bisogni sociali delle classi popolari, ripensando a un ruolo socialista dello stato anche dentro un’economia di mercato (che diverrebbe così di transizione), con una forte presenza di settori sociali di piccola e media impresa che non possono certo essere kolkovizzati tutti d’un colpo.

In definitiva è questa la scommessa non solo dei comunisti, ma di tutte le forze realmente democratiche che intendono liberare il paese dalla dominazione di un imperialismo che ha la sua testa a Davos e non certo a Roma. Con buona pace di chi chiacchiera ancora di polo imperialista europeo: un consesso di paesi vassalli senza una politica economica che non sia interna ai processi di capitale continentali (dove la Germania la fa da padrona, ma solo dentro il perimetro del dominio USA), senza una politica estera di potenza (se eccettuiamo la Francia in Africa, anche in questo caso subordinata agli USA) che china la testa e accetta una guerra che va contro i suoi stessi interessi, contro scelte commerciali e di partner imposte da Washington dentro una catena imperialista strutturata dagli USA attraverso il G7 e la NATO e organismi di compensazione intercapitalistica come la Trilateral, il Bildelberg, l’Aspen.

Nei tre anni di lotte sociali contro il greenpass e l’obbligo vaccinale, soggetti e piccole forze come l’Assemblea Antifascista cGP di Bologna, più o meno consapevolmente hanno agito come piccoli nuclei di avanguardia, avendo come comune denominatore ideologico tra comunisti e libertari, l’anticapitalismo dentro un movimento ideologicamente borghese, incentrato sulle libertà civili e su una concezione generica di democrazia, ma a composizione sociale eterogenea tra ceti medi settori di proletariato precario ancora più precario sotto questo attacco. Con l’Assemblea Militante abbiamo avuto il primo esperimento di ingegneria tattica casualmente leninista, poiché uscito dall’ambito autoreferenziale per agire nell’insieme di un vasto movimento sottovalutato dai dogmatici abitudinari, divenuti addirittura ascari del regime nella sua torsione autoritaria biopolitica e tecnologica. Come i riformisti di sempre, attori al servizio del capitale nel nome di uno scientismo demenziale, con una concezione neutrale e non di classe (di critica sul piano euristico) della scienza borghese, improntata sul controllo sociale, dei soggetti e sulla massimizzazione del profitto di big pharma e, in ultima istanza di Black Rock, Vanguard e State Street. Esponiamo la questione con riferimenti politici precisi riguardo gli artefici della debacle di gran parte della sinistra di classe organizzata in questi tre anni: gran parte del sindacalismo di base, eccettuate componenti interne alla CUB e ad altre, ma anche gli svarioni di svariati centri sociali e, soprattutto, quella sinistra che si autodefinisce antagonista e che ha partecipato a diverse elezioni in questi ultimi anni.

La strada intrapresa invece dai nuclei d’avanguardia prima menzionati si è rivelata corretta: è stato il primo tentativo serio di operare una sortita fuori dalle “riserve indiane”, dai recinti politici e mentali, per relazionarsi con uno dei più vasti movimenti di massa degli ultimi decenni. Propositiva è stata la sua la presenza nel movimento di massa anti-GP, anche se non ha saputo sedimentare organizzazione di massa e politica d’avanguardia. Nei momenti di riflusso, come ora, deve però prevalere il lavoro di organizzazione, nell’ipotesi di costruzione di un fronte ampio dei soggetti e delle forze rimaste e di lavoro culturale per realizzare un processo di crescita egemonica dentro le lotte e i momenti aggregativi che ci sono e che ci saranno.

4. Per cosa e come lottiamo

Un cambiamento politico (rapporti tra forze politiche) e sociale (rapporti classe) può avvenire in tre modalità:

1. Hai dietro le masse come avanguardia e vai allo scontro sociale (opzione ideologizzata, vedi parole d‘ordine come “governo operaio”, ecc.), riducendo la lotta di classe alla sola questione “operaia”.

