Questa situazione è aggravata dai
problemi di registrazione delle situazioni contributive da parte
dell’INPS o di verifica in caso di mancato pagamento da parte dei datori
di lavoro. La prassi vuole che siano i lavoratori e le lavoratrici a
pagare le conseguenze di irregolarità di cui non sono responsabili,
perdendo il diritto alle indennità per le quali hanno contribuito con una parte del loro salario. Esemplare
è il caso di molti supplenti delle scuole superiori che, nonostante
abbiano accumulato l’ammontare di contributi sufficiente per ottenere
l’indennità di disoccupazione, non l’hanno ottenuta a causa di
irregolarità nella ricezione da parte dell’INPS dei moduli Emens. Dal
gennaio 2013, questi moduli devono essere forniti direttamente dal
Ministero del Tesoro mentre nelle comunicazioni dell’INPS ai precari cui
è stata negata l’indennità si richiede che sia la scuola stessa a
fornirli. Per un apparente problema di mancata coordinazione tra INPS e
Ministero, molti precari della scuola hanno perso le indennità. Questi
problemi burocratici sembrano essere un perfetto completamento della
tendenza a rendere sempre più incerta la restituzione ai precari dei
contributi che devono versare. Un caso esemplare è anche quello degli
assegnisti dell’Università di Pavia iscritti alla Gestione Separata.
Nonostante l’Ateneo avesse versato regolarmente i contributi a ogni
singolo dipendente e non risultasse quindi colpevole di omissione
contributiva, buona parte dei contributi non è stato registrata nel
database dell’INPS. L’INPS attribuisce il problema a un errore di
sistema e l’arcano pare irrisolvibile, o meglio, si risolve ma a danno
dei precari dell’Università che oltre alla lotta quotidiana contro i
tagli alla ricerca, si vedono derubati dal sistema informatico anche dei
contributi. Non solo non vedranno mai una pensione ma non hanno diritto
neppure alle indennità.
Nel caso dei lavoratori migranti la situazione si aggrava ulteriormente
dal momento che in Italia la loro permanenza è strettamente vincolata
al lavoro e al versamento dei contributi, che ormai da tempo servono a
far quadrare i conti dello Stato che li intasca anche quando i migranti
decidono di tornare nei paesi di provenienza. Nonostante una sentenza
del Tar (Lombardia) dica chiaramente che eventuali irregolarità o
ritardi nel versamento dei contributi non possono essere responsabilità
del lavoratore migrante né motivo di diniego del rinnovo, le Questure
gestiscono i rinnovi controllando tramite l’INPS la presenza dei
contributi per stabilire se si ha diritto o meno al rinnovo. Così
facendo, scaricano integralmente sul lavoratore migrante le
responsabilità dei mancati versamenti da parte dei padroni e dei ritardi
dell’INPS nel registrare il versamento dei contributi. L’INPS sembra
coordinarsi perfettamente con le altre istituzioni quando si tratta di
far pesare sui lavoratori le inadempienze di chi fa profitti sfruttando
il loro lavoro. Grazie a questa prassi, migliaia di cooperative e di
aziende in appalto, specie nel settore della logistica, si stanno di
fatto arricchendo sulla pelle di chi lavora e l’INPS sembra più la banca
dei padroni che quella dei lavoratori. Nelle indagini del ministero nel
2013 si registra che «malgrado il numero di controlli sia aumentato e
le irregolarità riscontrate anche, è più basso (-14,2%) l’importo
complessivo delle sanzioni incassate, pari a 78,1 milioni di
euro». Le sanzioni diminuiscono mentre precari e migranti si vedono
ridotta la possibilità che venga loro restituita la percentuale di
salario che versano ogni mese. Come vengono usati allora i contributi
che ogni mese ci vengono sottratti dal salario? A quanto pare vanno a
coprire altri buchi e servono a fare quadrare i conti malmessi dell’INPS
che, inglobando l’Inpdap ha ereditato anche un enorme debito. Insomma,
in verità, la banca siamo noi non l’Istituto di Previdenza. Dietro ai
grandi discorsi sulla spending review
e sulla razionalizzazione delle pratiche amministrative, il problema
dell’INPS e del governo sembra essere quello di mantenere alto il flusso
di contributi versati da chi lavora e di promuovere, d’altra parte, una
politica di sgravi contributivi per le aziende che inseguono la
ripresa. L’aumento della Cassa Integrazione durante la crisi, inoltre,
comporta un dirottamento dei fondi contributivi in quella direzione a
discapito di altre, anche se molto spesso le Casse vengono ricevute in
ritardo e in maniera irregolare.
La gestione «tecnica» della crisi passa anche per le pratiche amministrative dell’INPS. La previdenza sociale,
infatti, è sempre più uno strumento di impoverimento dei lavoratori e
di riproduzione di una condizione di incertezza presente e futura. Previdenti,
ma non per noi. Lo scenario che si apre per i giovani precari, occupati
tramite tipologie contrattuali che non consentono una storia
contributiva omogenea e continuativa, è perciò paradossale. Ai precari
viene chiesto di essere flessibili, occupabili, adattabili, mobili ma allo stesso tempo la loro collezione di lavori in
molti casi non consente di accumulare i contributi necessari per i
servizi previdenziali. Per quelli ci vuole un lavoro «alla vecchia
maniera». Il lavoratore che non potranno mai essere, cioè quello del
«posto fisso», è così uno spettro ossessivo. Ma poi sappiamo che anche
in quel caso non sempre funziona così, che anzi molti lavoratori hanno
perso i contributi perché sono stati versati negli anni in casse diverse
o per il passaggio dall’Inpdap o perché ora gli viene chiesto di pagare
per avere quello che hanno già pagato con il lavoro di una vita! La
domanda è per tutti i lavoratori la stessa: ma per chi e per cosa
contribuiamo? Contribuire sembra non avere alcun senso perché di fatto si contribuisce solo alla propria precarietà.
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