di Michele Paris
La tensione in
Turchia non accenna a diminuire. Gli scontri tra i manifestanti e le
forze di polizia turche sono continuati per il quarto giorno
consecutivo, espandendosi dal quartiere di Istanbul dove le proteste
erano scoppiate lo scorso fine settimana ad altre zone della metropoli
sul Bosforo e a svariate città del paese euro-asiatico.
L’esplosione della rabbia popolare contro il regime islamista guidato
dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha portato alla luce
tutte le contraddizioni delle politiche di un governo a lungo indicato
come modello di sviluppo per il Medio Oriente e non solo, smascherando
al contempo il carattere sempre più autoritario del premier Recep Tayyip
Erdogan in un decennio di permanenza al potere.
Come è ormai
noto, il caos nelle strade di Istanbul era iniziato in seguito
all’intervento della polizia per reprimere una manifestazione contro un
progetto edilizio promosso dal governo nel parco Gezi - località del
distretto di Beyolu nella parte europea della città e associata ad
importanti proteste popolari nella seconda metà del secolo scorso - dove
è previsto l’abbattimento di un centro culturale per far posto ad una
moschea, un complesso residenziale e un centro commerciale.
Nella
giornata di venerdì, le forze di sicurezza avevano dunque attaccato i
dimostranti, ricorrendo anche al lancio di gas lacrimogeni da elicotteri
inviati a sorvolare la zona interessata dalle proteste. Concentratesi
soprattutto nella Piazza Taksim, le manifestazioni e gli scontri con la
polizia sono continuati fino a sabato, con centinaia di feriti e
arresti, nonché, secondo quanto affermato da Amnesty International, due
morti tra i contestatori.
La dura risposta del governo e la
diffusa ostilità latente nei confronti del regime hanno determinato un
rapido contagio delle proteste al resto della Turchia, così che
manifestazioni in solidarietà con quella di Istanbul sono state indette
in varie città, tra cui la capitale Ankara, Izmir, Adana e molte altre.
Domenica,
poi, il ritiro della polizia da Piazza Taksim ha lasciato spazio alle
celebrazioni dei manifestanti ma gli scontri, così come la repressione
del governo, sono proseguiti altrove. L’uso di gas lacrimogeni e il
ricorso ad arresti indiscriminati sono stati segnalati ad esempio nel
quartiere Besiktas di Istanbul e a Izmir, sulla costa del Mare Egeo,
dove una folla di persone ha dato fuoco alla sede locale del partito di
Erdogan.
Secondo quanto affermato in un’intervista al quotidiano turco Hürriyet da
una deputata del Partito Popolare Repubblicano (CHP) all’opposizione,
ad Ankara ci sarebbero stati addirittura 1.500 arresti. I manifestanti
finiti in manette sarebbero stati privati dell’assistenza di un legale e
poi costretti a firmare testimonianze giurate per ammettere fatti mai
commessi.
Il
premier Erdogan, da parte sua, ha parlato in diretta TV nella giornata
di sabato, respingendo qualsiasi critica al suo governo, pur ammettendo
“errori” da parte delle forze di polizia, e promettendo di portare a
termine il progetto edilizio contestato.
Il premier islamista, dopo avere definito i “social media la più
grande minaccia alla società” per avere favorito il diffondersi delle
proteste, ha poi assurdamente accusato “forze esterne” di avere
fomentato le contestazioni, riecheggiando singolarmente la tesi
sostenuta con maggiore ragione da Assad in Siria per descrivere la crisi
che sta affrontando da oltre due anni il suo regime anche a causa delle
manovre del governo turco.
Quello che sta vivendo la Turchia in
questi giorni, in ogni caso, va ben al di là delle proteste di un gruppo
di attivisti che cerca di fermare la trasformazione di un parco di
Istanbul e, nelle parole del veterano giornalista Cengiz Çandar, appare
“senza precedenti negli ultimi 40 anni” di storia del paese.