2. C’è una crisi di potere, data dalle contraddizioni tra forze di regime, nella quale irrompe l’incognita di quali di queste monopolizzerà un movimento sociale o partirà dalle posizioni di potere interna alle istituzioni, in chiave populista, ed effettuerà per esempio un colpo di mano istituzionale verso una fase elettorale o costituente plebiscitaria, anche attraverso la forzatura di un conflitto sociale. Ma tale fase è solitamente favorevole alle destre fasciste per quella visione centrata di Gramsci sul concetto di egemonia, dove la cultura nazionale rispecchia l’emergere di un sentimento popolare che in questo caso non prenderebbe una strada rivoluzionaria ma determinerebbe una sostituzione del blocco al potere con conseguente “orbanizzazione” del nuovo governo.

3. Un blocco popolare d’opposizione, populista, anti-sistema, che rappresenti l’interesse nazionale di più settori (maggioritari) della società: piccola borghesia produttiva, mondo precario e salariato, classi subalterne, che si uniscono in chiave anti-oligopoli finanziari e multinazionali in un patto politico patriottico di uscita dalla NATO e dalla UE per liberare l’Italia dal nodo scorsoio di queste élite atlantiste e unipolari. In pratica un terzo polo antagonista e alternativo agli altri due: da una parte le sinistre euroimperialiste e i loro lacchè più o meno consapevoli, con un PD centrale che rappresenta da anni il capitalismo delle multinazionali e della finanza da una parte, e dall’altra le destre che da Renzi-Calenda fino a Lega e Fratelli d’Italia rappresentano il tentativo di unire gli interessi del piccolo capitale con quelli oligopolistici del grande capitalismo sovranazionale.

a) Il primo è totalmente irrealistico e, va da sé, non c’è bisogno di spiegare che non avremo le masse proletarie dalla nostra né oggi, né domani, a causa di due fattori:

– la composizione di classe scomposta (gioco di parole e ossimoro che ben spiega lo stato della produzione e riproduzione sociale e dei soggetti “fluidi” sul piano del posto che occupano dentro questo contesto), tipico della configurazione economico-sociale del nostro paese;

– l’egemonia (sul piano gramsciano) e la “rivoluzione passiva” che la borghesia dominante, imperialista e oligopolista esercita su tutta la società e che può tutt’al più lasciare spazi di manovra alla...

b) ... seconda modalità: l’emergere politico degli interessi dei ceti medi e del piccolo capitale che dirigono lo scontro sociale per un semplice ricambio al vertice, che va oltre il melonismo filo-atlantista per andare a contrattare seriamente il riposizionamento del nostro paese nei rapporti internazionali e con un programma populista di stampo “peronista” che va incontro demagogicamente ad alcune delle istanze popolari in chiave nazionalistica.

Di fatto da qui possono prendere piede forze che rappresentano in embrione questa opzione, mescolando la critica alla guerra e alla NATO e il filo-multipolarismo putiniano a una sorta di resistenza ultracattolica e trumpiana all’avvento della società fluida che attacca le identità individuali e collettive. Il che dimostra come da tendenze reazionarie possono nascere controtendenze altrettanto reazionarie. E che quindi il punto non è tenersene alla larga, ma impegnare una battaglia politica e culturale dentro un campo anti-atlantista e anti-autoritario che inevitabilmente oggi si manifesta come espressione di settori di borghesia di stampo nazionalista e ultra-cristiana, occupando uno spazio politico fino a contenderne l’egemonia.

Questione spinosa, forse vissuta come forche caudine di una sinistra di classe e rivoluzionaria allo sfascio, ma in realtà opportunità da cogliere di fronte a quella parte di popolazione che non crede più nei partiti di regime ed è stata abbagliata prima da pentastellati e da Salvini e poi dalla Meloni, tutti pifferai di Hamelin nella stessa partitocrazia che si batte semplicemente per rappresentare gli interessi dei poteri forti. Davanti all’egemonia di una destra reazionaria che contratta gli interessi medio-borghesi e piccolo-capitalistici dentro il perimetro atlantista, ossia, davanti alle prossime e imminenti ondate populiste, occorre agire come opzione politica più avanzata sul piano progettuale e dell’azione militante, essere come i montoneros (1) nel movimento peronista, con o senza caudillo di turno, che potrebbe sempre esserci e affermarsi se non si contende l’egemonia alle forze della borghesia che agiscono e aggregano dentro le stesse contraddizioni tra ceti medi colpiti dall’attacco del grande capitale che rispolverano un nostalgico nazionalismo da una parte e appunto oligarchie capitaliste dominanti, transnazionali e atlantiste dall’altra. Un teatrino dei pupi, l’ennesimo che andrebbe spezzato con la lotta e l’affermazione del terzo punto di vista, quello dei settori sociali depauperizzati, proletari e proletarizzati, in una battaglia sociale per l’egemonia e di prospettiva per una reale alternativa costituente di sistema.

