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08/06/2022

Come le sanzioni puniscono il mondo

Il Fondo monetario internazionale stima nel 2022 un calo dell’economia russa dell’8,5% e con il crollo delle esportazioni occidentali mancheranno i pezzi nel settore tecnologico anche per le industrie di base. Ma Putin è riuscito a mantenere un rublo forte e ha il tempo per trovare nuovi partner disposti ad aggirare le sanzioni.

Sarà una guerra senza vincitori, dice l’Onu. Ma già si vedono molti perdenti. Le sanzioni a Mosca non funzionano – almeno per ora – scrive Larry Elliot nell’editoriale del Guardian.

Peggio ancora, stanno avendo effetti perversi sui prezzi dell’energia e alimentari mondiali. E anche sulla politica. Al punto che invece di punire i dittatori come Putin, Biden è costretto, per frenare l’impennata del petrolio, ad andare in visita in Arabia Saudita dal principe assassino Mohammed Bin Salman (quello che ha fatto uccidere il giornalista Khashoggi e che Biden stesso aveva definito un “pariah”).

E a chiudere due occhi, non uno, sui raid di Erdogan contro i curdi – alleati nella guerra all’Isis – che si oppone anche all’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia.

Mettiamo sanzioni a Putin ma non alla Turchia, che invade il territorio siriano e iracheno e vìola sistematicamente le regole (come Israele, per esempio, Ankara non ha imposto sanzioni a Mosca), ma allo stesso tempo sta negoziando con Putin sulle rotte nel Mar Nero del grano da cui dipende la vita di centinaia di milioni di persone nel mondo.

Vale la pena ricordare, tra l’altro, che le primavere arabe esplosero nel 2011 dopo un anno di siccità che fece impennare i prezzi alimentari. Gran parte di questi Paesi dipendono dal 60 all’80% dalle importazioni da Russia e Ucraina.

In un certo senso le sanzioni invece di costringere Putin a fermare l’invasione dell’Ucraina la stanno incoraggiando. Nei primi quattro mesi dell’anno il surplus dei conti correnti russi, grazie all’impennata delle quotazioni di gas e petrolio, ha sfiorato i 100 miliardi di dollari, il triplo rispetto al 2021.

E appena l’Unione europea ha annunciato il bando parziale al petrolio russo (quello via mare), il Cremlino ha beneficiato di un’altra valanga di entrate.

Non solo, per il momento la Russia non sta incontrando difficoltà a trovare mercati di esportazione: in aprile le sue vendite energetiche in Cina sono già aumentate del 50% rispetto all’anno scorso.

Questo non significa che le sanzioni non avranno effetto: il Fondo monetario stima nel 2022 un calo dell’economia russa dell’8,5% e con il crollo delle esportazioni occidentali mancheranno i pezzi nel settore tecnologico anche per le industrie di base.

Ma Putin è riuscito a mantenere un rublo forte e ha il tempo per trovare nuovi partner disposti ad aggirare le sanzioni.

Ci riuscirà anche con l‘aiuto di un Paese maestro nel farlo, l’Iran, da 40 anni sotto embargo, fatta eccezione per il breve momento dell’accordo sul nucleare del 2015 poi cancellato da Trump, il presidente Usa artefice di quel patto di Abramo anti-Teheran tra Israele e le monarchie petrolifere del Golfo, che con la guerra in Ucraina stanno facendo miliardi attirando ex nemici come Turchia e Siria.

In realtà viviamo da decenni, per un motivo o un altro, in un mondo sotto embargo, solo che non lo vogliamo ammettere. Giustamente Luciana Castellina sottolineava sul manifesto una notizia largamente ignorata sui media, ovvero che a fine giugno il vertice Nato non discuterà solo di strategie militari ma anche di scelte energetiche.

Lo fa da sempre senza dirlo, con i fatti e le armi. Perché siamo arrivati alla vigilia della guerra alla dipendenza dal gas e dal petrolio della Russia è semplice e brutale.

Le alternative potevano essere in questi decenni la Libia (con cui l’Italia ha un gasdotto), distrutta dall’intervento francese, Usa e Gran Bretagna nel 2011, l’Iran rimesso sotto embargo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, che possiede le seconde riserve al mondo di gas dopo Mosca, l’Iraq, invaso nel 2003 dagli Usa dove gli europei ormai contano poco.

«Siamo qui a proteggere anche le rotte del gas e del petrolio», mi disse in un’intervista in Kosovo il generale britannico Mike Jackson nel lontano (lontano?) 1999, dopo il bombardamento Nato di Belgrado.

Robert Kennedy junior, nipote del presidente John Kennedy, ha spiegato qualche tempo fa in un articolo per la rivista Politico le vere cause della guerra in Siria. La radice del conflitto armato sono sorte in gran parte dal rifiuto del presidente siriano Bashar Assad di consentire il passaggio di un gasdotto dal Qatar verso l’Europa. Lui il gasdotto voleva farlo con l’Iran, alleato del padre Hafez dal 1979.

L’Europa continentale – la Germania e l’Italia in particolare – dalla seconda guerra mondiale non aveva più il controllo su nessuna fonte energetica. Gli accordi con Mosca erano una strada obbligata (e conveniente) ma questo lo hanno voluto le potenze vincitrici come gli Usa. Gli errori, imputati alla Merkel e alla politica energetica italiana, come si vede, stanno da tutte le parti.

L’embargo e le sanzioni contro Mosca sono state viste come un’arma – finora spuntata – per costringere Putin a negoziare. Ora si progetta di dare sempre più armi all’Ucraina ma potrebbe non bastare mentre con l’escalation bellica si rischia qualche cosa di peggio e intanto le sanzioni a Mosca possono ridurre alla fame il cosiddetto terzo mondo.

Per questo, prima o poi, servirà trovare un compromesso. «Dobbiamo fare in modo che si arrivi alla pace, anche se non si tratta proprio della pace completamente giusta», lo dice persino il segretario del Pd Letta.

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