I sempre più sofisticati e micidiali droni statunitensi hanno colpito un altro leader nemico. E’ il capo dei talebani pakistani Umar Khalifa (chiamato anche Umar Narai o Khalid Khurasani) che aveva progettato il massacro della scuola di Peshawar: 147 morti, in gran parte bambini e adolescenti figli di militari. Uccisi, uno per uno, nelle classi e nei cortili dell’istituto per vendicare i raid voluti dai due Sharif, il premier Nawaz e il capo delle Forze armate Raheel, che nell’autunno 2014 facevano martellare a suon di artiglieria i villaggi del Warizistan, una delle enclavi dei miliziani. Sotto quelle macerie giacevano corpi maciullati di altri bambini, l’anello debole di tutte le violenze. Il boss, barba nera fittissima e lunga più del mullah Omar, è stato raggiunto da un missile che l’ha disintegrato assieme ad altri capi combattenti. Unica incertezza il momento dell’azione che il Pentagono ha indicato nello scorso sabato, mentre il governo pakistano sostiene sia avvenuta domenica. E’ seguito un silenzio stampa di qualche giorno e stamane la divulgazione della notizia tramite alcune agenzie internazionali, immediatamente riprese dall’emittente Al Jazeera.
Gli esperti di turbanti che negli ultimi mesi hanno monitorato le trasformazioni interne alla rissosa famiglia talebana, già distinta nel ceppo pashutun afghano nei clan pakistani coi ribelli intransigenti dei Tehreek-e Taliban e la creazione d’una frazione affiliata all’Isis nella provincia del Khorasan, dibattono se quest’ennesima perdita inciderà sulla direzione del gruppo. Alcuni sostengono che Khalifa era sicuramente un riferimento per il suo nucleo guerrigliero, una delle appendici dei TTP, ma la perdita non risulta strategica per la galassia fondamentalista che ha l’ambizione di mettere in difficoltà gli esecutivi di Kabul e Islamabad. Il primo obiettivo è decisamente alla portata, visto che le locali componenti talebane stanno proseguendo sulla strada dello scontro aperto col governo Ghani. Infatti Akhundzada il capo dei turbanti subentrato a Mansour, egualmente eliminato con l’effetto drone, non ha mutato l’orientamento offensivo del predecessore, tantoché la linea ufficializzata nel vertice Nato, appena concluso a Varsavia, stabilisce un ritorno al passato nelle operazioni militari sul territorio afghano. “Resolute Support” proseguirà e potrebbe mutarsi in una nuova missione Isaf, visto il totale flop della preparazione d’un esercito afghano.
La valutazione sulla situazione pakistana è differente. La vastità del territorio, la forza dell’esercito ben radicato fra la popolazione sia perché offre una sponda lavorativa sia per decennali politiche giocate attorno a questa struttura, rende più ardua l’ipotesi. Nella storia recente del Paese le Forze armate hanno rappresentato un bastione fortemente sostenuto dall’occidente statunitense ed europeo in funzione antislamista (il Pakistan è uno degli attori regionali più ambiziosi e detiene da tempo l’atomica), ufficiali e militari seguono una preparazione risoluta e lo scontro armato con essi è altra cosa rispetto all’armata brancaleone afghana. La destabilizzazione tentata dalle frange pro Isis, punta sugli attentati sanguinari che incutono terrore fra la popolazione. L’esempio è quello di Lahore con le bombe e i kamikaze attivati fra le giostre del Gulshan-i-Iqbal Park per la disgrazia di settanta bambini e genitori. Stragi mostruose, che appaiono inutili e perverse in tutta la loro crudeltà, ma che possono servire per incrinare la forza degli attuali leader. Innanzitutto del clan Sharif, chiacchierato per i troppi interessi privati d’una famiglia ricchissima, che non pensa certo alle sorti dei milioni di pakistani poveri. E tutto ciò nelle regioni bollenti come il Khorasan o le aree tribali della Fata ha il suo peso e funge da reclutamento per chi insegue un conflitto senza tregua.
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