c) Ed è qui che entra in ballo la terza modalità: quella che si innesta in questo scontro sociale, e si relazione alla seconda per le questioni poste al punto 3, senza vaneggiare di rivoluzioni proletarie in marcia al socialismo, ma riconoscendo che occorrono una o più tappe intermedie, la prima di queste basata sull’indipendenza del paese riguardo finanza e multinazionali, sull’uscita dallo schieramento atlantista per il multipolarismo, avviando la politica economica del paese al welfare pubblico, al controllo della finanza privata, alla moneta sovrana, al rilancio della produzione interna, alla pianificazione economica e alla nazionalizzazione degli asset portanti, governando sugli interessi di parte che sono espressione delle diverse componenti produttive e sociali del paese.

Siamo in ritardo perché la quasi totalità della sinistra di classe non ha compreso le tre contraddizioni nel loro divenire, le forze in campo e la dura realtà che ci dice gramscianamente come siamo distanti da una qualsivoglia egemonia proletaria o popolare di classe in chiave socialista. Siamo fuori e marginali dallo scontro sociale, perché il cuore di questo scontro vede opporsi tra loro le diverse frazioni borghesi con una massa di manovra popolar-proletaria che funge da massa di sostegno di volta in volta a rappresentazioni populistiche interne o esterne al regime, ma tutte egemonizzate dalla borghesia.

Se vogliamo irrompere sulla scena politica e costruire una testa di ponte rossa e proletaria in uno scontro che è dominato dalle borghesie, occorre riconoscere questa realtà in quanto tale e agire conseguentemente sul piano delle alleanze senza essere ideologicamente schizzinosi. Occorre essere leniniani.

Puntare a uno scontro che delimiti il perimetro del soggetto sociale e storico di classe in una visione retrò e anacronistica di proletariato porta a romperci le corna amaramente. La lotta di classe deve continuare ovviamente, ma intervenendo nelle contraddizioni del campo avverso, portando su un terreno anti-UE e anti- NATO e di indipendenza nazionale reale quei settori di piccola borghesia pauperizzata e vessata dalle politiche del grande capitale, favorendo un fronte ampio che apra a una prima tappa del processo rivoluzionario al socialismo. Obiettivo che oggi appare assai arduo: l’egemonia interna al fronte.

L’obiettivo è costruire l’egemonia a partire dalle lotte per quelle che esse sono, senza “selezionarle” o peggio ripudiarle sul piano di un ideologismo schizzinoso ed élitario (tipico di un atteggiamento questo sì borghese anche se insieme alla birretta degli aperitivi “autogestiti” ci metti pane e salame...) e spingendole in avanti per contenuti e progettualità, a partire dai soggetti sociali che oggi si muovono, quando e come si muovono. Prepararsi per i futuri cicli di lotte contro gli oligopoli imperialisti, rappresentando gli interessi di classe e gli elementi di programma minimo, dentro un crogiolo variegato di manifestazioni ed espressioni sociali, ponendo le questioni di un welfare pubblico, di una politica economica pianificata e di un processo costituente che, facendo leva sugli elementi progressivi della nostra Costituzione, punti a scalzare i poteri forti dalla loro funzione totalitaria decisionale, ridando senso al pubblico, ai bisogni sociali della popolazione e ai suoi diritti contro le logiche di smantellamento dello stato sociale e della privatizzazione, contro la messa a profitto di servizi, beni comuni e risorse.

Ogni forma di lotta che si apre nello scenario politico non va scartata, anche quella elettorale, portando per esempio più antagonisti e rivoluzionari dentro le istituzioni borghesi. Sul piano sociale, ogni spazio conquistato è una casamatta da cui ripartire e attaccare politicamente e culturalmente il nemico, per creare confronto tra soggetti, organizzazione e iniziativa di lotta.

