Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

30/04/2024

Cose preziose (1993) di Fraser Clarke Heston - Minirece

Il significato rivoluzionario del Primo Maggio e la questione sindacale

1) Origine, significato e valore del Primo Maggio

La “giornata internazionale del lavoro” venne istituita a Parigi nel corso di un congresso operaio che vide costituirsi, in significativa coincidenza con il primo centenario della presa della Bastiglia, il 14 luglio 1889, la Seconda Internazionale. Proprio per tale motivo questo anno passerà alla storia come il “secondo ’89”.

Lo scopo dei dirigenti del movimento operaio e socialista che fissarono questo annuale appuntamento, che per decenni avrebbe visto le classi lavoratrici dei più diversi paesi del mondo manifestare per i loro diritti economici, sociali e politici, fu quello di fare del Primo Maggio il momento centrale della storica battaglia per la conquista della giornata lavorativa di 8 ore. La data fu prescelta in ricordo dei fatti di Chicago, dove il l° maggio di tre anni prima si era svolta una grande manifestazione della classe operaia che aveva visto 80.000 lavoratori scendere in sciopero per rivendicare la giornata lavorativa dì 8 ore.

Dopo la sanguinosa provocazione della polizia, che il 3 maggio aveva attaccato i lavoratori dinanzi ai cancelli di una fabbrica, la borghesia nord-americana scatenò una durissima repressione contro i “Knights of Labor” (Cavalieri del lavoro), l’organizzazione che aveva diretto gli scioperi e promosso le manifestazioni dei lavoratori.

Gli effetti della furiosa campagna propagandistica con cui il padronato e il governo attuarono l’azione repressiva al fine di criminalizzare i “Knights” e di isolare il movimento operaio dall’opinione pubblica, furono talmente pesanti e duraturi, che ancor oggi negli Usa i lavoratori sono costretti dal potere capitalistico, il quale ha così cercato di cancellare perfino il ricordo di quei conflitti, a celebrare le loro lotte il primo lunedì di settembre.

A partire dalla sua nascita, indissolubilmente connessa al ricordo dei “martiri di Chicago”, altri significati si sono aggiunti alla “Festa del Lavoro” nei periodi successivi e nel solco delle specifiche tradizioni dei diversi paesi. Ancor oggi il Primo Maggio è una ricorrenza celebrata nei paesi capitalistici e nei paesi del Terzo Mondo. Quando un “leader” carismatico del socialismo italiano, Andrea Costa, affermò nel 1893, a proposito del Primo Maggio: “I cattolici hanno la Pasqua; da oggi in poi anche i lavoratori avranno la loro Pasqua”, mise bene in luce la portata universale, militante e classista della “festa del lavoro”.

2) Sindacati e partito comunista nel periodo della Terza Internazionale

La Terza Internazionale (1919-1943), dal canto suo, nei momenti più acuti della lotta di classe poneva con forza, contrapponendosi alla tradizione opportunista della Seconda Internazionale socialdemocratica, il problema della separazione dei rivoluzionari dai riformisti:
«Poiché per i comunisti gli scopi e l’essenza dell’organizzazione sindacale sono più importanti della sua forma, essi non debbono arretrare neppure dinnanzi ad una scissione delle organizzazioni all’interno del movimento sindacale, qualora il rinunziare alla scissione equivalesse a rinunziare al proprio lavoro rivoluzionario nei sindacati, a rinunziare al tentativo di fare di questi uno strumento di lotta rivoluzionaria, a rinunziare ad organizzare la parte più sfruttata del proletariato» (“Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale”, 3 agosto 1920).
E quando le scissioni avvennero per iniziativa dei riformisti, che espellevano i comunisti dai sindacati, e si crearono così sindacati rivoluzionari come in Francia con la CGTU, l’Internazionale détte le seguenti indicazioni:
«Là dove la scissione tra il movimento sindacale opportunista e quello rivoluzionario è già avvenuta, là dove, come in America, accanto ai sindacati opportunisti sussistono organizzazioni rivoluzionarie, anche se non di tendenze comuniste, i comunisti sono tenuti ad appoggiare questi sindacati rivoluzionari, ad aiutarli a liberarsi dei pregiudizi sindacalisti e a portarli sul terreno del comunismo: esso soltanto è una bussola sicura nella confusione della lotta economica.

Là dove nell’ambito dei sindacati o al di là di essi, nelle fabbriche, si costruiscono organizzazioni, come gli ‘shop stewards’ e il consiglio di fabbrica, che si pongono come scopo la lotta contro le tendenze controrivoluzionarie della burocrazia sindacale e l’appoggio alle azioni spontanee e dirette del proletariato, è evidente che i comunisti debbono appoggiare con tutta la loro energia tali organizzazioni» (“Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale”).
3) Sindacati di base e sindacati confederali

In sostanza la Terza Internazionale subordinava la creazione di una nuova organizzazione sindacale alle seguenti condizioni:
a) quando non è possibile un lavoro rivoluzionario nei sindacati;
b) quando non è possibile fare dei sindacati uno strumento della lotta rivoluzionaria;
c) quando nei sindacati non si riescono ad organizzare i settori più sfruttati del proletariato.
Ora, la domanda a cui occorre rispondere è la seguente: è possibile in questo periodo condurre un lavoro rivoluzionario all’interno dei sindacati confederali?

In effetti, abbiamo visto le espulsioni nella CGIL dei delegati non in linea. Se non è possibile fare un lavoro rivoluzionario nei sindacati confederali, è implicito che non se ne possa fare uno strumento di lotta rivoluzionaria. Per quanto riguarda il terzo quesito, si vede quanto il lavoro precario sia lasciato a se stesso, così come accade in certi settori del mondo del lavoro, dove ci sono situazioni di sfruttamento ai limiti della sopportazione umana.

Bisogna allora riconoscere nella creazione dei vari sindacati di base un’esigenza della parte più avanzata dei lavoratori salariati rispetto ai continui cedimenti dei sindacati confederali.

Per questo motivo è giusto considerare attualmente come prioritario l’intervento dei comunisti all’interno dei sindacati di base per dare a tali organismi un orientamento politico efficace; diversamente, se lasciati alla loro spontaneità, questi organismi possono diventare delle brutte copie dei sindacati confederali, cioè dei micro-sindacati che coltivano il proprio orticello.

Questo non significa però trascurare l’intervento nella CGIL, ossia consegnare alle dirigenze collaborazioniste centinaia di migliaia di lavoratori; sennonché questo intervento va esplicato senza illusioni di sorta circa rotture di massa tra i lavoratori o circa una possibile direzione alternativa.

In realtà, ogni qualvolta la lotta di classe si sviluppa, essa deve affrontare il problema di rompere politicamente ed organizzativamente con le politiche di collaborazione per tendere verso la costruzione di un sindacato di classe e di massa.

Fondamentale resta infine la consapevolezza della differenza irriducibile che intercorre tra il partito comunista e il sindacato: differenza che consiste nel fatto che, per quanto conflittuale possa essere, il sindacato di classe e di massa si limita (non per cattiva volontà ma) strutturalmente a lottare contro gli effetti dello sfruttamento, laddove spetta al partito comunista condurre la lotta strategica contro le cause dello sfruttamento.

4) Il Primo Maggio tra integrazione e conflittualità

Ripercorrere pertanto la storia del Primo Maggio in Italia significa individuare le tappe del lungo cammino del movimento operaio nel nostro Paese a partire dalle grandi lotte combattute per creare i primi embrioni di organizzazione sindacale, cooperativa e infine politica, indispensabili sia per ottenere un reale miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita (tra loro strettamente connesse, come ben presto si capì e come oggi si tende a dimenticare), sia per porre un limite al bestiale sfruttamento capitalistico; passando attraverso il divieto di celebrare la Festa, quando le classi lavoratrici, private dei loro partiti e dei loro sindacati, caddero sotto il giogo della dittatura fascista; per giungere fino ai nostri giorni che vedono, in un quadro che riproduce, all’interno di un regime formalmente democratico, taluni meccanismi nazional-corporativi di quel ventennio, il movimento operaio presentarsi diviso, subordinato ed impotente di fronte a un avversario di classe che, nonostante i suoi acuti conflitti interni, appare invece compatto e sempre più aggressivo.

