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06/10/2019

Gli scafisti libici? Li paga e arma lo Stato italiano (e la UE) / parte 2-3


Emergono dettagli ancora più precisi sul legame di ferro tra scafisti libici – che risultano essere anche i gestori dei “campi di accoglienza” e tortura allestiti laggiù con i fondi italiani e della UE – e governo italiano.

Di fronte alla rivelazione, pubblicata da L’Avvenire (il giornale dei vescovi, mica dei bolscevichi!), sulla presenza del capo dei trafficanti – Abdul Rahman “Bija” – in un vertice tenuto nel Cara di Mineo, la reazione generale è stata quella prevedibile: tenere tutto sotto traccia e affidare la smentita a funzionari di terza linea. Il più alto in grado ad esporsi, il sottosegretario agli interni, Carlo Sibilia (Cinque Stelle), ha provato a scaricare tutto su Salvini buttandola in caciara, esponendosi con vero sprezzo del ridicolo al giudizio di essere o incompetente o un bugiardo.

L’ingenuo impenitente – quello nutrito dalla disinformazione professionale dei “grandi giornali” e delle tv di Stato (Mediaset compresa) – deve infatti essere tenuto all’oscuro dei fatti più schifosi ed essere nutrito di “ordine e disciplina”. Specie se i funzionari incaricati di tenere “ordine e disciplina” (polizie, servizi segreti, guardi costiera, guardia di finanza, ecc.) sono in realtà complici e alleati dei peggiori criminali che l’Onu ha inscritto nelle proprie liste invitando tutti a catturarli.

Insomma, un solo ordine è corso tra le redazioni dei “professionisti dell’informazione” e le segreterie dei partiti politici presenti in Parlamento (opposizione d’ultradestra compresa): “su questa faccenda, SILENZIO!”

L’ipotetico “ingenuo impenitente” – tutti coloro che davanti a una notizia-bomba, che dovrebbe sconvolgere il loro ordinato immaginario benpensante, si dicono per prima cosa “sarà un errore, non è possibile” – che abbia letto la prima puntata dell’inchiesta di Nello Scavo è stato perciò indotto a pensare: “sarà stato lui, Bija, abile ad infilarsi in una delegazione libica secondaria, magari controllata con sufficienza dai nostri servizi di sicurezza, che si sono fidati dei loro colleghi dell’altra sponda”.

E invece no. La seconda e la terza puntata chiariscono che il boss dei “trafficanti di esseri umani” è stato accolto anche a Roma, nella sede centrale della Guardia Costiera (quella che deve gestire i soccorsi in mare, oltre che la difesa della cose). Non solo. È stato portato anche in giro per i vari “centri di accoglienza” stanziati in Italia, informato sui costi per ogni migrante “accolto”, ecc. Segno chiaro che il boss è considerato interlocutore “affidabile”, niente affatto in incognito. Anzi.

Ultima nota: divertente, ma non proprio una novità, la nota dell’Aise (servizi segreti interni) che smentisce di aver controllato quegli incontri. Non fa nomi, ma dimentica di citare l’Aisi (la branca dei servizi segreti che si occupa degli esteri). Come nella “spiata alla francese”, che in Italia potremmo tradurre in “non faccio nomi, ma lo indico col naso”...

In alto, la foto ufficiale dell’incontro presso la Guardia costiera a Roma. Il quarto da sinistra è Bija. Il terzo, un delegato su cui stanno lavorando i pm (www.guardiacostiera.gov.it)

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Non c’è ancora chiarezza su chi organizzò il summit nel centro di accoglienza siciliano. Eppure tutti conoscevano il “signore” della rotta libica

Un mese dopo l’atterraggio di Bija in Sicilia (leggi anche il precedente articolo), succede qualcosa di strano: di colpo le partenze di immigrati e profughi dalla Libia precipitano ai minimi storici, con una riduzione superiore al 50% per ogni mese. Si passa dai circa 26mila di maggio – il vertice nel Cara di Mineo è dell’11 maggio – ai quasi 5mila di settembre. Le statistiche elaborate dal ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, fanno venire in mente Leonardo Sciascia, secondo il quale «le sole cose sicure in questo mondo sono le coincidenze».

Eppure, sull’organizzazione di quell’incontro, il giallo continua. Secondo fonti vicine all’allora esecutivo Gentiloni, l’appuntamento di Mineo fu suggerito dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni, l’Oim, agenzia delle Nazioni Unite che ha suoi funzionari anche in Libia. Al contrario, dall’Onu fanno sapere che l’incontro fu organizzato dai ministeri italiani coinvolti a vario titolo nella gestione della crisi migratoria insieme al governo libico, che aveva trasmesso la lista dei partecipanti.

