Il 16 gennaio 1992 a Città del Messico, con la mediazione dell’Onu, furono sottoscritti gli “Accordi di Pace di Chapultepec” che posero fine a 12 anni di sanguinosa guerra civile in El Salvador con un sostanziale pari e patta militare e un saldo di 75mila morti. Firmarono quell’intesa il presidente Alfredo Cristiani della Alianza Republicana Nacionalista (ARENA) partito della destra al governo, e la Comandancia General del Frente Farabundo Martì para la Liberación Nacional (FMLN). Il trattato dispose il pensionamento di 112 alti ufficiali dell’esercito; il disarmo della guerriglia e la sua trasformazione in partito politico; nonché la riorganizzazione di forze armate e polizia con l’inserimento in entrambe di ex combattenti guerriglieri.
Cominciò così a prendere forma un incipiente stato democratico mai sperimentato nel “Pulgarcito (pollicino) de America” come definì El Salvador il suo illustre poeta Roque Dalton. Nel ‘94 si tennero le prime elezioni libere, che confermarono ARENA alla guida del paese e alla quale toccarono tre mandati di fila (fino al 2009), cui seguirono due periodi del FMLN. Da allora non si sono registrati assassinii politici nello stato più piccolo quanto più densamente popolato del subcontinente latinoamericano. Con un fragile potere giudiziario che tentava via via di guadagnarsi una relativa indipendenza.
Ma alla stabilità politica non seguì un miglioramento delle misere condizioni di vita della popolazione. Con ARENA che, controllando anche l’Assemblea Legislativa, continuò a garantire gli interessi della storica oligarchia locale. Fino alla clamorosa adozione nel 2001 del dollaro come moneta ufficiale. E tantomeno attuando quella riforma agraria che gli accordi di pace avevano in qualche modo auspicato per superare il secolare schema coloniale “terratenientes versus peones”.
L’avvento delle maras
Pace dunque; ma con povertà e disuguaglianze sociali crescenti. Il che provocò un nuovo incremento dell’emigrazione (soprattutto verso gli Stati Uniti) già abbondantemente registratosi durante il conflitto. Cui seguì il sorgere di un nuovo fenomeno: le maras (bande giovanili). Nate già nel dopoguerra nei quartieri marginali di Los Angeles, si sono progressivamente rinfoltite in tutta la California (e non solo) coi figli dei migranti centroamericani. I quali, a partire dalla metà degli anni ’90 e una volta scontata una pena in un carcere degli states, venivano deportati a migliaia ogni anno nei loro paesi d’origine. In El Salvador, in un ambiente post conflitto assai precario e con una gran quantità di armi ancora in circolazione, trovarono le condizioni propizie per trapiantarvi le loro pandillas: la Salvatrucha e la Barrio 18, spesso in lotta fra loro.
Di lì il graduale diffondersi nelle periferie delle città fino al controllo di vaste aree in particolare della capitale San Salvador, imponendo la pratica generalizzata dell’estorsione. Col risultato di un’impennata della violenza e degli omicidi fino al tasso di 106 assassinii ogni centomila abitanti (dati del 2015). Fra i più elevati in America Latina e nel mondo senza che vi sia in corso una guerra. Insomma una tragica disputa fra poveri.
ARENA, scarsamente interessata al problema, che non toccava gli iperprotetti quartieri dell’élite benestante, si limitò ad adottare misure propagandistiche di “mano dura” soprattutto in vista degli appuntamenti elettorali. Mentre il FMLN, subentrato nel 2009 per dieci anni alla guida del paese (dopo i venti consecutivi della destra) alternò fasi di repressione a negoziati con i capi delle bande; non riuscendo comunque a contenerle, impossibilitato com’era (senza maggioranza in parlamento) a varare riforme strutturali che incidessero sulla redistribuzione dei redditi e l’incremento dell’occupazione.
Bukele presidente
È in questo contesto che nel giugno 2019 il 38enne Najib Bukele, di lontana origine palestinese, subentra alla sinistra alla guida del paese, senza necessità neppure del ballottaggio e archiviando definitivamente lo schema bipartitista che aveva retto fino a quel momento. Da sindaco uscente della capitale era stato improvvidamente espulso dal FMLN (tra le cui fila era stato eletto) per le sue “intemperanze”. L’ex guerriglia al governo si era rivelata del resto fin troppo ortodossa rispetto all’evoluzione dei tempi, investendo scarsamente sulle giovani disperate generazioni di El Salvador. Che sono poi la stragrande maggioranza della popolazione. Così che Bukele ebbe buon gioco a fondare il partito Nuevas Ideas, che appena due anni dopo avrebbe conseguito anche la maggioranza dei due terzi dei deputati. Di lì in avanti, a colpi di twitter, il giovane millennial inaugura la sua stagione autoritaria. Destruttura l’organismo giudiziario e nomina una Corte Suprema di Giustizia a propria immagine e somiglianza, assumendo di fatto la gestione dei tre poteri dello stato. Oltre a guadagnarsi, da ultimo, i favori di esercito e polizia.