L’importanza storica e politica (non meramente sindacale) del Primo Maggio, che riceve da questi dati storici un’ampia conferma, spiega l’attuale tentativo, condotto dalle forze dominanti e dal loro agenti interni al movimento operaio, di svuotare tale Festa di qualsiasi contenuto classista e di toglierle ogni carattere militante.

Sennonché la riflessione sul senso del Primo Maggio non può essere disgiunta da un attento esame della situazione attuale del movimento sindacale italiano, che appare sempre più diviso e subordinato (come dimostrano l’imposizione di un modello contrattuale regressivo e peggiorativo, la sostanziale cooptazione della Cisl nel blocco governativo e padronale, la linea incerta, subalterna e rinunciataria della Cgil).

La recessione capitalistica significherà, quindi, per la classe operaia, se questa non sarà capace di stabilire un nesso inscindibile tra le sue forme di organizzazione e le sue forme di lotta, un ulteriore pauroso arretramento su tre decisivi terreni: quello del benessere materiale, quello dei rapporti di forza con la classe capitalistica e quello del livelli di coscienza politica.

Il nostro paese, infatti, a causa della congenita debolezza della sua struttura economica, è destinato a subire le conseguenze più pesanti della congiunzione tra l’ondata recessiva in corso e gli eventi bellici sempre più incalzanti: accentuazione degli squilibri già esistenti nei settori produttivi, aumento del deficit già enorme del bilancio statale, ripresa del tasso d’inflazione, bassi salari, licenziamenti in massa ed espansione dell’esercito della manodopera precaria formato da giovani, donne ed immigrati stranieri, destrutturazione dei servizi sociali (a partire dalla scuola e dalla sanità), crescente impoverimento della popolazione lavoratrice e contestuale arricchimento delle classi dominanti.

In sostanza, i costi più pesanti della crisi e delle manovre di parte padronale e governativa dirette a rialzare un tasso di profitto sempre più declinante, saranno fatti pagare ai lavoratori con un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro e con una regolamentazione del diritto di sciopero in senso sempre più restrittivo, sino alla sua pratica vanificazione.

5) Rivendicazioni immediate, memoria storica e prospettiva strategica

Una particolare attenzione deve essere posta da tutti i lavoratori nel contrastare la riproduzione, attraverso l’introduzione dell’autonomia differenziata, delle “gabbie salariali”, ossia di una struttura delle retribuzioni, parimenti differenziata, fra il nord e il sud: tendenza sostenuta in chiave esplicitamente corporativa e nord-sciovinista dalla Lega Nord, che anche su questo piano rivela la sua natura reazionaria di forza di complemento del blocco capitalistico.

La consapevolezza dell’origine, delle cause e dei caratteri dell’attuale situazione delle classi lavoratrici trova oggi il suo fattore unificante, di carattere non solo ideale ma anche materiale, nella lotta contro la guerra imperialista e contro il sionismo, nella denuncia della organica complicità dell’Unione Europea e del governo Meloni rispetto all’una e all’altro, nell’appoggio militante e nella solidarietà con l’eroico popolo palestinese.

In questo senso, la chiara dimostrazione dell’importanza rivoluzionaria e internazionalista del Primo Maggio costituisce un elemento vitale della coscienza di classe dei lavoratori tanto riguardo al loro passato quanto riguardo al loro presente e al loro futuro.

Il Primo Maggio, da questo punto di vista, nonostante le ombre pesanti stese sul suo significato storico e programmatico dal revisionismo e dal riformismo, continua ad irradiare sull’origine e sul destino del movimento operaio la luce potente di una prospettiva di riscatto, di emancipazione e di libertà (quella vera, la libertà dal bisogno): prospettiva che il dominio sempre più feroce e distruttivo delle classi borghesi rende ancor più attuale ed urgente.

Con questa stessa ottica si esprimeva uno scrittore tedesco, Walter Benjamin, “compagno di strada” del movimento comunista nel periodo di ferro e di fuoco della Terza Internazionale, affermando giustamente in una delle sue celebri “Tesi di filosofia della storia” che «il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono» e che «esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante», cosicché «per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo».

Da quando il Primo Maggio fu proclamato “giornata internazionale del lavoro” sono trascorsi centotrentacinque anni. Più di un secolo di lotte, di conquiste, di preziose esperienze, ma anche di sconfitte, di arretramenti e di aspre lezioni.

L’impegno dei comunisti è rivolto a creare le condizioni che, da un lato, permettano alla classe operaia e al popolo lavoratore del nostro paese di ricongiungere la propria azione agli aspetti vivi e attuali di questa secolare vicenda e, dall’altro, li pongano in grado di portare avanti la battaglia per l’emancipazione sociale, difendendo il valore della forza-lavoro, spezzando la cappa soffocante del regime neocorporativo, affermando il proprio controllo sul mercato del lavoro, collegandosi ai nuovi problemi e alle nuove figure che sono emersi nel mondo della produzione e dei servizi, ma soprattutto risolvendo in modo nuovo e creativo il problema della costruzione dei due fondamentali strumenti della loro azione economica e politica: un sindacato di classe dei lavoratori, un partito del proletariato il cui obiettivo sia la rivoluzione socialista.

Di fronte all’attacco politico, ideologico e culturale, che la borghesia capitalistica ha sferrato alla teoria comunista e alla storia del movimento operaio con lo scopo di prevenire, contenere e reprimere la politicizzazione in senso rivoluzionario delle masse lavoratrici, i comunisti debbono rispondere anche sul terreno della ricostruzione della memoria storica del proletariato, mettendo in luce i veri significati del Primo Maggio, giornata di festa, di lotta e di organizzazione dei lavoratori che tornano ad innalzare, sollevandola dal fango in cui l’hanno gettata i revisionisti e i liquidatori di ogni risma, la rossa bandiera che reca il grande appello dettato da Marx e da Engels: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!».

Fonte

USA - I “Democratici” come i “Repubblicani” chiedono lo sgombero della Columbia University

Sono 21 i congressisti del Partito Democratico che hanno scritto al consiglio di amministrazione della Columbia University chiedendo lo sgombero definitivo della tendopoli degli studenti pro-palestinesi sul campus dell’ateneo.

Finora erano stati i congressisti repubblicani a far pressione sui dirigenti dell’università per porre fine alla protesta studentesca.

Una conferma in più dell’influenza del tutto trasversale della lobby sionista sui luoghi decisionali negli Stati Uniti.

“È ora che l’università agisca con decisione e assicuri la sicurezza di tutti gli studenti sgomberando l’accampamento. Il tempo dei negoziati è scaduto”, hanno scritto i deputati “democratici”: “La responsabilità ultima spetta al Consiglio di Amministrazione. Chi non se la sente, si deve dimettere”.

Hanno firmato la lettera, tra gli altri, i congressisti Josh Gottheimer e Dan Goldman, l’ex leader della maggioranza Dem alla camera Steny Hoyer e i colleghi Adam Schiff, Dean Phillips, Debbie Wasserman Schultz e Ritchie Torres.

La scorsa settimana, con il leader della maggioranza repubblicana alla Camera Mike Johnson in prima fila, numerosi deputati repubblicani avevano chiesto le dimissioni della preside dell’ateneo Minouche Shafik che, pur avendo chiamato la polizia nel campus, era stata giudicata troppo debole per gestire la situazione.