5. La questione nazionale

Ma a questo punto intendo affrontare la seconda questione spinosa: la questione nazionale. Per chi è internazionalista può sembrare un boccone indigesto perché oggi nel nostro paese gran parte della sinistra la associa al nazionalismo di stampo fascista, campanilista, etnocentrico, al razzismo. In realtà la lotta per l’indipendenza nazionale è largamente patrimonio delle forze progressiste e socialiste in oltre cento anni di lotta di classe e antimperialista. Le lotte latinoamericane da Cuba al sandinismo, passando per le sinistre rivoluzionarie cilene, uruguayane, argentine, fino alle questioni irlandese, basca, catalana, corsa, sarda, ma anche alla rivoluzione cinese, algerina e vietnamita, pur nei diversi contesti e processi la liberazione patriottica non ha certo fatto a cazzotti con una visione più ampia di liberazione antimperialista e internazionalista delle masse proletarie e contadine di transizione al socialismo.

Qualcuno dirà: sì, ma si parla sempre di terzo mondo. Fanon e Nguy Giap funzionano lì.
 Ma è proprio questo il punto: non c’entra il grado di sviluppo delle forze produttive di un paese, o la composizione sociale di classe, quanta classe operaia c’è o no, bensì la questione nazionale pertiene le diverse tipologie di lotta per l’indipendenza dei paesi e l’autodeterminazione dei popoli.

Ovviamente la questione nazionale italiana non è quella coloniale di un paese africano nella rapina imperialista di risorse. Non è neppure associabile alle lotte anti-neocoloniale basca, irlandese o catalana, che hanno radici nella specificità culturali di questi popoli e nel loro assoggettamento e sfruttamento salariato da parte di classi dominanti che hanno costituito nazioni su confini del tutto arbitrari e non consensuali. Anche se l’aspetto culturale, del dominio valoriale, hollywoodiano, mitopoietico del “sogno americano” attraversi di fatto e globalmente tutti i popoli (ma è un aspetto che merita una trattazione diversa e a parte), da quasi ottant’anni.

Tuttavia, questioni nazionali dove l’oppressione neocoloniale si basa non tanto sulla rapina di risorse ma sullo sfruttamento della forza-lavoro e sul controllo dei processi produttivi, come sui mercati interni, si avvicinano alla questione nazionale italiana. Da 77 anni siamo una portaerei degli USA attraverso la NATO, non abbiamo nemmeno più quella politica estera con margini di autonomia che aveva la Prima Repubblica. Economicamente siamo assoggettati alle euroburocrazie che con il pareggio di bilancio e le astruse regole imposte da Bruxelles (ma non rispettate dalla Germania) e oggi con il MES che sta arrivando, una moneta non stampata ma comprata a strozzo, siamo diventati un terminale delle economie più forti, delle multinazionali dominanti e dei movimenti di capitale dell’alta finanza che ci mettono in costante ricatto. Siamo commissariati, siamo un vero e proprio bantustan dell’anglosfera e delle euroburocrazie attraverso organismi come NATO e UE.
 Per questo la questione nazionale nella sua originalità che nulla ha a che vedere con Ulster, Euskadi e Catalunya, ha connotati più direttamente di classe, che comprendono più classi interessate a sciogliere i legami di dominazione.

Come giustamente osserva Carlo Formenti, la contraddizione è tra un capitalismo dei flussi di capitali e di merci sul piano transnazionale e chi vive e lavora nel territorio, che sia autoctono o proveniente da altrove.

Riporto integralmente la sua riflessione ne “La variante populista”, Comunità concrete, ed. DeriveApprodi:
“...la lotta di classe tende a presentarsi come conflitto fra flussi globali di segni di valore, informazioni, merci e manager da un lato, territori e comunità locali che si oppongono alla colonizzazione da parte dei flussi dall’altro.

Accettare la sfida del populismo a partire da questi due eventi significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare, la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale. Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, assisteremo al trionfo di razzismo e xenofobia, se sarà invece quello di sinistra, potremmo assistere alla nascita di un’idea «post-nazionalista» di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio.” (2)
E questo aspetto:

a) distingue il patriottismo progressista dal nazionalismo sciovinista da piccola potenza e di esclusione e divisione delle masse popolari alla Salvini e Meloni;

b) contende questo terreno proprio a loro e a quelle forze interne al sostegno anti-bellico al multipolarismo che ripropongono divisioni interne ed esclusione.

