Il cda di TIM ha venduto ieri 5 novembre la rete per 22 miliardi al consorzio formato da KKR, Ministero delle Finanze e F21: il Ministero avrà una partecipazione di minoranza del 20%, circa metà dei dipendenti di TIM saranno trasferiti alla nuova società infrastrutturale.
Non possiamo che ribadire il forte giudizio negativo sull’operazione, lanciando un segnale d’allarme e individuando nella politica industriale un vero punto di debolezza dell’opposizione sia da parte del PD sia da parte dell’AVS.
Siamo di fronte infatti all’ennesimo passaggio che segnala l’assenza dell’Italia da una qualche idea di piano di strategia industriale.
L’operazione TIM/KKR è un “unicum” in Europa: separazione della rete dai servizi e privatizzazione.
Inutile enfatizzare il ruolo dello Stato, come ha cercato di fare il governo: il fondo americano KKR diventerà proprietario al 65% di un asset strategico del nostro Paese e non ci sono stati forniti elementi per capire quali garanzie siano realmente previste per le scelte strategiche, l’occupazione, gli investimenti e la tutela dei dati.
Ne avevamo già accennato a febbraio di quest’anno quando era apparsa la notizia dell’avvio della trattativa in questione: senza alcuna concessione “sovranista” così si dimostra tutta la fragilità del contorto processo di privatizzazioni avvenuto in Italia nel settore decisivo delle infrastrutture tecnologiche (intendiamoci bene: dal tempo dei dalemiani “capitani coraggiosi” discendendo per le rami dal prodiano scioglimento dell’IRI).
Da allora si è creata una situazione di evidente scalabilità e debolezza, a dimostrazione di una ormai storica incapacità di programmazione dell’intervento pubblico in economia e di assenza di politica industriale (che coinvolge anche l’Europa).
L’opposizione e il sindacato non possono rimanere ingabbiati in questa dimensione strategicamente inesistente, tutta rivolta all’autoconservazione del politico, schiacciata dall’emergenza dell’immediato.
Serve un colpo d’ala nella progettualità e nell’intervento del pubblico sui nodi strategici, serve affermare la forza del movimento dei lavoratori da proiettare in avanti, non basta evocare un indefinito “green” e un imperscrutabile “digitale” in un Paese al centro della contesa europea e che accusa da tempo limiti enormi dal punto di vista della politica industriale soprattutto sul delicatissimo terreno dell’innovazione nei settori strategici. Limiti del resto non affrontati neppure nella “possibile”(?) occasione fornita dal PNRR al riguardo della quale il discorso andrebbe affrontato in sede opportuna ma che non può essere sottovalutato o peggio dimenticato.
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