La Columbia University ha intanto annunciato di aver cominciato a sospendere gli studenti che hanno deciso di non sgomberare l’area nonostante la scadenza dell’ultimatum. Chi è sospeso non potrà partecipare al semestre o, se è all’ultimo anno, laurearsi.

Il Washington Post riferisce intanto che almeno 900 persone sono state arrestate negli Stati Uniti dall’inizio dell’ondata di proteste universitarie pro-Palestina. Il quotidiano definisce gli arresti “la più massiccia risposta di polizia all’attivismo nei campus universitari da anni a questa parte”, ma avverte anche che gli arresti potrebbero innescare nei prossimi mesi numerose battaglie legali nei confronti delle forze dell’ordine e delle amministrazioni universitarie, che hanno chiesto il loro intervento.

Le manifestazioni che da settimane animano i campus sull’intero territorio degli Stati Uniti sono state perlopiù caratterizzate da occupazioni e sit-in pacifici, ma sono talvolta degenerate in tafferugli tra i manifestanti che chiedono la fine delle ostilità a Gaza e i contromanifestanti pro-Israele.

Manifestanti e polizia si sono duramente affrontati lunedì all’Università di Austin, Texas, in uno scontro che ha portato a decine di arresti.

Al campus di Austin, un avvocato ha detto che almeno 40 manifestanti sono stati arrestati lunedì con l’accusa di violazione di domicilio, alcuni dei quali da agenti in tenuta antisommossa che hanno circondato circa 100 manifestanti seduti, trascinandoli o portandoli fuori uno per uno tra le urla. Un altro gruppo di manifestanti ha intrappolato la polizia e un furgone pieno di arrestati tra gli edifici, creando una massa di corpi e spingendo gli agenti a usare spray al peperoncino e dispositivi flash-bang per sgomberare la folla.

Fonte

Sanzioni di ritorno. L’Italia ora piange con la Russia

Viene insegnato già nei primi rudimenti di fisica – e anche nella scuola “della strada” – che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Dal febbraio 2024 – e su alcuni prodotti dal 2014 – l’Italia come altri stati dell’Unione Europea ha adottato pesanti sanzioni contro la Russia.

Dopo circa due anni la Russia ha deciso di rispondere nazionalizzando alcune delle aziende straniere presenti sul proprio territorio dei paesi che hanno adottato sanzioni. Tra questi c’è anche l’Italia che, come noto, è impegnata economicamente e militarmente contro la Russia nel teatro della guerra in Ucraina.

Come noto, queste sanzioni hanno danneggiato relazioni economiche consolidate, incluse molte aziende italiane che ai “tempi della cuccagna” (dopo la dissoluzione dell’URSS e negli anni del capitalismo selvaggio, ndr) avevano rilevato aziende russe – spesso a due soldi – o avevano impiantato stabilimenti sul territorio russo.

Lunedì il segretario generale della Farnesina, Riccardo Guariglia, “ha espresso il forte disappunto del Governo italiano” all’ambasciatore russo Alexey Paramonov, convocato al ministero degli Esteri in relazione al trasferimento in amministrazione temporanea di Ariston Thermo Rus – società appartenente al Gruppo Ariston – ad una impresa del gruppo Gazprom.

Un decreto analogo ha colpito anche un’azienda tedesca e la lista dei procedimenti potrebbe continuare.

Come quello che casca dal pero, adesso l’Italia scopre che se dai un pugno a qualcuno quello potrebbe anche restituirlo, a meno che il suprematismo occidentale sia veramente convinto di poter menare sempre le mani senza mai subirne le inevitabili conseguenze.

“In linea con i partner europei, ed in particolare con la Germania – ha fatto sapere la Farnesina – l’Italia chiede alla Federazione Russa di ritirare le misure adottate contro legittime attività economiche di imprese straniere nel Paese“.

E con le sanzioni contro le legittime attività economiche russe in territorio italiano (per non dire degli altri asset russi in Occidente, di cui ci si vorrebbe appropriare per finanziare a gratis l’Ucraina) che si fa, i finti tonti?

In una nota l’ambasciata russa ha fatto sapere che “sono state fornite spiegazioni esaurienti sulla legalità e fondatezza delle decisioni prese riguardo a un’azienda che, de jure, è olandese [a causa del trasferimento della sede legale per pagare meno tasse, ndr].
È stato sottolineato che queste misure, nel rispetto del relativo quadro giuridico, sono state adottate in risposta alle azioni ostili e contrarie al diritto internazionale intraprese dagli Stati Uniti d’America e dagli altri Stati esteri che si sono uniti a loro, volte a privare illegalmente la Russia, le sue entità giuridiche e varie persone fisiche del diritto di proprietà e a limitare tale diritto su beni situati nel territorio di tali Stati”.

“Non si può non considerare che la retorica e il tono sempre più aggressivi e irresponsabili dei leader occidentali e delle loro compagini non possono che essere interpretati come deliberata intenzione di minacciare in modalità continuativa la sicurezza della Federazione Russa, quella nazionale, economica, energetica e di ogni altro tipo”, fa sapere ancora.

L’Ambasciatore della Federazione Russa inoltre “ha ricordato agli interlocutori che Mosca ha sempre attribuito particolare importanza alle proficue e reciprocamente vantaggiose relazioni commerciali ed economiche con l’Italia. La responsabilità per le conseguenze negative del loro deterioramento ricade interamente sulle autorità italiane che hanno sacrificato i reali interessi nazionali della Repubblica per partecipare a sterili e pericolose avventure geopolitiche anti-russe”.

Il ministro degli Esteri Tajani dichiara di essere in contatto sin dal primo momento con l’azienda italiana e si riserva di approfondire le conseguenze della decisione russa insieme ai partner G7 e UE e di valutare una risposta appropriata. In linea con i partner europei, ed in particolare con la Germania, l’Italia chiede alla Federazione Russa di ritirare le misure adottate contro legittime attività economiche di imprese straniere nel Paese.

Appunto, fanno i finti tonti ma “i tempi della cuccagna” sembrano proprio finiti.

Fonte

Le accuse all’Unrwa erano false, i crimini del governo israeliano no

Il 26 gennaio scorso, Philippe Lazzarini, Commissario generale dell’agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti alle popolazioni palestinesi costrette nei campi profughi, sin dal 1948, l’Unrwa, ha dovuto aprire un’indagine su alcuni dipendenti dell’agenzia, (12), sospettati di essere coinvolti negli attacchi di Hamas del 7 ottobre ad Israele, procedendo al licenziamento di gran parte di loro.

Tutto è partito sulla base di quella che sembra una vera e propria fake news, costruita unicamente su segnalazioni delle autorità israeliane a cui non è seguita ad oggi alcuna prova documentale.

Ma la segnalazione ha prodotto la sospensione dei finanziamenti all’Unrwa a cui hanno immediatamente aderito numerosi paesi. L’Italia è stata in prima linea insieme ad Australia, Canada, Germania, Finlandia, Paesi Bassi, Svizzera, Svezia e Regno Unito.

Pochi giorni fa il Guardian ha pubblicato le anticipazioni dei risultati della commissione d’inchiesta indipendente, guidata dall’ex ministra degli Esteri francese Catherine Colonna. Intanto, dopo la denuncia, Israele non ha presentato alcuna prova a sostegno delle sue accuse dopo che sono trascorsi 3 mesi.

“In assenza di una soluzione politica tra Israele e palestinesi, l’Unrwa rimane fondamentale nel fornire aiuti umanitari salvavita e servizi sociali essenziali, in particolare nel campo della sanità e dell’istruzione, ai rifugiati palestinesi a Gaza, Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania”
, si legge nel rapporto, presentato da Colonna all’Onu.

