Dopo circa tre settimane di mobilitazione siamo ad uno snodo determinante. Le,
anzi la manifestazione di Napoli dello scorso 24 ottobre, al di là
delle sue notevoli ambiguità di fondo, ha segnato un passaggio politico a suo
modo decisivo. Dopo dieci mesi di politica a distanza, di testimonianze
inconcludenti, di riunionismo telematico e di sostegno al governo Conte, la
situazione si è rimessa in movimento. Potere del conflitto. Ovviamente ciò che
abbiamo visto in queste settimane è davvero troppo poco per incidere sulla realtà e sulla coazione a riperdere della sinistra del paese. È
un’evidenza talmente ovvia da non dover neppure essere ricordata. Eppure, è
tutto ciò che abbiamo in questo momento. L’alternativa l’abbiamo vista: da
febbraio a ottobre la sola idea di manifestare gettava nel panico le
organizzazioni e i militanti. Figuriamoci quei settori sociali annichiliti
dalla crisi, privi di sponde politiche e di orizzonti ideali alternativi al
disciplinamento emergenziale. Ha poco senso allora lambiccare sui limiti di
questa mobilitazione, di per sé, come detto, evidenti: siamo tutti vaccinati
alla critica politica per intravederne i problemi. Molto più senso assume
l’idea di provare a fare politica nella mobilitazione, spingendola fino alle
sue estreme conseguenze, superando se stessa. Facendo i conti con quel che
c’è, non con quello che vorremmo ci fosse. Questa è la ragion d’essere del
nostro investimento nella costruzione di questo movimento.
Fin qui la mobilitazione ha dato prova di raggiungere obiettivi fino a un
attimo prima insperati. Manifestazioni di massa, cortei non autorizzati,
azioni di protesta, assemblee pubbliche aperte e partecipate. È poco, ma è già
qualcosa. Manca il salto di qualità: da un lato la composizione sociale della
protesta è ancora troppo aderente agli aggregati militanti, vive del continuo
sforzo dei compagni e fatica ad andare oltre loro, oltre noi; dall’altro
quella radicalità che si esprime a parole e nei ragionamenti pubblici fatica a
tradursi in pratica di lotta. Le critiche di chi non è mai uscito da Facebook
lasciano il tempo che trovano, va da sé. Eppure è un problema reale: se stiamo
qui a parlare di una mobilitazione è solo grazie all’esempio della piazza
napoletana. Una piazza non replicabile, per una lunga serie di ragioni,
altrove e soprattutto a Roma. Nondimeno, ha determinato un fatto politico in
grado di imporsi. Stiamo tentando di raccogliere questa istanza, niente di
più, niente di meno. Spurgandola, diciamo così, dalla contaminazione tossica
dell’egoismo proprietario, piccolo borghese, bottegaro. Non ci interessano
improbabili sintesi politiche tra imprenditori e lavoratori dipendenti e
disoccupati. La crisi non è uguale per tutti, nonostante anche quel pezzo – e
forse soprattutto quel pezzo – di borghesia uscirà con le ossa rotte da questa
ricaduta pandemica autunnale. È la direzione politica della protesta che ci
interessa, non includere o escludere questo o quel pezzo di società
depauperata dalla crisi. Quella direzione fino a Napoli era in mano
all’estrema destra – non quella folcloristica di Castellino ovviamente – ma
quella proprietaria, evasora, parassita dell’assistenzialismo statale quando
serve, prontamente evasora e antistatale quando tornerà a commerciare. La
libertà di profitto non ci interessa.
Dopo Napoli qualcosa è cambiato: la destra ha perso agilità, rinfrancata
soprattutto dai famigerati “ristori” con cui lo Stato, attraverso la fiscalità
generale, sta sostenendo questa plebe borghese anarco-vittimista. È rimasta
sul campo della reazione solo l’opzione ideologica neofascista o negazionista,
ovvero le curiosità fisiologiche della politica italiana. Roba davvero poco
interessante. Viceversa, l’unica alternativa presente è quella che in queste
settimane si è presa piazza Indipendenza, e poi ancora via del Corso e il
centro di Roma, Porta Pia e San Lorenzo, e che mercoledì, a piazza dei Mirti,
si vedrà ancora una volta pubblicamente per ragionare insieme sul futuro di
questo percorso fragile e ancora giovane, inesperto e stupito del suo
resistere nonostante tutto. Infine, sabato 21 ci sarà la manifestazione di
piazza del Popolo. L’appuntamento centrale, che segnerà un passaggio chiave
della mobilitazione di queste settimane. L’appuntamento che indicherà se
riusciremo ad andare oltre noi stessi o no. Converrà rischiare qualcosa
allora. Abbiamo bisogno di ragionare su di un piano di proposte credibile, su
di un “programma” concreto e ideale al tempo stesso, capace di dialogare con
quell’enorme porzione di società marginale e di proletariato urbano priva di
referenti e oggi disinteressata alla politica prima ancora che alla protesta.
Non ce la caveremo coi “tu ci chiudi tu ci paghi”, fin troppo pregni di
ideologia reazionaria. Abbiamo bisogno di pensare dunque. Ma prima ancora
abbiamo bisogno di esistere, di essere visibili, di manifestare, di segnare
una nostra presenza, di imporre una lotta di classe. Se la politica, come
piace filosofare ai guardiani del bidone, è rapporto di forze, ecco allora la
costruzione della nostra forza passa a Roma per questa mobilitazione. È ora di
crederci.
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