Mentre le forze siriane in guerra contro l’Isis entravano nella provincia di Raqqa, almeno duemila terroristi di Al Nusra, Ahrar al-Sham e di altre formazioni della cosiddetta “opposizione moderata” bombardavano sabato scorso con artiglieria, razzi e mortai le posizioni delle milizie curde a Sheikh Maqsood, alla periferia nord di Aleppo. Le notizie parlano di almeno 40 morti tra civili e militari e oltre 100 feriti. In precedenza, un migliaio di jihadisti avevano attaccato Aleppo anche da sudovest, partendo da zone controllate dall’opposizione “moderata”. Complessivamente, nella giornata di sabato, per i bombardamenti dell’Isis su varie città siriane, sono rimaste uccise oltre 270 persone e diverse centinaia ferite.
Questo, mentre 32 militari erano stati uccisi e 67 feriti venerdì scorso a Bosso, località posta sulla frontiera tra Niger e Nigeria, in un massiccio attacco portato da diverse centinaia di terroristi di Boko Haram, la setta islamista africana affiliata a Daesh. Si tratterebbe del bilancio più pesante inflitto quest’anno da Boko Haram al Niger, in cui, nell’aprile 2015, lo stesso Boko aveva attaccato una postazione militare sul lago Ciad, facendo 74 morti, tra militari e civili. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, la banda islamista era pesantemente armata. Le Monde Afrique scrive che, a partire dal 2009, Boko Haram avrebbe ucciso almeno 20mila persone tra Nigeria, Niger, Camerun e Ciad.
Dunque, qui, come anche in Siria, l’armamento delle formazioni islamiste, insieme al loro finanziamento, rappresenta uno degli assi della questione. Alle varie potenze – repubbliche cosiddette “democratiche”, monarchie feudali e aperte dittature – di cui è da tempo documentato il sostegno in armi, soldi e anche reparti di soldati regolari (dalla Turchia, ad esempio) all’Isis, vanno ora ad aggiungersi anche altre fonti. Da questo punto di vista, non fanno particolarmente notizia i “lanci intelligenti” di rifornimenti statunitensi che, al pari delle loro “bombe intelligenti”, troppo spesso vanno a cadere dove non dovrebbero. E’ il caso delle armi lanciate dagli elicotteri USA e destinate alla cosiddetta “opposizione moderata” siriana a Marea e finite invece in bocca ai jihadisti.
Una parziale novità in fatto di forniture di armi ed equipaggiamenti è invece data dal fatto che, tra i “benefattori” dell’Isis, compaia ora anche una repubblica golpista. In uno dei depositi di armi dell’Isis scoperti in Siria dalle forze governative, scrive la russa RT, sono state rinvenute lastre per blindatura dei veicoli e materiale esplosivo di fabbricazione ucraina. Gli scambi di favori in uomini, mezzi e finanziamenti tra Kiev e Ankara sono noti da tempo e non stupisce che, tra una triangolazione e l’altra, i destinatari finali compaiano dopo alcuni passaggi. Ciò che desta un po’ di meraviglia è che del materiale bellico ucraino risulti efficace per l’Isis.
Alla fine dell’Urss, scrive infatti RT, circa 3 milioni di persone lavoravano in Ucraina in 3.594 imprese del complesso militare industriale in senso lato, di cui circa 1,5 milioni erano occupate in 700 imprese esclusivamente belliche. Nel 2013, rimanevano solo 140 imprese, di cui 134 statali e, dall’inizio della guerra nel Donbass, circa 30 di queste lavorano alla produzione di guerra o alla riparazione dei mezzi bellici. Tradizionalmente, il grosso della produzione militare ucraina è sempre stato per l’export; nel 2015, le fonti ufficiali ucraine parlavano di contratti per 1,3 miliardi di $, anche se, secondo il Sipri, tale quota era appena di 323 milioni. La drastica riduzione sarebbe dovuta alla insoddisfazione di vari acquirenti internazionali per la qualità dei prodotti – ad esempio i carri “Oplot-T” forniti alla Thailandia, i MiG-21 alla Croazia, i blindati “Butsefal” all’Iraq – che sarebbero il risultato di assemblaggi di pezzi più vecchi o semidistrutti. In tale situazione, scrive RT, pur se, secondo il Sipri, all’Ucraina andava il 3% dell’export mondiale di armi tra il 2010 e il 2014 e il paese occupava il nono posto al mondo, l’obiettivo posto da Poroshenko di entrare tra i primi cinque esportatori mondiali di armi pare oggi non così vicino come poteva apparire appena due anni fa.
In ogni caso, quantomeno fino a che non comincerà a essere effettiva la ristrutturazione delle forze armate e del complesso militare-industriale ucraino secondo gli standard Nato, in base al Bollettino strategico di difesa firmato oggi da Petro Poroshenko, c’è comunque da sperare che i materiali bellici ucraini che finiranno in mano all’Isis siano della stessa qualità ed efficienza di quanto venduto a Thailandia e Croazia.
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