Col suo spirito imprenditoriale, ereditato in famiglia, nel settembre 2021 si avventura (primo paese al mondo) a dare corso legale al bitcoin, investendovi 105 milioni di dollari in risorse pubbliche. Il suo obiettivo era di fare in modo che le rimesse familiari dall’estero (che ammontano a ben il 26% del pil) entrassero nel circuito della valuta virtuale. Non solo: annunciò l’emissione di bitcoinbond per oltre un miliardo di dollari per attrarre investimenti stranieri e fondare sulla costa del Pacifico Bitcoin City; dove “produrre” direttamente in casa (facendo concorrenza al Kazakistan) la criptomoneta grazie all’energia geotermica del vulcano Conchagua. Il tentativo di convertire El Salvador in un paradiso fiscale di nuovo conio si è però rivelato un grande bluff. Tanto che quei promessi bond sono rimasti nel cassetto. Non solo: esaurita la fase di lancio, cui aderirono i due terzi dei salvadoregni (per intascare il bonus di 30 dollari d’entrata nel relativo wallet Chivo) oggi appena il 3% delle transazioni avviene in criptovaluta. E dire che Bukele, che ancora non si dà per vinto, si era spinto persino a sottoscrivere un gemellaggio nientemeno che con la piazza finanziaria svizzera di Lugano.
Lo “stato di eccezione”
Fallita la scorciatoia di creare una ricchezza opaca e speculativa, invece di introdurre finalmente qualche imposta diretta ai settori oligarchici che di tasse (a quelle latitudini) non ne hanno quasi mai pagate, Bukele ha virato sullo scottante tema della sicurezza. E dopo aver tentato accordi di “contenimento” con i leader delle maras (documentati dal prestigioso periodico El Faro) alla fine del marzo 2022, dopo un week-end particolarmente cruento, ha decretato lo “stato di eccezione” in tutto il paese. Con la sospensione delle garanzie costituzionali, il fermo di polizia attuato praticamente senza limiti, processi collettivi lampo e l’abbassamento dai 16 ai 12 anni per la responsabilità penale. Ne è risultata la carcerazione a tutt’oggi di 74mila giovani dei quali diverse migliaia (quelli ostentatamente filmati con i loro vistosi tatuaggi) sono effettivamente pandilleros. Ma tantissimi altri ne sono rimasti caso mai vittima o comunque sono stati arrestati arbitrariamente senza alcuna prova, né previo pronunciamenti giudiziari. Basta la soffiata maligna di un vicino per finire nei nuovi penitenziari di massa allestiti a tempo di record da Bukele. Privi di assistenza sanitaria, tanto che sono numerosi i decessi e comunque le denunce per abusi e torture.
Il risultato è che il tasso di morti violente è certamente precipitato lo scorso anno a sole 4 vittime per centomila abitanti. Ma in compenso El Salvador è assurto a nazione con la più alta percentuale (l’1,4%) di popolazione carceraria del Pianeta. Finendo nel mirino delle varie istanze in difesa dei diritti umani (Nazioni Unite in testa). Con Bukele a controbattere che “le organizzazioni internazionali rispondono a lobbisti che vogliono mantenerci poveri”. Non è del resto un caso che i suoi metodi repressivi siano presi sempre più a modello in America Latina da neopresidenti ultrapopulisti come l’argentino Javier Milei o il giovanissimo ecuadoriano Daniel Noboa; dove (a differenza di El Salvador) la crescita della violenza e della criminalità sono strettamente legate al dilagare del narcotraffico.
Il successo del piano securitario gli ha comunque fatto schizzare alle stelle i consensi; con i salvadoregni che si sentono (comprensibilmente) risollevati, seppur perennemente condannati a campare alla giornata in un paese dove l’economia informale supera il 60%. Così che il presidente “social” ha pensato bene di approfittarne subordinando a sé anche la Corte Costituzionale e il Tribunale Supremo Elettorale. Per poi decidere di ricandidarsi per la nuova tornata elettorale; ovviando all’assoluto divieto dei due mandati consecutivi (sancito dalla carta magna) con una furbesca (quanto fittizia) “sospensione” dall’incarico negli ultimi sei mesi di questo quinquennio.
Naturalmente Bukele, oltre a porre al proprio servizio le istituzioni e conseguentemente impedire qualsiasi forma di controllo sul suo entourage (anche privato) ha rivolto pure le sue “attenzioni” sulle organizzazioni della società civile, intimidendole. E verso i media, registrandosi nel 2022 ben 137 aggressioni di vario genere contro giornalisti. Compreso l’indipendente El Faro, primo magazine digitale latinoamericano, i cui redattori, dopo aver subito intercettazioni telefoniche attraverso il sistema Pegasus, si sono auto esiliati; pur mantenendo le pubblicazioni grazie al contributo di collaboratori anonimi.
