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18/11/2020

RCEP: la rivoluzione di Pechino

La firma nel fine settimana del più importante trattato di libero scambio del pianeta rappresenta potenzialmente un successo cruciale della Cina nel confronto con gli Stati Uniti per imporre la propria influenza nel continente asiatico. L’accordo commerciale noto come “Regional Comprehensive Economic Partnership” (RCEP) è il risultato di quasi dieci anni di trattative che hanno visto proprio Pechino come protagonista principale. A risultare determinante per mandare in porto il trattato sono state in primo luogo le fallimentari decisioni in ambito commerciale e strategico di Washington sotto la guida dell’amministrazione Trump, tanto che a far parte del nuovo spazio creato dal RCEP saranno anche alcuni storici alleati americani in Estremo Oriente.

Il nuovo trattato copre virtualmente quasi un terzo della popolazione e del PIL globale e include tutti e dieci i paesi dell’ASEAN, ovvero l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam), più Cina, Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda. Per la prima volta, tre delle prime quattro economie asiatiche – Cina, Giappone, Corea del Sud – faranno parte di uno stesso accordo di libero scambio. Questa realtà, a cui va aggiunta la partecipazione dell’Australia, evidenzia la tendenza all’integrazione economica e commerciale tra i partner degli USA in Asia e la Cina, nonostante le pressioni e le manovre americane per impedire questo processo.

Fuori dall’accordo resta per il momento l’India, a cui è stato però riservato un percorso per una possibile futura adesione. Il governo di estrema destra del primo ministro, Narendra Modi, ha ritenuto penalizzanti le condizioni del RCEP per gli agricoltori indiani, esposti al rischio di un’invasione di prodotti di altri paesi, come la Nuova Zelanda. Inoltre, Delhi temeva un’esplosione del deficit già enorme della bilancia commerciale con la Cina. Soprattutto, a pesare sulle posizioni indiane è stata la scelta strategica di questo paese, sempre più nell’orbita degli Stati Uniti, ratificata recentemente dalla piena partecipazione al cosiddetto “Quad”, cioè la partnership militare con USA, Australia e Giappone, e una serie di trattati ancora in ambito militare sottoscritti con Washington.

L’India potrebbe essere comunque il paese asiatico che avrà probabilmente più da perdere dall’esclusione dal RCEP. L’ex diplomatico indiano e commentatore, M. K. Bhadrakumar, ha sottolineato dal suo blog Indian Punchline come questo paese rischi di non avere una parte attiva nella definizione delle nuove rotte commerciale plasmate dal trattato e, oltretutto, la decisione di Delhi potrebbe “aiutare involontariamente l’arci-nemico cinese a diventare il motore principale della crescita nella regione asiatica e del Pacifico”.

L’importanza per la Cina del RCEP risiede anche nel fatto che il trattato, una volta ratificato, promette di contrastare il cosiddetto processo di “decoupling” promosso dagli Stati Uniti, cioè lo stravolgimento delle linee di approvvigionamento internazionale a svantaggio di Pechino, sotto l’impulso dei dazi e delle sanzioni imposte da Trump, e che dovrebbero convergere in particolare verso alcuni dei paesi ASEAN.

In sostanza, in parallelo ai progetti della “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI), la Cina dovrebbe vedere confermata e rafforzata la propria posizione di fulcro della crescita economica e dei commerci in Asia orientale e in Oceania, anche se la tendenza suggellata domenica a margine della riunione virtuale della stessa ASEAN ospitata dal Vietnam rischia di far aumentare ancora di più le tensioni con gli Stati Uniti. Il successo del RCEP è ad ogni modo il riflesso del tracollo della Partnership Trans Pacifica (TPP), il maxi-trattato di libero scambio negoziato dall’amministrazione Obama e liquidato da Trump il primo giorno del suo mandato alla Casa Bianca.

Il TPP era lo strumento in ambito commerciale che la fazione anti-isolazionista della classe dirigente americana intendeva utilizzare per imporre i propri interessi in Asia e limitare l’espansione dell’influenza cinese. Con l’emergere degli impulsi ultra-nazionalisti in seguito all’elezione di Trump nel 2016, la strada scelta per ottenere lo stesso obiettivo era però cambiata, diventando quella del confronto diretto e, in particolare, dei dazi. Nel TPP molti paesi asiatici avevano investito parecchio capitale politico, a cominciare dal Giappone, e alcuni di essi hanno alla fine deciso non solo di aderire all’iniziativa cinese, ma anche di dar vita a un nuovo ridimensionato trattato sulle rovine di quello promosso e poi abbandonato da Washington (“Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership” o CPTPP).

Quello che differenzia il RCEP dal TPP è la capacità del primo e, quindi, della Cina di creare consenso attorno a una serie di condizioni meno gravose e vincolanti per i paesi membri. Se il RCEP abbraccerà una quantità leggermente inferiore di scambi, è anche vero che da esso saranno escluse alcune clausole controverse del TPP, soprattutto alla luce della molteplicità dei sistemi politici e sociali dei partecipanti. Ad esempio, il RCEP non chiede il rispetto di determinati standard ambientali o del mercato del lavoro. In questo modo, inoltre, il quadro regionale che emergerà dal RCEP renderà più ostica la competizione per il business americano.