Il suo ruolo resta quindi fondamentale. Ma l’agenzia ha fornito una parte consistente delle prove che il governo del Sudafrica ha esibito in sede di tribunale penale internazionale, per sostenere l’accusa di genocidio contro i governanti di Tel Aviv.

Difficile non considerare il tentativo di Israele di screditare l’agenzia come una ritorsione. Far scomparire o almeno limitare la presenza Unrwa permette di non avere testimoni scomodi, sia dei crimini commessi in questi sei mesi, sia di fermare il lavoro di censimento delle famiglie palestinesi obbligate ad abbandonare le proprie case, o ciò che ne resta, privando quindi le persone del sostegno legale per vedersi riconosciuto il diritto al ritorno, in osservazione alla Risoluzione 194 dell’Onu, una delle tante perennemente disattese da Israele.

La pulizia etnica si realizza anche attraverso simili pratiche. Nel frattempo alcuni paesi hanno ritenuto opportuno disobbedire aumentando le risorse da destinare all’Unrwa.

Già dai primi giorni di marzo, Canada, Svezia, Finlandia e Spagna, nonostante le proteste israeliane, hanno ricominciato a versare i fondi all’agenzia, nel frattempo emergono nuovi elementi a dir poco inquietanti.

In questi 6 mesi di bombardamenti su Gaza sono stati uccisi 88 operatori Unrwa. A quanto risulta, in nessun altro conflitto è stato così alto il numero di vittime di persone che lavorano nelle agenzie delle Nazioni Unite ed è difficile pensare unicamente ad effetti collaterali.

A questi andrebbero aggiunti 249 cooperanti e oltre 100 operatori dell’informazione. Se si dovesse provare che alcune vittime sono frutto di scelte volute, si tratterebbe di un nuovo crimine compiuto dalle forze Idf già minacciate di inchiesta dagli stessi Usa. Che il governo italiano scongeli i fondi Unrwa è il minimo sindacale.

Sarebbe significativo riprendere e fare propria la denuncia del ministro degli Esteri dell’Irlanda, Micheal Marin che ha accusato Israele di voler distruggere deliberatamente l’Unrwa per rimuovere in maniera definitiva ogni ipotesi di “diritto al ritorno”, condizione indispensabile per parlare di pace nella giustizia.

In Italia il CRED (Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia) ha presentato un esposto contro il governo italiano per genocidio del popolo palestinese evidenziando anche il fatto che si cerca di distruggerne la resistenza negando aiuti e facendo irrompere la carestia come strumento di ricatto.

Ma Giorgia Meloni tace ed è forte il timore che voglia seguire le scelte Usa che, nonostante l’infondatezza delle accuse di Israele, ha optato per un taglio definitivo dei fondi all’Agenzia ONU.

Il comportamento statunitense è da considerare ancora più doloso dopo la scelta, fatta oggi con votazione al Congresso, di aumentare di 13 mld di dollari gli aiuti militari concessi a Israele, proprio mentre l’Onu dichiara di voler aprire un’inchiesta per le fosse comuni a Gaza considerate “crimini di guerra”.

E queste non sono fake news, come non è falsa la notizia relativa alle dichiarazioni del ministro della Sicurezza nazionale di Israele Itamar Ben-Gvir, esponente dell’estrema destra di Otzma Yehudit (Potere Ebraico).

Il ministro, da sempre su posizioni ultra reazionarie, il cui partito auspica l’espulsione di tutti i cittadini arabi dalla “Grande Israele”, i cui confini non sono ancora stabiliti, ha chiesto che si infligga la pena di morte ai prigionieri palestinesi per ridurre il sovraffollamento delle carceri israeliane.

Fonte

Elezioni in Sud Africa: la posizione del Partito Comunista (SACP)

Pubblichiamo la dichiarazione del Partito Comunista del Sud Africa (SACP) in occasione del 30° anniversario delle prime elezioni libere nel paese, il 27 aprile del 1994.

La formazione, per lungo tempo costretta alla clandestinità, è stata uno dei perni della lotta contro l’apartheid ed alleata dell’African National Congress anche nella lotta armata contro il regime di Pretoria.

In questo documento il SACP fa un bilancio della lotta intrapresa dai popoli sudafricani prima contro il colonialismo e poi contro l’apartheid sostenuti dall’imperialismo. Successivamente rinnovando l’alleanza degli ultimi trent’anni con l’ANC e chiarendo il significato politico della propria indicazione di voto alla formazione di cui è stato leader Nelson Mandela per le decisive elezioni che si terranno il prossimo 29 maggio.

Nel documento di alcuni anni fa, in cui venivano “celebrati” i propri 100 anni di lotta, erano già ben chiari i caratteri della doppia sfida che dovevano affrontare i comunisti nel paese: da un lato contro i tentativi di “destabilizzazione” imperialista per mano dei suoi agenti locali e dall’altro contro l’ala neoliberista della ANC, che andava minando il raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla “Carta delle Libertà”.

Come viene ben spiegato in quest’ultimo documento, non si tratta di elezioni che hanno solo una valenza locale: “La nostra non è una semplice lotta nazionale. È una lotta internazionale contro un sistema internazionale. Un voto per l’ANC il 29 maggio è un voto per la nostra sovranità nazionale democratica e per la continuazione della lotta di solidarietà internazionale” che vede il Sud Africa, membro dei BRICS +, uno dei perni del mondo multipolare ed uno dei maggiori sostenitori della causa palestinese come ha dimostrato la sua azione alla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU sostenuta da un amplio fronte al primo interno.

*****

Dichiarazione in occasione del 30° anniversario della svolta democratica dell’aprile 1994

Giovedì 25 aprile 2024

Mercoledì 27 aprile 1994 ha segnato la nostra vittoria nella lunga battaglia contro il regime oppressivo consolidato nella nostra terra dalla Gran Bretagna imperialista e dai suprematisti della minoranza bianca fin dal 1910, nelle precedenti formazioni coloniali del Capo, del Fiume Orange, del Natal e del Transvaal.

Sabato 27 aprile ricorre il 30° anniversario della storica svolta democratica dell’aprile 1994 contro il regime dell’apartheid, l’ultima delle formazioni statali coloniali razziste che espropriavano e opprimevano la maggioranza e detenevano il potere nel nostro Paese.

Celebriamo la conquista democratica dell’aprile 1994, duramente conquistata, senza perdere di vista il fatto che, nonostante i lodevoli progressi di cui hanno beneficiato milioni di persone, non tutti gli obiettivi della Carta della Libertà sono stati pienamente realizzati.

A luta continua!

La lotta per smantellare l’intera eredità dell’oppressione razziale e di genere, trasformare e sviluppare il Sudafrica per raggiungere tutti gli obiettivi della Carta della Libertà e avanzare verso una società socialista, in cui lo sfruttamento di una persona da parte di un’altra e tutte le forme di oppressione saranno eliminate, continua.

Questo è il nostro messaggio centrale nel 30° anniversario della nostra liberazione democratica faticosamente conquistata.

Guardare indietro, apprezzare i nostri progressi, marciare in avanti con maggiore determinazione

Come sudafricani, non dobbiamo dimenticare il doloroso passato, le nostre lotte per superarlo, e la sua eredità. Gli imperialisti britannici e i suprematisti delle minoranze bianche erano ugualmente interessati allo spietato sfruttamento capitalistico dell’Africa oppressa in particolare e dei neri in generale. L’agenda dei colonialisti era vecchia di secoli e risaliva all’espansione mondiale del sistema capitalistico di sfruttamento dall’Europa.

Come dimostra Karl Marx nel suo libro in tre volumi de Il Capitale: l’Inghilterra è stata il “locus classicus”, cioè il terreno classico, del sistema capitalistico di sfruttamento. L’Inghilterra ha usato questo come base per espandere il sistema, costruendo il suo programma imperialista.

