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02/11/2017

Catalogna, tra obiettivi politici e rapporti di forza

A mente fredda si può ragionare meglio, se non altro perché si possono elencare con calma tutti i punti rilevanti di un fatto e quindi provare a prevedere la possibile evoluzione.

La vicenda catalana ha subito una svolta piuttosto brutale, con la destituzione del governo locale dopo la formale dichiarazione di indipendenza. Il “commissario governativo” sceso a Barcellona è addirittura la vice di Mariano Rajoy, Soraya Saenz de Santamaria. La quale ha immediatamente licenziato il capo della polizia locale (i Mossos de Esquadra) e altri 150 funzionari, in modo da avere “dipendenti fedeli” direttamente ai suoi ordini.

In queste condizioni, sembra decisamente utopistico il programma, annunciato da Carles Puigdemont nella conferenza stampa di Bruxelles – “continuiamo a lavorare” come governo –, per conservare il più possibile dell’assetto istituzionale catalano. Più realistico, certamente, è organizzare la resistenza allo “sradicamento” della maggioranza indipendentista, che ogni formazione politica di questo fronte deve perseguire in parte da sola, in parte coordinandosi con le altre (pur in presenza di forti differenze politiche e di classe). Del resto la maggioranza di governo che aveva portato alla presidenza Puigdemont era una coalizione con referenti sociali molto diversi.

Come già scritto, la dichiarazione formale di indipendenza non era sostenuta dalla strumentazione minima indispensabile per renderla effettiva: un esercito, una moneta e relativa banca centrale, il controllo sui movimenti di capitale e sulle frontiere, ecc.

Sul piano dei puri rapporti di forza, insomma, “l’invasione” del potere centrale era prevedibile e fondamentalmente incontrastabile. Tutte le forze indipendentiste, del resto, hanno saggiamente condotto fin qui una resistenza non violenta che ha fatto risaltare al massimo la brutalità fascista del governo centrale. Non si era infatti mai visto, nell’Europa del dopoguerra, la polizia assaltare i seggi elettorali per sequestrare urne e schede, manganellando senza scrupoli una popolazione intera schierata a difesa del diritto minimo, quello al voto.

Buona parte dell’imbarazzo con cui i complici peggiori di Rajoy – tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e la tecnoburocrazia di Bruxelles – deriva proprio dalle scene che tutto il mondo ha potuto vedere in televisione, sui social e persino sui giornali di regime. Troppo grande lo scarto tra quelle immagini e la pretesa che il governo spagnolo stesse agendo “in difesa dei valori democratici”.

La conferenza stampa di Puigdemont, ieri a Bruxelles, è servita a portare la contraddizione fin dentro il cuore della fetida costruzione “istituzionale” che governa 27 paesi, ancora trincerata dietro la formula “sono affari interni alla Spagna”.

L’apparente paradosso sta nel fatto che il dirigente del Partito democratico di Catalogna (PdeCat) ha raggiunto questo risultato perseguendo ostinatamente una premessa e una visione sbagliata; ossia che nell’Unione Europea regnino le regole della democrazia, che sia possibile la rappresentanza politica e sociale di interessi diversi o non coincidenti, e che questa possa modificare in tutto o in parte gli assetti definiti dai trattati europei. Insomma, che la Ue sia una sovrastruttura democratica e riformabile.

Ma è anche palese che l’orizzonte “radicalmente democratico” entro cui si muove Puigdemont, e la parte fin qui maggioritaria del fronte indipendentista, stia mettendo in grave difficoltà l’Unione Europea, più ancora di Rajoy, determinato a trattare l’indipendentismo come un crimine “comune”, con mezzi giudiziari e militari.

Per riuscire più convincente su questo terreno Puigdemont ha utilizzato lo stesso schema retorico sfruttato da Rajoy dopo il referendum (“hai dichiarato o no l’indipendenza?”), ovviamente rovesciandolo: “Il governo spagnolo rispetterà i risultati, qualunque siano, delle elezioni del 21 dicembre? Dobbiamo saperlo, non deve esserci diseguaglianze, elettori di seria A e elettori di serie B“.

E’ una domanda che infatti imbarazza proprio la Ue, perché in Spagna – al contrario – l’ipotesi di escludere dalle elezioni per decreto gli indipendentisti non è affatto esclusa (giocando proprio sulle accuse mosse da una magistratura che tutto è meno che “potere indipendente” dal governo centrale).

Dunque, la domanda a Rajoy è in realtà un test per la tenuta della “narrazione europea”: le elezioni sono un confronto vero, libero, riconosciuto da tutti i partecipanti qualunque sia il risultato, oppure valgono soltanto se il risultato soddisfa una delle due parti? Quella più forte, ovviamente…

Se Madrid dovesse impedire ai partiti indipendentisti di partecipare al voto, sfruttando magari la “latitanza” di parte dell’ex governo catalano, oppure se il risultato – ad oggi imprevedibile, nonostante stiano già uscendo i primi sondaggi commissionati da Rajoy – non fosse riconosciuto dallo Stato spagnolo, ecco che tutto il palloncino della “democrazia formale” verrebbe fatto esplodere alquanto rumorosamente. Mettendo in questione la legittimità democratica non solo dello Stato iberico, ma soprattutto quello dell’Unione Europea che ammette come membro autorevole uno Stato che non rispetta i risultati elettorali.

Cosa accadrà nei prossimi giorni, dunque?

Sul piano dei brutali rapporti di forza, appare evidente che le possibilità di far quadrare il cerchio (“mantenere il più possibile dell’assetto istituzionale della Catalogna”), con pezzi di governo all’estero e nell’impossibilità pratica di emanare “delibere” da far rispettare, è estremamente improbabile. Può essere utile come propaganda politica in vista del 21 dicembre, non come processo effettivo.

E’ infatti molto difficile che l’ex franchista possa far finta di nulla davanti a un “mezzo governo in esilio”, che non riconosce le decisioni dello Stato centrale e “continua a lavorare” in collegamento con la “resistenza passiva” di un altro mezzo governo, dei partiti indipendentisti e soprattutto della popolazione catalana.

Così come per la Ue – e i paesi in cui decideranno di fermarsi i “ministri in esilio” – è difficile trattare ancora a lungo questi dirigenti politici come “normali cittadini europei”, liberi di circolare e attraversare frontiere.

Se poi Rajoy dovesse far emettere i mandati di cattura internazionali previsti dalla denuncia per sedizione, a Bruxelles dovranno inventarsi qualcosa di mai visto per uscirne “puliti” nella pretesa di apparire alfieri integerrimi della “democrazia”.

Lo sapremo molto presto, visto che Puigdemont non si presenterà domattina davanti al procuratore generale. Un scelta che, a rigor di “legalità” spagnola, comporta diverse “misure restrittive della libertà”.

La lotta dei catalani per l’indipendenza e una società meno diseguale, come si intuisce, è solo all’inizio.

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