All’epoca dei fatti, fonti del governo italiano facevano sapere che «noi dialoghiamo con le autorità legittimamente riconosciute, ma anche con i sindaci, con le tribù, che costituiscono il tessuto connettivo del Paese. Occorre un dialogo politico tra Est e Ovest, una forte spinta diplomatica».

Un negoziato che, apprendiamo oggi, avrebbe consentito a figure di spicco delle organizzazioni criminali di venire accolte nel nostro Paese con la considerazione solitamente concessa a esponenti di governo. Bija era tra questi, ma non era il solo. Secondo alcune fonti presenti al meeting mai reso pubblico presso il Cara di Mineo, tra i libici vi erano anche altri esponenti vicino all’uomo forte di Zawyah. Nomi che oggi potrebbero essere rinvenuti tra i torturatori di migranti indicati dalle vittime nel corso di varie inchieste delle procure siciliane.

Gli investigatori si sono mostrati molto interessati alle rivelazioni di Avvenire e già nei prossimi giorni potrebbero esserci sviluppi inaspettati. Fonti delle Nazioni Unite confermano che l’incontro avvenne in accordo con il governo italiano e che Bija si presentò inizialmente come direttore di un centro per migranti. Successivamente venne indicato come funzionario della Guardia costiera e ebbe modo anche di visitare la struttura di Pozzallo.

La sua figura era nota, tanto da venire riconosciuto da alcuni rappresentanti di agenzie umanitarie assai sorpresi di vederlo in Sicilia e da cui ancora oggi trapela lo sconcerto per avere appreso che a uomini su cui pendono anche le investigazioni della Corte penale internazionale dell’Aia sia stata concessa una via d’accesso sicura per entrare e uscire dall’Italia.

Al centro degli incontri vi era il «modello di accoglienza italiano da esportare in Libia», specialmente il Cara di Mineo, inaugurato nel 2011 dal governo Berlusconi con l’allora ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni. Poi la delegazione ha visitato anche altre due strutture siciliane. Un “modello” a cui i libici erano molto interessati e su cui, a quanto raccontano le fonti contattate da Avvenire, «avevano grande interesse anche per i costi di gestione e i finanziamenti che sarebbero stati necessari dall’Italia e dall’Europa per analoghe strutture in Libia».

Poco dopo arriveranno ulteriori accuse dagli investigatori Onu, acquisite dalla Corte penale dell’Aja. «Le sue forze – si legge in uno dei documenti – erano state destinatarie di una delle navi che l’Italia ha fornito alla Lybian Coast Guard». E alcuni uomini della sua milizia «avrebbero beneficiato del Programma Ue di addestramento» nell’ambito delle operazioni navali Eunavfor Med e Operazione Sophia.

Inoltre proprio Bija è sospettato di aver dato l’ordine ai suoi marinai di sparare contro navi umanitarie e motopescherecci. Traffici che secondo gli esperti Onu si possono riassumere «nell’affondamento delle imbarcazioni dei migranti utilizzando armi da fuoco», la cooperazione «con altri trafficanti di migranti come Mohammed Kachlaf che, secondo fonti, gli fornisce protezione per svolgere operazioni illecite».

Kachlaf, leader della famigerata brigata Al-Nasr, è a sua volta soggetto alle sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu per traffico di esseri umani ed è ritenuto il vero padrone del centro di detenzione di Zawyah, dove hanno sporadico accesso gli osservatori Onu.

Le autorità del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, assicuravano nelle scorse settimane che Bija era stato reso «inoffensivo». In realtà sarebbe più in sella che mai. Diverse foto circolate in Libia ritraggono Bija mentre festeggia le vittorie sul campo insieme ad altri miliziani. È riconoscibile per la mano destra menomata dall’esplosione di una granata. (Continua-2)

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Quattro giorni dopo il meeting in Sicilia, Bija era ospite della Guardia costiera per un «incontro formativo» Nei report Onu di un anno prima le notizie sulle uccisioni di profughi nel campo di Zawyah

Se la visita delle delegazione libica al Cara di Mineo e in altri centri per immigrati in Sicilia non era mai stata resa pubblica prima delle rivelazioni di Avvenire, emerge ora una foto del 15 maggio 2017 a Roma, nel quartier generale della Guardia costiera italiana quattro giorni dopo il meeting in Sicilia. Accanto agli ufficiali italiani c’è Bija con gli altri emissari nordafricani tra cui, alla destra del trafficante di uomini, una figura su cui si stanno concentrando i legali di diversi migranti passati dai campi libici, testimoni chiave in alcune inchieste avviate nell’isola.

Grazie a Luca Raineri, ricercatore di Relazioni Internazionali e Security Studies presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, scopriamo che Bija era a Roma per una serie di «incontri di formazione». Nella nota che, sul sito della Guardia costiera, accompagnava la notizia si legge: «Nell’ambito del progetto “Sea Demm – Sea and Desert Migration Management for Libyan authorities to rescue migrants”, coordinato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), il Comando Generale delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera ha ricevuto in visita una delegazione composta da rappresentanti di diverse amministrazioni libiche e di funzionari dello stesso Oim».