Anche gli olandesi si sono espansi, culminando nel colonialismo della minoranza bianca suprematista in Sudafrica. Così come i tedeschi, i francesi e i portoghesi, che hanno colonizzato altre parti dell’Africa. L’elenco continua, risalendo all’inizio dei coloni e delle altre miserie coloniali che gli africani hanno sopportato, compresa la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia per gli schiavi.

Gli africani hanno vissuto una miseria incalcolabile nella storia dell’umanità. Questo aspetto è globalmente sminuito dalla storiografia prevalente. La miseria subita dagli africani e la sua eredità rimangono problemi irrisolti. Ciò richiede il rinvigorimento e l’intensificazione della rivoluzione africana per ottenere responsabilità, assicurare la giustizia e garantire la completa libertà.

Nel “Manifesto del Partito Comunista”, di cui fu coautore insieme a Frederick Engels, Marx sottolinea che l’accerchiamento del Capo da parte degli europei è stato uno degli sviluppi chiave che hanno dato impulso all’espansione del sistema capitalistico mondiale. Questo sviluppo ha aperto la strada a una lunga miseria coloniale dopo che gli europei si sono stabiliti nella nostra terra nel 1600. Ma siamo chiari.

Ciò non è avvenuto senza resistenza. La nostra lotta di liberazione non è stata quindi la prima risposta al colonialismo nella nostra terra. È stata una continuazione rivoluzionaria delle valorose guerre di resistenza combattute dai nostri antenati, principalmente sotto eroici leader tradizionali.

Durante la nostra lotta di liberazione, abbiamo affrontato un blocco di potenze imperialiste che avevano interessi economici e politici radicati nella nostra terra. Negli anni ’70, oltre alla Gran Bretagna, le principali potenze imperialiste, tra cui Germania Ovest, Francia, Stati Uniti e Giappone, avevano stabilito un enorme controllo economico e un’influenza politica nel nostro Paese.

Come l’ANC ha osservato nella sua “Strategia e tattica” adottata nel 1969 in esilio a Morogoro, in Tanzania, il blocco imperialista costituiva “un formidabile sostegno al regime di apartheid”. I regimi imperialisti potevano, in una “situazione di crisi… passare dal sostegno all’intervento attivo per salvare il regime razzista”.

Gli Stati Uniti consideravano la nostra lotta di liberazione nient’altro che un programma terroristico. In seguito, hanno inserito nell’elenco dei terroristi molti dei principali esponenti della lotta, tra cui il presidente Nelson Mandela. E non è finita qui. Gli Stati Uniti hanno mantenuto Mandela nella loro “lista di controllo dei terroristi” anche dopo la sua elezione democratica a presidente del Sudafrica nel 1994. Di conseguenza, egli rimase in quella lista per tutto il suo mandato di presidente sudafricano e oltre, fino al 2008.

La nostra vittoria nella battaglia contro il regime dell’apartheid ha segnato una rottura radicale con l’era secolare della colonizzazione e dell’espropriazione coloniale, della disumanizzazione e dell’oppressione, tutte basate sul sistema di sfruttamento capitalistico. Si tratta di una svolta democratica radicale che passerà alla storia come una pietra miliare rivoluzionaria contro un regime oppressivo sostenuto dall’imperialismo.

Il SACP coglie l’occasione per rendere omaggio alla classe operaia per il grande ruolo svolto in tutti e quattro i pilastri della nostra lotta di liberazione: lotta armata, mobilitazione di massa, organizzazione clandestina e isolamento internazionale del regime dell’apartheid.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio

Nel celebrare il 30° anniversario del nostro regime democratico, la classe operaia, le sue organizzazioni e i suoi alleati non devono perdere di vista il fatto che “il lupo perde il pelo ma non il vizio”.

Come ha detto il segretario generale del SACP Solly Mapaila durante la commemorazione annuale del 31° giorno della morte di Chris Hani il 10 aprile, i sostenitori o i beneficiari impenitenti dell’oppressione, come le forze imperialiste, non hanno cambiato atteggiamento.

Hanno formato partiti separati sotto la guida di bianchi in un Paese la cui popolazione è a stragrande maggioranza nera. Questo fa parte dell’ostinata eredità dell’apartheid, delle precedenti forme di oppressione coloniale e della realtà del sistema capitalista in corso.

I beneficiari impenitenti dell’oppressione sguazzano felicemente nelle ricchezze ereditate da essa, senza risparmiare alcuno sforzo per salvaguardare questo retaggio di oppressione. I loro partiti sono ancora sostenuti dai regimi imperialisti e fungono da tramite per la trasmissione interna delle agende imperialiste, comprese, ma non solo, le articolazioni della politica estera imperialista.

Questi partiti, come sotto l’apartheid, hanno stabilito connessioni politiche con partiti che sono guidati da ex leader dei Bantustan o che hanno le loro radici nella politica di apartheid dei Bantustan. Oltre a sostenere queste due categorie di partiti, gli imperialisti stanno ora sostenendo nuovi partiti “popcorn” elettorali.

Gli imperialisti cercano senza sosta di dividere le forze e le circoscrizioni della nostra storica lotta di liberazione. Nelle prossime elezioni nazionali e provinciali, il loro obiettivo è quello di estromettere l’ANC dal potere e sostituirla con un regime fantoccio composto da una coalizione asservita e di destra.

A questa controrivoluzione si sono uniti gli scarti del nostro movimento, tra i quali i più identificabili sono noti per le loro tendenze indisciplinate, egoistiche e corrotte, legate agli interessi dell’accumulazione capitalistica, per non parlare di alcuni apparati dello Stato.

Se a questi impenitenti sostenitori o beneficiari dell’oppressione viene data un’altra opportunità, faranno di nuovo la stessa cosa, anche se in modo diverso sotto certi aspetti, dato che i tempi sono cambiati. In un video che Clive Derby-Lewis, l’assassino razzista condannato, ha ordinato di diffondere solo dopo la sua morte per aggirare le condizioni di libertà vigilata, professa spudoratamente che ripeterebbe la stessa cosa se gli venisse data un’altra opportunità.

Quando gli assassini e chi faceva parte del loro complotto hanno pianificato e portato a termine l’assassinio a sangue freddo di Hani, il loro obiettivo era quello di far precipitare il Sudafrica in una guerra civile. Volevano bloccare la nostra transizione alla democrazia e l’espansione della democratizzazione verso una società socialista.

Con grande sconcerto, la diffusa rabbia della classe operaia in risposta all’assassinio costrinse il regime dell’apartheid a fissare il 27 aprile 1994 come data per le prime elezioni in Sudafrica. In questo modo si pose fine al regno del regime dell’apartheid con un voto democratico a maggioranza. Al di là della sua pluridecennale attività rivoluzionaria, il sangue dell’instancabile martire comunista Chris Hani ha avuto un ruolo significativo nella svolta democratica che ha posto fine al regime dell’apartheid.

Ricordiamo coloro che hanno pagato il prezzo più alto con la loro vita.

Dedichiamo il 30° anniversario della svolta democratica dell’aprile 1994 alla memoria dei guerrieri che hanno combattuto nelle guerre di resistenza alla colonizzazione e di tutti i martiri della nostra lotta per la libertà.

Il modo migliore per farlo è utilizzare ogni anno il Giorno della Libertà come momento di riflessione strategica, con lo scopo di intensificare la lotta per la realizzazione di tutti gli obiettivi della “Carta della Libertà” verso la completa libertà, in contrapposizione al “Finalmente liberi”, “La lotta è finita” e ad altre nozioni superficiali che caratterizzano in maniera miope la nostra transizione dal regime dell’apartheid e il Giorno della Libertà.

L’appello “A luta continua!”, che significa “La lotta continua!”, rimane più che mai attuale. Dovrebbe continuare a guidare la classe operaia, comprese le donne, i giovani, i disoccupati e tutti coloro che subiscono l’ingiustizia capitalista, compresa l’eredità dell’oppressione razziale, lo sfruttamento di classe, la disuguaglianza di genere e lo sviluppo ineguale.