Dunque è un patriottismo partigiano come quello della Resistenza, che ha lottato contro il nazifascismo unendo tutto il popolo di fronte a oggettivi interessi nazionali: finire la guerra, scacciare l’invasore e avviare una democrazia rappresentativa di tutto il popolo e le sue forze di Liberazione. L’accostamento è solo valoriale, non certo di analogia storico-politica. Ma indipendenza, antifascismo e liberazione da forze straniere, sono la conditio sine qua non affinché possa avvenire la liberazione dall’oppressione salariata di un capitalismo che va battuto sia quello estero che quello interno.

Formenti arriva quindi alla logica conseguenza di questo impianto politico:
“...accettare questo punto di vista implica assumere un atteggiamento totalmente controcorrente rispetto a quello delle sinistre europeiste: difendere questa Europa oligarchica, ordoliberista e irriformabile significa scambiare il cosmopolitismo borghese per internazionalismo proletario. La lotta anticapitalista, nel nostro continente, passa inevitabilmente dalla lotta contro l’Europa.” (3)
E oggi è ancora più vero (l’opera qui citata fu pubblicata nel 2016), considerando che questa guerra in Ucraina ci ha consegnato e rivelato un’Europa completamente supina alla politica militarista statunitense attraverso la NATO e a quella sanzionatoria e finanziaria del dollaro, di più: acriticamente aderente al Washington consensus, con gruppi dirigenti e cancellerie che da Berlino a Parigi ci stanno portando verso la catastrofe di una guerra imperialista nel continente e nella migliore delle ipotesi a perdere nell’economia di una guerra ibrida permanente alle forze multipolari, quel posizionamento autonomo che, se da sempre privo di una politica estera ed economica che non fosse nell’ambito delle gerarchie NATO e ordoliberale sui salari e sullo svendita ai privati del welfare pubblico, oggi si riduce a essere una mera protesi della potenza statunitense.

A maggior ragione l’impostazione data da Formenti alla questione della sovranità popolare è una via obbligata per qualsiasi forza antimperialista, progressista e comunista.

Nulla di nuovo del resto: è la dialettica che intercorre tra liberazione nazionale e internazionale, perché la nostra liberazione pone le basi per la liberazione di altri popoli e paesi. E viceversa.

6. In definitiva...

Il posizionamento politico di un terzo polo nella società italiana, di fronte antagonista al sistema di potere dominante tiene conto delle contraddizioni prima esposte e si schiera contro l’atlantismo unipolare e con le entità nazionali e i movimenti che nel mondo si battono per la liberazione dal giogo imperialista degli USA e dei suoi vassalli, quindi a favore di tutte le tendenze e le politiche che favoriscono l’avvento di un mondo multipolare. 
Nel nostro continente l’opposizione alla guerra imperialista della NATO deve diventare la spranga negli ingranaggi della macchina bellica e del sistema imperialista stesso, a trazione USA e della sua subordinata UE, per l’indipendenza nazionale del nostro paese.

Sul fronte sociale il lavoro è più complesso, poiché tocca istanze oppositive al capitalismo finanziario e delle multinazionali, che sono sempre in contraddizione tra loro, risultato di interessi anche contrapposti. Il che spiega che nei tempi lunghi di maturazione politica di massa è la classe operaia anche nella sua composizione sociale in divenire che può e deve ricoprire un ruolo egemone e dirigente nello scontro di classe, poiché i settori intermedi sono da sempre una palude, sono ondivaghi e basta una vittoria parziale, un contentino (una volta si diceva un piatto di lenticchie) o la stessa macchina repressiva nell’innalzamento dei livelli di scontro, per renderli inerti o far loro cambiare campo. Ovviamente quando parlo di classe operaia, o più estensivamente classe lavoratrice, ho in mente quanto affermato in precedenza sulla composizione sociale: certo le linee di demarcazione non sono ben definibili, ma è piuttosto chiaro oggi che il lavoro salariato, subordinato, seppur frammentato include quel mondo sociale precario che definisce una forza-lavoro che non riesce a entrare in pianta stabile nel mondo del lavoro, per lo più giovanile, migranti sottopagati e ricattati, forza-lavoro a “fine vita”, totalmente priva di coperture previdenziali e servizi, frutto delle politiche criminali dei governi di destra come di sinistra all’insegna del privato è bello, del più mercato meno stato.