A
determinare l’esplosione della rabbia sopita tra la popolazione turca
sono una serie di fattori, che vanno dalle conseguenze di un modello
neo-liberista - che ha dato l’illusione di una crescita economica
generalizzata - al crescente autoritarismo e all’islamizzazione
strisciante di una società tradizionalmente secolare; dal sostegno
incondizionato del governo di Ankara ai gruppi fondamentalisti sunniti
in guerra contro Assad in Siria agli stessi grandiosi progetti di
trasformazione urbana spesso messi in atto contro il volere della
popolazione e della società civile.
A produrre una virulenta
reazione nei confronti delle politiche del governo ha contribuito anche
l’immediata partecipazione alle proteste spontanee dei partiti di
opposizione, a cominciare dal CHP. Un’evoluzione, quest’ultima, che è la
diretta conseguenza di un durissimo confronto in atto tra la classe
dirigente turca fin dall’ascesa al potere di Erdogan e dell’AKP nel
2003, segnato da una battaglia per la marginalizzazione delle forze
secolari eredi della rivoluzione borghese del padre della Turchia
moderna, Mustafa Kemal (Atatürk).
Ancora più decisivi sono però
gli effetti delle politiche di classe messe in atto da Erdogan,
visibili, tra l’altro, proprio nella trasformazione di Istanbul,
epicentro delle proteste di questi giorni, portata avanti all’insegna
del capitalismo più sfrenato e, frequentemente, nell’interesse di una
cerchia di uomini d’affari vicini al governo o di esponenti del governo
stesso, come nel caso del progetto del parco Gezi, appaltato ad una
società di proprietà del genero dell’attuale primo ministro.
Le
scosse che stanno facendo tremare un governo ritenuto ancora
relativamente solido mettono poi in una situazione di grave disagio gli
Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Ankara, come ha suggerito
il consueto comunicato di circostanza emesso dal Dipartimento di Stato
americano, “preoccupato” per l’uso della forza contro le proteste di
piazza.
I
toni volutamente blandi di Washington ricordano quelli utilizzati, ad
esempio, nella primavera del 2011 durante il soffocamento della rivolta
interna da parte di un altro regime alleato, quello del Bahrain, e, in
contrasto con le aperte minacce lanciate nei confronti di Damasco e
precedentemente di Tripoli, rivelano ancora una volta il doppio standard
degli USA nel rispondere alla repressione messa in atto da paesi
alleati o considerati nemici.
Le contraddizioni
dell’atteggiamento di Washington e di Ankara, perciò, hanno dato la
possibilità allo stesso governo siriano di mettere in imbarazzo il
vicino settentrionale. Nella giornata di sabato, così, le dichiarazioni
del ministro dell’Informazione di Damasco, Omran al-Zoubi, hanno
ricalcato quelle costantemente rilasciate dalle autorità turche negli
ultimi ventiquattro mesi a proposito della crisi in Siria.
Secondo
Zoubi “le aspirazioni del popolo turco non meritano tutta questa
violenza” e se Erdogan non è in grado di rispondere pacificamente alle
richieste dei manifestanti “dovrebbe farsi da parte”, visto che la
brutale repressione messa in atto in questi giorni dimostra come il
premier sia ormai “disconnesso dalla realtà”.
Proprio la
strategia siriana del governo di Ankara rischia ora di fare esplodere
definitivamente la società turca, in larga misura contraria ad un
coinvolgimento del proprio paese in un conflitto che sta alimentando
pericolosamente il terrorismo islamista, mettendo in pericolo gli stessi
progetti di permanenza al potere di Erdogan oltre il 2015, quando
dovrebbero entrare in vigore riforme costituzionali per introdurre un
sistema presidenziale fortemente voluto proprio dal primo ministro per
consolidare l’impronta autoritaria data al paese nell’ultimo decennio.
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