Queste condizioni sottolineano l’intrinseca disuguaglianza di classe all’interno del sistema capitalista ed evidenziano che la libertà completa può essere raggiunta solo superando l’intero sistema.

È compito storico della classe operaia e dei suoi alleati, con il Partito Comunista che sviluppa e svolge il suo ruolo di avanguardia, intensificare la lotta per l’emancipazione universale.

Il Partito Comunista ha svolto il suo ruolo di avanguardia quando ha aperto la strada al non razzismo e alla lotta per trasformare il Sudafrica in una repubblica indipendente con uguali diritti per tutti e con un governo democratico a maggioranza, tra gli altri. Il Partito ha collegato questo aspetto direttamente con l’imperativo di avanzare verso una società socialista.

Quando è stato necessario, il Partito Comunista ha assunto un ruolo guida nell’adottare e integrare la lotta armata nei pilastri della nostra più ampia lotta per il rovesciamento dell’apartheid.

Questo culminò nella formazione, con l’ANC, dell’originale uMkhonto weSizwe (MK) nel 1961 e in una risposta clamorosa da parte della classe operaia. L’eredità dell’MK è sempre stata e sarà sempre sotto la guida politica dell’Alleanza guidata dall’ANC. Non si deve permettere che venga usato per fini privati.

Uniamoci e difendiamo il nostro patrimonio di liberazione, comprese le conquiste del nostro regime democratico.

Nel celebrare il 30° anniversario della svolta democratica del 1994, uniamoci per difendere le conquiste ottenute da milioni di persone. In parlamento e al governo, è stato sotto la guida dell’ANC, democraticamente eletta, grazie al coinvolgimento attivo della nostra Alleanza e al sostegno della classe operaia, che abbiamo adottato la nostra attuale Costituzione e che il Sudafrica ha intrapreso il complesso viaggio per annullare le secolari ingiustizie coloniali.

Al di là della Costituzione, in cui abbiamo inserito la Carta dei diritti, le conquiste democratiche ottenute da milioni di persone includono, ma non solo, i seguenti aspetti.

I diritti dei lavoratori, che ora includono il salario minimo nazionale e i suoi aumenti annuali.

Una legislazione progressista sul lavoro, che consente ai lavoratori di confrontarsi con le pratiche lavorative scorrette, facilita lo sviluppo delle competenze e l’equità occupazionale e contribuisce a migliorare le condizioni di lavoro e di vita.

Di conseguenza, il volto di molte aree rurali, in particolare delle township, è migliorato. Un numero crescente di sudafricani si è costruito una casa. Il governo guidato dall’ANC è intervenuto per riqualificare coloro che ancora non lo sono. Ciò ha fatto sì che oltre cinque milioni di stand o case di mattoni e malta, in gran parte costruiti dal governo, siano stati assegnati gratuitamente ai beneficiari.

Più di 17 milioni di persone hanno beneficiato di questa politica di assistenza, secondo il censimento del Sudafrica del 2022, che ha rilevato che 3,5 persone costituiscono la dimensione media della nostra famiglia nazionale.

Entro il 2022, oltre l’82% delle famiglie sudafricane ha avuto accesso all’acqua potabile all’interno o all’esterno delle abitazioni o dei cortili.

La distribuzione percentuale delle famiglie che utilizzano lo sciacquone come tipo di servizio igienico principale è aumentata, passando da una bassa base razziale prima del 1994 fino a circa il 71% nel 2022.

L’espansione dell’elettrificazione delle famiglie ha riguardato gli ex oppressi – esclusi dai successivi regimi coloniali e di apartheid per cento anni, dal 1894 al 1994. Ora le famiglie sudafricane che utilizzano l’elettricità come fonte principale di energia, almeno per l’illuminazione, hanno raggiunto quasi il 95%.

Ora abbiamo strade di accesso asfaltate nelle aree rurali, in cui gli ex oppressi erano confinati e trascurati o, nel migliore dei casi, poco sviluppati dai successivi regimi coloniali e di apartheid. La rete stradale sudafricana è aumentata a oltre 750.000 chilometri entro il 2020, portando il nostro Paese ad avere la decima rete stradale più lunga del mondo.

Abbiamo raggiunto un accesso quasi universale all’istruzione per i bambini di cinque e sei anni. Anche l’accesso all’istruzione di base per coloro che hanno più di sei anni, a livello di scuola primaria e secondaria, si è notevolmente ampliato.

Questo è sostenuto, tra le altre politiche governative, dal Programma di nutrizione scolastica. Noto anche come programma di alimentazione scolastica, questo programma protegge i bambini, soprattutto quelli provenienti da famiglie povere, dall’insegnamento e dall’apprendimento a stomaco vuoto.

Il National Student Financial Aid Scheme (NSFAS) ha finanziato oltre cinque milioni di studenti sin dalla sua istituzione. Prima dell’istituzione del NSFAS con la legge del 1999, il Fondo per l’istruzione terziaria del Sudafrica non copriva gli studenti delle università di istruzione e formazione tecnica e professionale (TVET).

Il governo guidato dall’ANC ha ampliato gli aiuti finanziari agli studenti delle scuole TVET, contribuendo in modo lodevole all’accesso gratuito all’istruzione universitaria attraverso le borse di studio del NSFAS.

L’espansione dell’assistenza sanitaria, compresa l’assistenza sanitaria gratuita per le donne incinte e gli anziani, nonché il trattamento dell’HIV, sono tra le nostre conquiste democratiche nazionali. L’ampio programma anti-HIV del governo ha fatto sì che il 79% di coloro che conoscono il proprio stato ricevano il trattamento e che nel 93% dei casi sia stato viralmente soppresso.

Quasi 19 milioni di persone ricevono sussidi sociali. Durante l’anno finanziario che va da aprile 2022 a marzo 2023, 8,5 milioni di persone hanno ricevuto il sussidio sociale di soccorso, che il governo ha introdotto al culmine della pandemia mortale COVID-19.

Ciò ha portato il numero totale di persone che hanno ricevuto i sussidi sociali a oltre 26 milioni. I sussidi sociali svolgono un ruolo fondamentale nella riduzione della povertà.

Sebbene i progressi siano lenti e continuino a destare grande preoccupazione, evidenziando l’imperativo di potenziare, finanziare adeguatamente e accelerare i programmi di sradicamento della povertà, il tasso di povertà in Sudafrica è sceso dal 71,1% del 1993 al 60,9% del 2010, per poi scendere ulteriormente al 55,5% nel 2020.

I nostri progressi avrebbero potuto essere più ampi in termini di estensione e portata. Il sistema capitalistico, caratterizzato da un lato dall’accumulo della ricchezza della società e dalla sua concentrazione nelle mani di un’esigua minoranza di capitalisti e dall’altro dal lavoro salariato, in cui i salari sono inferiori al valore creato dal lavoro, porta alla povertà di massa, alla miseria e perpetua la disuguaglianza di classe.

Il capitalismo, così come la corruzione che genera, ostacola il progresso imponendo vincoli di risorse al pubblico.

Abbiamo bisogno di una più ampia unità della classe operaia e di un cambiamento fondamentale per risolvere questo problema sistemico e portare la trasformazione e lo sviluppo a livelli più alti, puntando infine all’uguaglianza e a una migliore qualità della vita per tutti.

Una vittoria decisiva per l’ANC il 29 maggio

Il SACP fa appello alla classe operaia, sia femminile che maschile, e ai giovani, così come agli studenti, ai contadini, ai settori progressisti della classe media e a tutti coloro che sostengono la trasformazione democratica e lo sviluppo:

Rechiamoci alle cabine elettorali il 29 maggio ed esprimiamo un voto clamoroso per una decisiva vittoria elettorale dell’ANC su tutte le schede.