Se l’interesse dei populismi di destra è quello di ritagliare uno spazio per la borghesia e il piccolo capitale nel quadro internazionale, che non tocchi i rapporti di sfruttamento sul piano nazionale, usando una retorica nazionalista da potenza stracciona, il patriottismo antimperialista passa attraverso l’affermazione dei diritti proletari e dei mutamenti dei rapporti di forza interni alle classi sociali, in una sorta di contropotere o potere costituente.

Nell’immediato, con tutta la consapevolezza che non esiste un movimento contro la guerra e un pacifismo organizzato, l’attività delle forze democratiche e popolari patriottiche devono avere come obiettivo di fondo lo:

SPEZZARE LA MACCHINA IMPERIALISTA MILITARE CON LE MOBILITAZIONI DI MASSA

Oggi al centro dell’agire, che sia di movimento o di avanguardie organizzate, c’è la lotta contro la guerra della NATO, nelle più diverse forme possibili della disobbedienza, del boicottaggio, del sabotaggio e della diserzione anche simbolica da parte dei civili. Dove c’è presenza politica, culturale, anche istituzionale, dichiarare ogni contesto zona demilitarizzata, che ripudia la guerra e diffonde una cultura di pace, inclusiva, contro le campagne denigratorie e criminalizzanti nei confronti di chi critica la politica guerrafondaia di regime e dei suoi lacchè, di chi si oppone al razzismo sciovinista antirusso e al filonazismo nelle sue varie forme fluide e sinistresi, centrosocialare come istituzionali. Man mano che la guerra con le sue logiche e narrazioni, con la sua neolingua avanza, occorre diffondere l’opposizione organizzata a tutto questo.

COSTITUIRE LE BASI PATRIOTTICHE ANTIMPERIALISTE COME TESTE DI PONTE PROGRESSIVE IN UNO SCHIERAMENTO LARGO

È ciò che occorre per scatenare questa opposizione di massa, intransigente, irriducibile, collegando i temi sociali e delle costrizioni biopolitiche delle libertà e dei diritti sociali (quelli veri, non i desideri di qualcuno…), le condizioni di vita e di lavoro al militarismo guerrafondaio dominante.

Gli sforzi che vanno fatti a più livelli e in più ambiti sono quelli di:

COSTRUIRE IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE E PATRIOTTICO, PER L’USCITA DELL’ITALIA DALLA NATO E DALL’UE

Non sappiamo come sarà questo fronte, ma certamente non sarà quello compromissorio di una sinistra sinistrata e decotta, che si dichiara ancora “di classe”, che si va unendo tra pentastellati e cespugli del PD nell’ennesimo inciucio che taglia fuori le reali opposizioni organizzate contro la NATO, quelle dei tre referendum che costituiscono un patrimonio politico e di esperienza sociale nelle masse preziosa. Il lavoro svolto dalle componenti politiche nei referendum contro l’invio di armi e per la sanità pubblica ha avuto il pregio e il merito di avvicinarsi molto al metodo maoista dell’inchiesta popolare. Chi pensa a un’alleanza con i pentastellati guarda caso è lo stesso che sui tre referendum non ha mosso un dito per non mischiarsi con i “novax” e i “terrapiattisti”. Tutte scuse di chi non ha capito che dalle forze di regime non può nascere nulla.

Un terzo polo non può nascere dai partiti che, destra o sinistra che siano, rappresentano o si candidano a farlo le élite atlantiste, le oligarchie capitaliste dell’Occidente a dominanza USA, o le euroburocrazie di Bruxelles. Destra e sinistra sono politicamente morte, sono del tutto interne a un bipolarismo di regime, al teatrino dei pupi.