In termini di PIL dei paesi membri, il RCEP avrà un peso maggiore sia del trattato succeduto al NAFTA in Nordamerica sia della stessa Unione Europea. Circa il 90% delle tariffe doganali attualmente previste negli scambi tra i firmatari del RCEP dovrebbe sparire entro i prossimi venti anni. Regole comuni per il commercio elettronico e, in parte, per la proprietà intellettuale saranno allo stesso modo fissate. Alcune previsioni che riguardano le economie più forti del gruppo danno l’idea dell’importanza del nuovo trattato. L’86% dell’export industriale giapponese verso la Cina e il 92% di quello diretto verso la Corea del Sud beneficerà della cancellazione dei dazi esistenti. Attualmente, la percentuale di merci nipponiche con queste destinazioni che godono dell’assenza di tariffe doganali è rispettivamente dell’8% e del 19%.

Secondo un’analisi della testata on-line Asia Times, il trattato dovrebbe anche contribuire alla risoluzione di conflitti commerciali “politicizzati”, come quello che mette di fronte Cina e Australia. I due paesi hanno da tempo fortissimi legami economici e commerciali, ma i rapporti diplomatici sono molto tesi a causa delle pressioni americani su Canberra e delle divisioni tra la classe dirigente australiana attorno agli orientamenti strategici del paese. Con il probabile ulteriore impulso agli scambi bilaterali derivante dal RCEP, è possibile che gli sforzi degli USA per costringere gli alleati come l’Australia a scegliere tra Washington e Pechino vengano frustrati.

Per Asia Times, una volta acquisiti i vantaggi del nuovo trattato, le iniziative degli Stati Uniti per ostacolare l’espansione cinese, se portate alle estreme conseguenze, comporterebbero un vero e proprio “sabotaggio dell’economia dell’area Asia-Pacifico”. Per quanto importante resti la partnership strategica e militare tra gli USA e i loro alleati, le ragioni economiche diventeranno così a mano a mano sempre più forti. Già oggi, d’altronde, il 41% degli scambi commerciali del Giappone avviene con Cina, Corea del Sud e blocco ASEAN, mentre solo il 15% con gli USA.

Significativo è anche il cambiamento di rotta cinese riguardo l’apertura del proprio mercato in relazione alla partecipazione a trattati di libero scambio multilaterali, cosa insolita per Pechino fino al recente passato. Anche in questo caso, l’evoluzione che si sta osservando è da ricondurre in parte all’offensiva americana, che ha reso necessaria l’apertura agli altri paesi, soprattutto asiatici, per evitare l’isolamento internazionale.

Resta da vedere come la prossima amministrazione americana risponderà ai processi culminati nel RCEP. Il presidente-eletto Joe Biden la scorsa primavera aveva reso noto il proprio pensiero in proposito in un articolo pubblicato dalla rivista Foreign Affairs. In esso, l’allora candidato democratico alla Casa Bianca aveva prospettato un ritorno degli Stati Uniti al multilateralismo in ambito commerciale, a suo dire un’inversione di rotta necessaria rispetto alla condotta di Trump per evitare che a “scrivere le regole che governeranno il commercio globale” sia la Cina invece che gli USA.

Biden, però, riaffermava anche la necessità di fissare regole riguardanti il rispetto dell’ambiente e i diritti del lavoro, due aspetti cioè che il RCEP non ha tenuto in considerazione, facilitandone l’implementazione. L’insistenza su questi temi rischia di far saltare sul nascere qualsiasi velleità dell’amministrazione democratica entrante, anche se più della presunta difesa dei diritti dei lavoratori asiatici a rendere poco attraente la proposta di Washington è più in generale il tentativo di imporre gli interessi strategici e del capitalismo americano ai potenziali partner commerciali.

Quanti si aspettano una rottura netta con l’isolazionismo e l’unilateralismo di Trump nei prossimi quattro anni rischiano in ogni caso di rimanere delusi. La Nikkei Asian Review ha ricordato che, se pure il RCEP potrebbe riaccendere il dibattito in America sull’opportunità degli accordi di libero scambio, le differenze nel concreto potrebbero essere minime anche con Biden alla presidenza. Nella piattaforma programmatica presentata in campagna elettorale, il candidato democratico aveva infatti promesso che gli USA “non negozieranno nessun nuovo trattato prima di avere investito sul fronte domestico nella competitività americana”.

Queste parole differiscono di poco o nulla dalla retorica trumpiana dell’America First e Biden per molti versi ha affermato egli stesso la priorità della produzione industriale americana, evidenziando un approccio protezionista che dimostra come queste tendenze emerse durante l’amministrazione Trump rispondano a condizioni oggettive piuttosto che alle inclinazioni del presidente uscente.

La firma del RCEP è stata dunque accolta da molti come un successo del multilateralismo in un frangente storico segnato dall’avanzata del protezionismo e, nella più ottimistica delle ipotesi per i paesi che vi partecipano, come l’elemento che definirà i possibili equilibri economici e commerciali post-Covid, verosimilmente favorevoli all’Asia. Se tutto ciò è possibile, soprattutto alla luce del declino della posizione internazionale degli Stati Uniti, in queste tesi c’è forse un ottimismo eccessivo.

Le tensioni e le forze che hanno creato gli scenari di crisi di questi anni non spariranno dall’oggi al domani con l’entrata in vigore del nuovo trattato di libero scambio. Il RCEP, a ben vedere, potrebbe anzi contribuire a un processo allarmante, come dimostra la storia del ventesimo secolo, vale a dire la creazione di blocchi contrapposti in ambito commerciale, con il consolidamento delle rispettive posizioni che rischia di alimentare lo scontro piuttosto che stemperarlo, soprattutto se gli Stati Uniti saranno esclusi dalle dinamiche in atto in un’area del pianeta cruciale per la competizione strategica, economica e militare con la Cina.

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