Sforziamoci di raggiungere la massima unità patriottica per salvaguardare le nostre conquiste democratiche verso vette più alte.

Uniamoci per espandere la democratizzazione e smantellare l’eredità secolare dell’espropriazione capitalistica dell’epoca coloniale e dell’apartheid, nonché l’oppressione razziale e di genere.

Il manifesto elettorale dell’ANC, redatto in consultazione con i partner dell’alleanza, è ancorato a uno slancio progressista. Esso comprende i seguenti impegni da attuare nei prossimi cinque anni.

– Espansione dei programmi di impiego pubblico per creare e sostenere almeno 2,5 milioni di opportunità di lavoro nella fornitura di beni e servizi pubblici. Contrariamente all’interpretazione errata degli elementi dell’opposizione, questo non è affatto l’unico impegno per la creazione di occupazione e la riduzione della povertà nel manifesto, come dimostrano molti degli impegni successivi.

– Attuazione dell’assicurazione sanitaria nazionale (NHI) per garantire a tutti un’assistenza sanitaria di qualità. A seguito delle lotte della classe operaia, ora il Parlamento ha approvato il disegno di legge sull’NHI e il Presidente sta pensando di firmarlo.

– Allineamento della politica monetaria, fiscale e commerciale, insieme all’avanzamento della trasformazione del settore finanziario, per soddisfare i bisogni di base e perseguire l’industrializzazione.

– Utilizzo della trasformazione del settore finanziario per passare a un settore bancario pubblico, creando banche statali di sviluppo e banche settoriali specifiche allineate con gli obiettivi di politica industriale, e costruendo un sistema bancario pubblico al dettaglio per servire le esigenze finanziarie della popolazione.

– Maggiori investimenti in infrastrutture sociali ed economiche su larga scala.

– Aumento dei livelli di esportazione verso destinazioni globali e continentali, sfruttando, tra l’altro, l’area di libero scambio continentale africana e le relazioni e la cooperazione internazionale BRICS Plus.

– Accelerazione della ridistribuzione delle terre per ridurre le disuguaglianze patrimoniali, tutelare la sicurezza della proprietà, migliorare la produzione agricola e la sicurezza alimentare, promuovere lo sviluppo rurale e urbano e consentire un maggiore accesso alle abitazioni.

– Creazione di un fondo sovrano per sostenere una più ampia trasformazione sociale e lo sviluppo.

– Misure per superare l’aumento del costo della vita, tra l’altro, rafforzando il sostegno al reddito attraverso i sussidi sociali esistenti e utilizzando il sussidio sociale per il disagio come base per l’introduzione graduale di un sussidio di base per il sostegno al reddito. Questo, a nostro avviso, dovrebbe servire come passo verso il tanto necessario sussidio universale per il reddito di base.

Unità della classe operaia e patriottica più ampia

Negli ultimi tre decenni, i lavoratori, in particolare all’interno del movimento sindacale progressista, così come nel settore informale, e la più ampia classe operaia, anche nella comunità, hanno condotto lotte cruciali. Il Partito Comunista, come parte del movimento rivoluzionario, ha continuato a svilupparsi e a svolgere il suo ruolo di avanguardia nelle lotte della classe operaia.

La classe operaia ha svolto un ruolo fondamentale nel promuovere i progressi compiuti dal Sudafrica. Oltre a questo, la classe operaia si è impegnata in conflitti con la classe capitalista, che domina l’economia e gli sviluppi che derivano o sono influenzati dalla proprietà economica, dal controllo e da altri rapporti sociali di produzione.

Le contraddizioni di classe sono ancora presenti in tutti i luoghi chiave del potere. È in queste lotte che la classe operaia, con il Partito Comunista che ha svolto un ruolo attivo, ha combattuto contro le ristrutturazioni e le politiche neoliberiste sul posto di lavoro, come “Crescita, occupazione e redistribuzione”, le privatizzazioni, le gare d’appalto, l’austerità e la conversione del settore statale in un campo di accumulazione capitalista. Dobbiamo intensificare questa lotta verso la vittoria finale.

Il SACP ha guidato la campagna per la trasformazione del settore finanziario. Questa lotta ha registrato importanti progressi. Tuttavia, come altre lotte operaie, la trasformazione del settore finanziario deve ancora essere avanzata e approfondita per raggiungere gli obiettivi della Carta della Libertà. Questi obiettivi includono un settore bancario pubblico e fiorente, così come un settore bancario cooperativo e un settore finanziario più ampio.

Le imprese statali e altri enti pubblici sono stati colpiti dalla macchinazione neoliberista, dalla cattura delle imprese e da altre forme di corruzione. Una parte di ciò è avvenuta attraverso la corporativizzazione e la riduzione degli investimenti statali per ricapitalizzare e migliorare queste entità. Ciò ha lasciato la capacità produttiva di molte di queste entità in ritardo rispetto alle capacità moderne, in declino e incapace di stare al passo con i tempi.

Alla fine, molte imprese statali ed enti pubblici sono cadute in crisi finanziarie e operative. Questo ha fatto parte dell’attacco neoliberista contro la proprietà pubblica, presentando l’impresa privata come l’infallibile strada da percorrere, come se il mondo non fosse inondato di prove di imprese private che hanno fallito o causato crisi economiche globali.

Ci sono molte aziende private che sono state salvate dall’intervento dello Stato, anche attraverso salvataggi finanziari diretti dalle finanze pubbliche, come è avvenuto, ad esempio, dopo la crisi capitalistica globale del 2008.

Costruire la più ampia unità rivoluzionaria possibile per salvaguardare e risollevare le imprese statali e altri enti pubblici è una delle sfide principali che la classe operaia del nostro Paese deve affrontare. Dobbiamo difendere e riaffermare l’economia pubblica, riposizionarla in modo che si trasformi, si espanda e prosperi.

Questo deve essere unito alla lotta per strappare alla borghesia il controllo economico e i proventi economici della nostra transizione democratica. Gli obiettivi di questa lotta includono l’imperativo di far progredire la proprietà collettiva nell’economia, non da ultimo attraverso le cooperative e altre forme di proprietà collettiva dei lavoratori, e di rafforzare la capacità di sconfiggere il neoliberismo, compresa l’austerità, nonché le vecchie e nuove forme di privatizzazione.

Attraverso le lotte, la classe operaia deve affrontare lo sfruttamento economico e la disuguaglianza, anche nella sua articolazione razziale e geografica e di genere, combattere i licenziamenti, promuovere l’accesso al lavoro e la sicurezza del reddito per tutti, combattere la corruzione e la criminalità fino in fondo, approfondendo la lotta anticapitalista e antimperialista per il socialismo.

Il riscaldamento globale e il cambiamento climatico sono una sfida fondamentale che la società deve affrontare a causa dei modelli capitalistici di produzione e consumo. La classe operaia deve rafforzare la propria capacità di affrontare questo problema e garantire che la necessaria transizione verso un’economia verde e a basse emissioni di carbonio diventi una transizione veramente giusta.

Il SACP continuerà a rafforzare la sua capacità di avanguardia e il suo ruolo di attivista nel perseguire queste e altre lotte della classe operaia, anche attraverso la creazione di un movimento popolare di sinistra.

Solidarietà internazionale

Mentre celebriamo il 30° anniversario della nostra svolta democratica, ricordiamo che ci sono milioni di persone in tutto il mondo che hanno bisogno della nostra solidarietà internazionale, così come noi stessi abbiamo avuto bisogno della solidarietà internazionale nella nostra lotta contro l’apartheid e le sue precedenti articolazioni dell’oppressione coloniale.

