Se in Nordafrica e Medio oriente il 2011 è stato l’anno di rivolte
popolari eccezionali (ma diverse tra di loro) e di guerre civili (con
interventi di «volenterosi» occidentali), il 2012 potrebbe essere l’anno
dell’espandersi dell’influenza dei paesi del Golfo. Le forze islamiste
uscite vincenti dalle elezioni seguite alle rivoluzioni (Marocco,
Tunisia ed Egitto) e le altre che stanno emergendo (Siria), apriranno la
strada ad un maggiore intervento, ad ogni livello, delle petromonarchie
che per mesi avevano guardato con preoccupazione ai moti popolari. Ora,
al contrario, si trovano in una posizione di controllo molto
vantaggiosa e, di fatto, sono già alla guida della Lega araba. Pochi,
almeno in Italia, ne hanno scritto e parlato, eppure il 19 dicembre 2011
passerà alla storia della regione come il giorno del «Congresso di
Vienna mediorientale» e dell’affermazione di una nuova «Santa Alleanza».
Non per la restaurazione dei dittatori cacciati dalle rivoluzioni ma
per l’affermazione delle autorità più conservatrici esistenti in Medio
Oriente. Gli emirati e le monarchie del Golfo negano alle loro
popolazioni diritti fondamentali e le libertà politiche ed individuali
più elementari. Ma sono immuni da ogni sanzione, grazie anche
all’alleanza strategica che mantengono con gli Stati Uniti. E ora fanno
la voce grossa con gli altri regimi arabi, a cominciare dalla Siria. Da
mesi, peraltro, elargiscono generose donazioni alle forze politiche di
vari paesi arabi, soprattutto in Egitto, che propongono modelli
culturali e sociali più vicini a quelli del Golfo.
La Dichiarazione di Riyadh, emessa al termine dell’incontro annuale
(19 dicembre) dei sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo
(Ccg), ha cristallizzato un’ampia alleanza sunnita, dominata dall’Arabia
Saudita, che rafforza l’architettura di sicurezza nel Golfo di fronte
alla «minaccia» dell’Iran sciita e alla necessità di contenere ed
indirizzare l’ansia di trasformazione divampata un anno fa nella
regione. Il tutto mascherato dall’appello «all’unità» lanciato da re
Abdallah dell’Arabia saudita che ha parlato della formazione di una
singola «entità» tra i sei paesi del Ccg, che dovrà in futuro includere
anche monarchie sunnite che non si affacciano sul Golfo. «La nostra
sicurezza e stabilità sono minacciate – ha detto agli altri cinque
sovrani, re Abdallah – e dobbiamo assumerci le nostre responsabilità».
In poche parole: serriamo i ranghi e difendiamo i nostri interessi. La
Dichiarazione di Riyadh afferma perciò il rafforzamento dei dispositivi
di sicurezza tra gli Stati del Golfo, che abbiamo già visto in azione lo
scorso marzo quando l’Arabia saudita ha inviato truppe nel vicino
Bahrain per reprimere nel sangue le proteste contro re Hamad al Khalifa,
descritte come «manovre sovversive iraniane». Il Ccg pensa ora di
organizzare un sistema comune di difesa più rapido e potente e una più
stretta collaborazione tra i servizi segreti. Il fine è quello di
arrivare ad un esercito del Golfo, in grado di intervenire persino prima
dell’«arrivo dei nostri», ossia dell’apparato bellico statunitense già
presente in modo massiccio nell’area.
Il «club delle monarchie» presto dovrebbe includere anche Marocco e
Giordania che, peraltro, riceveranno ciascuna dal Golfo aiuti per 2,5
miliardi di dollari. L’Egitto potrebbe aggiungersi subito dopo, se
rinuncerà a recitare il ruolo di primo piano che ha sempre avuto. In
questo quadro non sorprende che riguardo lo Yemen il Ccg non faccia
riferimento al pugno di ferro del dittatore-amico Ali Abdallah Saleh
contro le proteste popolari nel suo paese. I petromonarchi al contrario
non mancano di condannare le uccisioni in Siria riconducibili al nemico
Bashar Assad e di «esortare» a Tehran a cooperare con l’Agenzia
internazionale per l’energia atomica. In realtà è una intimazione alla
Repubblca islamica sciita a rinunciare al suo programma nucleare e di
arricchimento dell’uranio, altrimenti l’attacco di Israele e Usa alle
sue centrali atomiche sarà sicuro (con la benedizione del Ccg).
E la Palestina? Il Ccg il 19 dicembre ha trovato poco tempo per i
diritti dei palestinesi. Emiri e re criticano la colonizzazione
israeliana e il blocco di Gaza, del quale però non chiedono la fine
immediata. Dimenticati dalle petromonarchie (e anche dagli altri Stati
arabi), abbandonati dai paesi occidentali, i palestinesi hanno ben poche
possibilità di mandare avanti il loro progetto di Stato indipendente
all’Onu. Il recente storico ingresso della Palestina nell’Unesco rischia
di rimanere un successo diplomatico isolato. E l’inizio del 2012
annuncia una nuova offensiva israeliana contro Gaza.
Fonte.
Mi sa che "il manifestante" celebrato dal Time rischia di prenderselo in quel posto.
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