Come nella favola di Esopo.
Puntuale, ogni fine settimana, da
mesi e mesi, sembra essere quello cruciale, quello della svolta, quello
della salvezza o perdizione. A seconda di come vanno trattative,
incontri, ricatti, minacce. Poi viene il momento in cui la crisi del 2
percento del Pil europeo, di una Grecia piccola diventata importante per
la maldestra politica europea e per la criminale gestione economica
nazionale di due decenni, si trasforma in un brusio di sottofondo.
Noioso, antipatico e marginale, fors’anche da abbandonare a se stesso:
anche il lunedì che verrà, potrebbe essere l’ultimo della Grecia
nell’area euro, addirittura nell’Ue.
Tra oggi o domani, il primo ministro, Loukàs Papadimos,
incontrerà i tre capi dei partiti che sostengono il suo governo. Si
tratta di carpire il consenso del Parlamento alle misure che verranno,
le misure più pesanti da che, in Grecia, si parla solo e ossessivamente
di crisi economica.
I tempi sono serratissimi: l’orizzonte era
costituito da lunedì 6 febbraio e dalla riunione dell’Eurogruppo,
prevista per quella data. È di poco fa la notizia, confermata da
Jean-Claude Juncker, che la riunione è rimandata a quando Atene sarà
pronta. Alla riunione, quando ci sarà, Papadimos dovrà presentare
l’accordo del governo con la troika dei creditori pubblici, come
ultimamente sono definiti Fmi, Ue e Bce da una parte, con i creditori
privati dall’altra (Private sector involvement nella ristrutturazione l
debito, Psi+).
Stando che quest’ultimo pare essere definito nelle
sue linee principali, il vero problema, in queste ore, è la troika. O
meglio, le misure che essa richiede perché possa avviarsi il programma
di salvataggio deciso a Bruxelles il 27 ottobre.
Al licenziamento di
statali entro il 2015, agli ennesimi tagli alle pensioni, alle
privatizzazioni, all’ulteriore riduzione delle spese per la salute, alla
completa liberalizzazione delle professioni, al tipo di azioni che
saranno concesse alle banche greche da ricapitalizzare dopo la
ristrutturazione dei titoli di stato, si aggiunge quello che somiglia al
colpo di grazia per l’economia nazionale e per la vita dei lavoratori
greci: riduzione dello stipendio minimo garantito (660 euro) e
sostanziale abolizione della tredicesima e quattordicesima.
Le parti
sociali, sindacati, Confindustria e Confcommercio sono d’accordo: se
ciò dovesse avvenire l’economia nazionale ne soffrirebbe
irrimediabilmente. Il Ministro del Lavoro ha presentato, invano, studi
in cui si dimostra come la non competitività delle imprese greche non
deriva dai costi salariali.
Eppure, la troika insiste, ribattendo
che i salari ellenici sono superiori a quelli spagnoli o portoghesi. Non
rimane, pertanto, che tagliare.
Proprio su questo punto, il
governo incontra le difficoltà maggiori, difficoltà che si incentrano
sul partito di centro-destra Nea Dimocratia, guidato da Antonis Samaràs.
Questi ha più volte ripetuto che i minimi salariali non devono essere
toccati e, nelle ultime ore, tace i suoi intenti in vista dell’incontro,
che ci sarà oggi o domani, tra il Primo Ministro e i capi dei partiti
della coalizione governativa.
Solo se Papadimos avrà il via libera
dalle forze politiche di governo, potrà annunciare che seguirà i diktat
della troika e, pertanto, ottenere il prestito di cui la Grecia ha
bisogno entro il 20 marzo.
Tutto sembrerebbe appeso a un filo,
Papadimos minaccia di restituire al Presidente della Repubblica il suo
mandato ma Antonis Samaràs forse non ha nessuna voglia di sostenere il
peso che deriverebbe da un tale sviluppo. Si dovrebbe parlare, allora,
dell’ ‘ultimo atto’ della Grecia nelle tormento del debito. Il sito
skai.gr, infatti, ha pubblicato la notizia che fonti del Fmi lasciano
trapelare che, nel caso la Grecia non si sottomettesse pienamente ai
diktat, l’evento sarà interpretato, automaticamente, come una
dichiarazione politica di abbandono della zona euro e dell’Ue. E, come
che sia, il fallimento del Paese sarebbe dichiarato ufficialmente.
Fonte.
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