Bija, in abito scuro, pettinatura impomatata e posa atletica, è tra i più eleganti. L’appuntamento «si è dimostrato un’importante opportunità per trattare argomenti cruciali quali la ricerca e il salvataggio della vita umana in mare, il border control (il controllo dei confini, ndr), l’attuale divisione delle aree Sar (ricerca e soccorso, ndr) nel Mediterraneo Centrale e il progetto di cooperazione tra Italia e Libia, che si propone, attraverso il ricorso a finanziamenti europei, di istituire un efficiente Maritime Coordination Center in quest’ultimo Stato».

Era l’inizio della cooperazione che ha portato a delegare alla cosiddetta Guardia costiera libica la cattura dei migranti in mare. Senza che mai, nonostante le promesse di tutti i governi italiani che si sono susseguiti da allora, vi sia stato un miglioramento dei diritti umani di base, tanto da far chiedere alle Nazioni Unite e anche all’Unione Europea, la chiusura di tutti i campi di prigionia, a cominciare da quello sotto il controllo di Bija e dei suoi complici.

Nelle ricostruzioni ufficiali sul resto del viaggio di Bija, peraltro, rimangono altre grandi zone d’ombra. Le notizie pubblicate dal nostro giornale, infatti, hanno provocato varie reazioni. Dai servizi segreti italiani all’Unione europea. La portavoce del Servizio Ue di Azione Esterna, Maja Kocijancic, ha ribadito che «nessuno dei guardia coste addestrati da Operazione Sophia è sulla lista delle sanzioni Onu», mentre Bruxelles ha chiesto alla Guardia costiera libica di «affrontare il caso di Abdalrahman al-Milad», detto Bija, che «a quanto ci risulta è stato sospeso dal servizio». In altre parole, Bija non può essere considerato un referente delle guardie costiere dell’Ue.

Ma in realtà, come documentato più volte da Avvenire e altre testate internazionali, oltre che da indagini delle Nazioni Unite, le motovedette del boss di Zawyah sono ancora attive e rispondono alle chiamate della centrale di Tripoli, a sua volta allertata dalle Guardie costiere di Paesi come Italia e Malta. L’Ue, dunque, non si assume responsabilità per quanto i singoli Stati fanno, ritenendo di avere dato indicazioni precise per stare alla larga da personaggi con pochi scrupoli.

Contattati dall’agenzia AdnKronos, i vertici dell’intelligence italiana hanno formulato una «smentita categorica» circa la presenza di funzionari del servizio segreto a Mineo. Con un distinguo. Nella precisazione viene indicato che «nessun funzionario dell’Aise ha mai partecipato a quella riunione». L’Aise è l’agenzia per la sicurezza esterna. Curiosamente, non viene indicata l’assenza anche di uomini dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna. Tuttavia, come confermano diverse fonti, non c’è dubbio che l’intero viaggio sia stato seguito da funzionari del ministero dell’Interno, sia a tutela della delegazione estera, che per monitorare gli spostamenti e le mosse degli “ospiti libici”.

Rileggendo le denunce delle Nazioni Unite sui crimini contro i diritti umani commessi dalla Guardia costiera di Zawyah, divulgati precedentemente all’arrivo in Italia della discussa delegazione libica, si ha la conferma che qualcuno in quei mesi ha chiuso un occhio. Quasi ogni trimestre, nei due anni precedenti, le Nazioni Unite hanno denunciato il dramma dei migranti.

Il 16 aprile 2016, in uno dei dossier del Consiglio di sicurezza, viene descritta la situazione del centro di detenzione ancora oggi sotto il controllo di Bija e del suo clan. «L’1 aprile a Zawiyah, quattro detenuti dalla struttura di detenzione di al-Nasr, che è gestito dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (presso il governo di Tripoli, ndr), sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco e 20 altri sono rimasti feriti a seguito di un apparente tentativo di fuga. Anche una guardia è stata ferita. Il caso ha mostrato la seria preoccupazione in corso riguardo alla terribile situazione di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Libia, comprese le condizioni relative a il loro trattamento e la detenzione prolungata».

Il 5 aprile 2017, un mese prima della visita in Italia, la più importante agenzia fotografica del mondo pubblicava un servizio proprio su Bija, ritratto a cavallo, a corredo di una serie di inchieste giornalistiche nelle quali è indicato come perno del network del traffico di esseri umani. Davanti a questi documenti è anche solo difficile ipotizzare che un esponente proveniente da quell’area, ripetutamente indicato per nome e immagini dalla stampa italiana e internazionale, potesse ottenere un salvacondotto per entrare in Italia con la garanzia di poter ripartire senza conseguenze.

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