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08/06/2013

Turchia, Erdogan rischia grosso

di Michele Paris

La tensione in Turchia non accenna a diminuire. Gli scontri tra i manifestanti e le forze di polizia turche sono continuati per il quarto giorno consecutivo, espandendosi dal quartiere di Istanbul dove le proteste erano scoppiate lo scorso fine settimana ad altre zone della metropoli sul Bosforo e a svariate città del paese euro-asiatico.
L’esplosione della rabbia popolare contro il regime islamista guidato dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha portato alla luce tutte le contraddizioni delle politiche di un governo a lungo indicato come modello di sviluppo per il Medio Oriente e non solo, smascherando al contempo il carattere sempre più autoritario del premier Recep Tayyip Erdogan in un decennio di permanenza al potere.

Come è ormai noto, il caos nelle strade di Istanbul era iniziato in seguito all’intervento della polizia per reprimere una manifestazione contro un progetto edilizio promosso dal governo nel parco Gezi - località del distretto di Beyolu nella parte europea della città e associata ad importanti proteste popolari nella seconda metà del secolo scorso - dove è previsto l’abbattimento di un centro culturale per far posto ad una moschea, un complesso residenziale e un centro commerciale.

Nella giornata di venerdì, le forze di sicurezza avevano dunque attaccato i dimostranti, ricorrendo anche al lancio di gas lacrimogeni da elicotteri inviati a sorvolare la zona interessata dalle proteste. Concentratesi soprattutto nella Piazza Taksim, le manifestazioni e gli scontri con la polizia sono continuati fino a sabato, con centinaia di feriti e arresti, nonché, secondo quanto affermato da Amnesty International, due morti tra i contestatori.

La dura risposta del governo e la diffusa ostilità latente nei confronti del regime hanno determinato un rapido contagio delle proteste al resto della Turchia, così che manifestazioni in solidarietà con quella di Istanbul sono state indette in varie città, tra cui la capitale Ankara, Izmir, Adana e molte altre.

Domenica, poi, il ritiro della polizia da Piazza Taksim ha lasciato spazio alle celebrazioni dei manifestanti ma gli scontri, così come la repressione del governo, sono proseguiti altrove. L’uso di gas lacrimogeni e il ricorso ad arresti indiscriminati sono stati segnalati ad esempio nel quartiere Besiktas di Istanbul e a Izmir, sulla costa del Mare Egeo, dove una folla di persone ha dato fuoco alla sede locale del partito di Erdogan.

Secondo quanto affermato in un’intervista al quotidiano turco Hürriyet da una deputata del Partito Popolare Repubblicano (CHP) all’opposizione, ad Ankara ci sarebbero stati addirittura 1.500 arresti. I manifestanti finiti in manette sarebbero stati privati dell’assistenza di un legale e poi costretti a firmare testimonianze giurate per ammettere fatti mai commessi.

Il premier Erdogan, da parte sua, ha parlato in diretta TV nella giornata di sabato, respingendo qualsiasi critica al suo governo, pur ammettendo “errori” da parte delle forze di polizia, e promettendo di portare a termine il progetto edilizio contestato.
Il premier islamista, dopo avere definito i “social media la più grande minaccia alla società” per avere favorito il diffondersi delle proteste, ha poi assurdamente accusato “forze esterne” di avere fomentato le contestazioni, riecheggiando singolarmente la tesi sostenuta con maggiore ragione da Assad in Siria per descrivere la crisi che sta affrontando da oltre due anni il suo regime anche a causa delle manovre del governo turco.

Quello che sta vivendo la Turchia in questi giorni, in ogni caso, va ben al di là delle proteste di un gruppo di attivisti che cerca di fermare la trasformazione di un parco di Istanbul e, nelle parole del veterano giornalista Cengiz Çandar, appare “senza precedenti negli ultimi 40 anni” di storia del paese.

A determinare l’esplosione della rabbia sopita tra la popolazione turca sono una serie di fattori, che vanno dalle conseguenze di un modello neo-liberista - che ha dato l’illusione di una crescita economica generalizzata - al crescente autoritarismo e all’islamizzazione strisciante di una società tradizionalmente secolare; dal sostegno incondizionato del governo di Ankara ai gruppi fondamentalisti sunniti in guerra contro Assad in Siria agli stessi grandiosi progetti di trasformazione urbana spesso messi in atto contro il volere della popolazione e della società civile.

A produrre una virulenta reazione nei confronti delle politiche del governo ha contribuito anche l’immediata partecipazione alle proteste spontanee dei partiti di opposizione, a cominciare dal CHP. Un’evoluzione, quest’ultima, che è la diretta conseguenza di un durissimo confronto in atto tra la classe dirigente turca fin dall’ascesa al potere di Erdogan e dell’AKP nel 2003, segnato da una battaglia per la marginalizzazione delle forze secolari eredi della rivoluzione borghese del padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal (Atatürk).

Ancora più decisivi sono però gli effetti delle politiche di classe messe in atto da Erdogan, visibili, tra l’altro, proprio nella trasformazione di Istanbul, epicentro delle proteste di questi giorni, portata avanti all’insegna del capitalismo più sfrenato e, frequentemente, nell’interesse di una cerchia di uomini d’affari vicini al governo o di esponenti del governo stesso, come nel caso del progetto del parco Gezi, appaltato ad una società di proprietà del genero dell’attuale primo ministro.

Le scosse che stanno facendo tremare un governo ritenuto ancora relativamente solido mettono poi in una situazione di grave disagio gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Ankara, come ha suggerito il consueto comunicato di circostanza emesso dal Dipartimento di Stato americano, “preoccupato” per l’uso della forza contro le proteste di piazza.

I toni volutamente blandi di Washington ricordano quelli utilizzati, ad esempio, nella primavera del 2011 durante il soffocamento della rivolta interna da parte di un altro regime alleato, quello del Bahrain, e, in contrasto con le aperte minacce lanciate nei confronti di Damasco e precedentemente di Tripoli, rivelano ancora una volta il doppio standard degli USA nel rispondere alla repressione messa in atto da paesi alleati o considerati nemici.

Le contraddizioni dell’atteggiamento di Washington e di Ankara, perciò, hanno dato la possibilità allo stesso governo siriano di mettere in imbarazzo il vicino settentrionale. Nella giornata di sabato, così, le dichiarazioni del ministro dell’Informazione di Damasco, Omran al-Zoubi, hanno ricalcato quelle costantemente rilasciate dalle autorità turche negli ultimi ventiquattro mesi a proposito della crisi in Siria.

Secondo Zoubi “le aspirazioni del popolo turco non meritano tutta questa violenza” e se Erdogan non è in grado di rispondere pacificamente alle richieste dei manifestanti “dovrebbe farsi da parte”, visto che la brutale repressione messa in atto in questi giorni dimostra come il premier sia ormai “disconnesso dalla realtà”.

Proprio la strategia siriana del governo di Ankara rischia ora di fare esplodere definitivamente la società turca, in larga misura contraria ad un coinvolgimento del proprio paese in un conflitto che sta alimentando pericolosamente il terrorismo islamista, mettendo in pericolo gli stessi progetti di permanenza al potere di Erdogan oltre il 2015, quando dovrebbero entrare in vigore riforme costituzionali per introdurre un sistema presidenziale fortemente voluto proprio dal primo ministro per consolidare l’impronta autoritaria data al paese nell’ultimo decennio.

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