Appendice

Mentre chiudo questo intervento, giunge dall’Africa la notizia di un putsch dell’esercito in Niger: deposto il presidente Bazoum, la folla solidarizza con i militari e assalta l’ambasciata francese sventolando le bandiere della nazione e della Russia. La Francia e il fronte di paesi africani dell’Ecowas minaccia un intervento, ma Burkina Faso e Mali si schierano con gli insorti nigerini minacciando a loro volta di intervenire, mentre il parlamento della Nigeria vota contro l’intervento e truppe della Wagner arrivano nella capitale Nigerina Niamey per difenderla.

Mi pare piuttosto chiaro che la funzione della Russia, paese innegabilmente retto da una classe capitalista, abbia comunque in questo frangente una funzione storica antimperialista.

Mi pare altrettanto chiaro che per l’Occidente atlantista si ripeta lo stesso copione ucraino con la democrazia da una parte e la dittatura dall’altra, quando la peggiore dittatura totalitaria e antidemocratica in secoli di colonialismo è proprio quella dell’attuale neoliberalismo occidentale. Lo scontro tra unipolarismo imperialista e multipolarismo dei popoli e dei paesi che si affrancano dal dominio imperialista mi sembra ormai piuttosto evidente e foriero di implicazioni in Occidente: un'Europa ridotta a bantustan degli USA che rischia la distruzione di una guerra allargata nel continente, e paesi imperialisti che si ritrovano senza uranio a buon prezzo mentre sul campo mondiale i flussi delle risorse si capovolgono a vantaggio di Cina e Russia.

Ciò comporta l’acuirsi delle contraddizioni economiche e sociali nei centri metropolitani dell’imperialismo a partire dall’Europa stessa.

Pertanto va da sé, che al netto di tutte le posizioni ideologiche e diritto-umanitarie colorate, è urgente inserirsi in questo conflitto mondiale per volgerlo anche nei nostri paesi occidentali a favore dei processi di liberazione popolare, che siano frutto di insurrezioni, elezioni o golpe. La democrazia borghese è andata ormai a farsi friggere e a questa storiella ci credono ormai solo i vari Mentana.

Il fascismo biopolitico e ipertecnologico delle democrature è quello che parla di democrazia a vanvera, mentre il patriottismo autentico e non quello nazionalista delle destre classiche, è internazionalista poiché non sostiene volontà di potenza contro i popoli, la predazione ultrasecolare, ma appoggia questi processi di liberazione. E questo (Cuba docet) è autentico internazionalismo.

Concludo ponendo come fondamentale, secondo quanto Gramsci definì come decisiva per un cambio rivoluzionario, la questione dell’egemonia, che oggi è duplice:

– affermare nella società italiana l’interesse vitale all’indipendenza nazionale del paese dalle gabbie imposte con organismi e dispositivi di potere sovranazionale: UE con i suoi trattati, Eurozona con la moneta unica, l’euro, la NATO;

– affermare in questo processo costituente, di liberazione e costruzione che ha basi costituzionali l’egemonia delle classi popolari e lavoratrici in una visione di transizione al socialismo, a partire dai bisogni delle classi popolari che corrispondono alla centralità dello stato sociale, di un’economia pianificata, di un processo di socializzazione dei mezzi della riproduzione sociale e di una partecipazione popolare sul piano decisionale.

Se non comprendiamo questo passaggio storico e politico di questa epoca è come se non avessimo compreso nulla dei movimenti di liberazione e anticoloniali del Ventesimo secolo, come se dei comunisti non avessero capito nulla di Cuba socialista, di Sandino, del bolivarismo, del Cile di Allende, Corvalan e del MIR, del Vietnam di Ho Chi Min e Nguy Giap, proseguendo con una politica fessa e spanata, poiché dottrinaria e autoreferenziale.

Note

1. I Montoneros furono un’organizzazione peronista argentina operante tra gli anni ’60 e ’70 per combattere l’ascesa del fascismo, culminato nel golpe dei generali nel 1976, e che di fatto rappresentava l’ala sinistra del peronismo. Sul peronismo suggerisco la lettura dell’opea di Alfredo Helman Il peronismo, Edizioni Clandestine, 2005 Saggistica

2. Carlo Formenti “La variante populista”, Comunità concrete, ed. DeriveApprodi, pag. 9

3. Ibidem, pag. 9

Fonte

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