La persecuzione contro Rubén Zamora
Dal canto suo alla vigilia delle imminenti consultazioni l’opposizione politica vaga in ordine sparso. Disarticolata e ridotta ai minimi termini (a tal punto che nei sondaggi il secondo “partito” è la scheda bianca più il voto nullo) non è riuscita ad accordarsi su un unico candidato espresso dalla società civile; sul quale sia ARENA che l’FMLN avrebbero dovuto confluire. Con questo obbiettivo si era prodigato a fondo una delle figure chiave della storia del Salvador: il democristiano Rubén Zamora, perseguito e torturato ai tempi dell’ultimo regime militare; successivamente esiliato e alleatosi politicamente con la guerriglia; per poi fare ritorno a proprio rischio e pericolo in patria. Si rivelò decisivo nei negoziati di pace, fino ad essere candidato a presidente per la sinistra nel ’94; nonché ambasciatore in India, negli Stati Uniti e all’Onu durante i governi del FMLN.
Ebbene l’apparato di Bukele si è accanito contro di lui (nonostante i suoi 81 anni) già dal momento in cui costituì il movimento Resistencia Ciudadana. Fino a che a fine dicembre scorso una magistrata, con un’aberrazione giudiziaria, ha emesso un grottesco mandato di cattura nei suoi confronti che, seppur non ancora eseguito, ha provocato l’indignazione della comunità internazionale.
Duri attacchi e velate minacce Bukele le ha dirette anche contro l’Università Centroamericana (UCA) della Compagnia di Gesù, baluardo dell’opposizione civica che non gli risparmia critiche (quello stesso ateneo dei sei gesuiti uccisi dall’esercito durante la guerra). Anche il cardinale Gregorio Rosa Chavez ha parlato di “regime del terrore sulla strada del partito unico” che “disprezza la dignità umana”, riferendosi al recente discorso del presidente all’Assemblea Generale dell’Onu nel quale aveva ostentato i suoi risultati in materia di sicurezza.
Rimuoverà Bukele anche la figura di mons. Óscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador assassinato dagli squadroni della morte nel 1980, che papa Francesco ha fatto “santo” nel 2018? E il cui dipinto si staglia alle sue spalle ogni qualvolta riceve ospiti di riguardo nel salone di protocollo del palazzo presidenziale?
Il “negazionismo” di Bukele
Il capo di stato salvadoregno ha intrapreso del resto da tempo una strategia di sistematica cancellazione del passato. Nell’ottobre scorso a Chalchuapa ha fatto rimuovere un busto di Che Guevara. Mentre è arrivato a disporre l’abbattimento nella capitale dello stesso monumento alla Riconciliazione Nazionale, in occasione dell’appena celebrato 32° anniversario degli accordi di pace, da lui definiti: “l’evento più ipocrita della nostra storia, per la glorificazione di un patto fra gli assassini del nostro popolo che poi si sono spartiti la torta”. Vantandosi di non essere “né di destra né di sinistra, categorie nate ai tempi della Rivoluzione Francese”.
Insomma un Bukele “negazionista”. Quando in realtà è proprio lui a voler emulare per primo (a quasi un secolo di distanza) il generale e presidente Maximiliano Hernandez Martinez nel farsi eleggere per una seconda volta consecutiva. Certo allora vigeva una sanguinaria dittatura militare. Ma anche queste elezioni si svolgono in uno “stato di eccezione” permanente da quasi due anni. Il che non ne garantisce certo l’imprescindibile libertà e trasparenza.
“Saremo la prima democrazia al mondo a partito unico”. Così Nayib Bukele, in queste ore si è proclamato di nuovo presidente in El Salvador (a scrutino ancora in corso) con oltre l’80% dei voti. “Abbiamo battuto ogni record della storia democratica mondiale” ha aggiunto riferendosi pure agli oltre due/terzi dei deputati in parlamento ottenuti dal suo partito Nuevas Ideas, indispensabili per rinnovare a futuro lo “stato di eccezione” in vigore dal marzo 2022.
Il suo slogan vincente è stato: “preferisci che i pandilleros tornino liberi?”. Ottenendo un consenso ovviamente reale, a differenza del vicino Nicaragua dove Daniel Ortega si mantiene al potere a suon di brogli oltre che repressione. Così come si è confermata la riduzione ad una sola cifra dell’ex guerriglia del FMLN e della destra ARENA. Quello che non è chiaro, né verificabile visto che l’apparato di Bukele controlla ogni istituzione del paese (compreso il Tribunale Elettorale, per altro andato in tilt durante il conteggio dei voti) è quanto sia stata effettivamente l’affluenza alle urne e di conseguenza l’astensionismo. Bukele infatti (forse preoccupato) oltre un’ora prima che chiudessero i seggi e violando il silenzio elettorale si era rivolto alla nazione raccomandandosi di recarsi a votare.
Vedremo ora se “il dittatore più cool” (quale Nayib si è autodefinisce) riuscirà a risollevare i salvadoregni che lo hanno votato alleviando anche la loro disperante miseria. Oltre che arginare la corruzione crescente del suo entourage.
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