Il SACP è al fianco del popolo palestinese per la libertà della Palestina storica e contro il genocidio da parte dello Stato colonizzatore israeliano dell’apartheid. Ribadiamo il nostro sostegno al deferimento del regime israeliano alla Corte internazionale di giustizia da parte del governo guidato dall’ANC.

È contro la coraggiosa azione di ricerca di giustizia del Sudafrica per il popolo palestinese, l’adesione attiva alla cooperazione internazionale BRICS Plus e il rifiuto della cooptazione imperialista in situazioni come la guerra in Ucraina provocata dalla NATO, che il nucleo duro dell’Occidente collettivo-imperialista cerca un “cambio di regime” in Sudafrica, anche sul fronte elettorale, contro l’ANC.

Ribadiamo la nostra solidarietà con il popolo e il governo di Cuba contro l’aggressione imperialista e chiediamo l’immediata revoca del blocco illegale di Cuba e dell’occupazione della Baia di Guantanamo da parte degli Stati Uniti.

Siamo al fianco del popolo dello Swaziland nella sua lotta per la democrazia e del popolo del Sahara occidentale per l’autodeterminazione nazionale e contro l’occupazione del Marocco.

Il SACP sostiene ogni lotta rivoluzionaria contro l’aggressione imperialista e gli oppressori in ogni parte del mondo.

La nostra non è una semplice lotta nazionale. È una lotta internazionale contro un sistema internazionale. Un voto per l’ANC il 29 maggio è un voto per la nostra sovranità nazionale democratica e per la continuazione della lotta di solidarietà internazionale.

Pubblicato dal Partito Comunista Sudafricano,

Fondato nel 1921 come Partito Comunista del Sudafrica.


Fonte

Il reale delle/nelle immagini. La magia del cinema-menzogna

di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale da farci provare le emozioni dei protagonisti messi in scena.

A differenza della fotografia e della pittura, il cinema «non separa un frammento (inesistente) del reale», esso consente allo spettatore di vivere «davvero come nella vita di ogni giorno» pur trattandosi di un’altra vita, per quanto pur sempre “vita”, facendo dimenticare, al tempo stesso, «che questa vita non è vita». Il cinema, insomma, esige che si guardi al frammento di vita catturata dall’inquadratura dimenticandosi della sua esibita artificiosità.

Nonostante l’artificio al cinema sia palese, pur simulando il contrario, «è proprio la vita che in esso finisce per specchiarsi» trasfigurandosi in inganno, ed è proprio quest’ultimo a rendere il cinema attraente. Al cinema, sostiene Donà, ci si reca per «un indistinto bisogno di vivere la vita, di viverla vivendola» senza giudicare e scegliere, senza tentare di distinguere la sua natura menzognera dal “vero”, sentendo di «esser altri da quel che siamo; pur essendolo (quel che siamo). Essendolo, insomma, senza esserlo».

Il cinema sembra funzionare «come una finestra che, pur aprendosi sul mondo, non si spalanca mai sull’esterno... non apre cioè a improbabili vie di fuga. Ma si spalanca piuttosto sul mondo che, sulla sua trasparenza, finisce in qualche modo per riflettersi come sulla superficie di uno specchio – in cui, a riflettersi, sarà dunque, da ultimo, nient’altro che l’interno della casa. Il quale, proprio nell’attraversare l’apertura della finestra, è destinato a manifestarsi come “altro-da-sé”, negando in primis di essere quel che, della casa (di cui quella finestra è un elemento) dice appunto il semplice “interno”».

Se c’è un film che, secondo Donà, più di altri, è in grado di palesare la paradossale natura dell’esperienza cinematografica, questi è Melò, (1986) di Alain Resnais, nel suo rivelarsi, dietro a una storia di amore e tradimento, un film sulla menzogna, «sull’epifania dell’impossibilità del “vero”», un film «in cui, a tradirci, sono invero sempre e solamente la credibilità e la veridicità di quel che accade».

Riprendendo invece Blade Runner (1982) di Ridley Scott e The Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, Donà ragiona su come al cinema il corpo dello spettatore venga destrutturato, su come il suo personale punto di vista si eclissi negandogli l’identificazione con uno specifico personaggio della narrazione, inducendolo ad attraversarli tutti senza scegliere “con chi stare”. Al cinema il corpo dello spettatore subisce un processo di trasfigurazione nei corpi proiettati sullo schermo ed il tempo della narrazione che, lungi dall’essere il suo, vine vissuto come dall’esterno.

Analizzando Prénom Carmen (1983) di Jean-Luc Godard, scelto come esempio dell’intera opera del regista, Donà si sofferma su quanto la storia del film “non dica”, su quanto non possa raccontare, ossia su quello che Gilles Deleuze (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), riprendendo Michel Foucault (Le jeu de Michel Foucault, 1977), definisce il “dispositivo cinema”.

Se, come afferma Deleuze, «ogni dispositivo si definisce per il suo contenuto di novità e creatività che indica contemporaneamente la sua capacità di trasformarsi o già di incrinarsi a favore di un dispositivo futuro» (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), «il cinema di Godard, proprio presentando l’irresolubilità di tale antinomia – quella tra arte e vita, per l’appunto –, ed esibendola in tutta la sua irriducibile “separatezza”, nonché tragica incomponibilità, crea un vero e proprio “dispositivo”». «Godard riesce a restituire il cinema a quel sottosuolo che ogni opera invero custodisce, e che tanto Foucault quanto Deleuze cercarono di ricondurre alla specifica nozione di “dispositivo”; che ha, come propria primaria caratteristica, quella di determinarsi nella forma di un radicale “rifiuto degli universali”».

Riprendendo le riflessioni di Deleuze sul cinema, Donà sottolinea come a condurre il filosofo alla classificazione delle immagini e dei segni cinematografici nei suoi Cinéma 1. L’Image-mouvement (1983) e Cinéma 2. L’Image-temps (1985) sia la convinzione che «l’immagine non sia un evento della mente o della coscienza, e ancor meno una sorta di più o meno attendibile riproduzione del reale, ma stia nelle cose stesse, nel mondo, incisa nel reale più di qualsiasi altra sua (sempre del reale) possibile caratterizzazione».

Il cinema, secondo Deleuze, produrrebbe una vera e propria finzione di realtà negando di essere finzione così come di essere immagine della realtà, di esserne una copia. Il cinema metterebbe in scena «quel flusso indistinto che mai potremmo “permetterci” di esperire nella nostra quotidianità. Il cinema, cioè, libera il movimento della vita; senza ricondurlo (il movimento) alla vita; alla vita di questo o di quello. Il cinema rende equivalenti i buoni e i cattivi, i gangster e i poliziotti, gli omicidi e i benefattori». È attorno a tali snodi che Donà intesse le sue riflessioni sul modi di concepire il cinema da parte del filosofo francese.

Lo studioso si sofferma anche sulle riflessioni di Foucault sulle “eterotopie” – da questi considerate interessanti anzitutto per il loro fungere da contestazione di tutti gli altri spazi – e su come tali riflessioni si riverberino sul cinema alla luce del fatto che in esso «incontriamo un mondo altro che, nello stesso tempo, non è affatto altro da quello che continueremo a incontrare fuori dalla sala di proiezione». Il cinema «ci consente di vedere (theorein) in qualità di semplici “spettatori”; sì, di vedere lo stesso mondo che vediamo ogni santo giorno [...], un mondo fatto anche di individui, certo... come quelli che incontriamo ogni giorno, ma che ogni giorno finiamo per trattare come significazioni meramente universali». Sull’onda dei ragionamenti del filoso francese, Donà si domanda se nel cinema sia possibile vedere «una forma di eterotopia ancor più ricca e completa di quella resa attraversabile ed esperibile dalla grande filosofia... se non altro, là dove quest’ultima abbia saputo farsi teoretica».

Donà riprende anche le riflessioni di Foucault riportate in apertura di Le mots et le choses (1966) in merito al dipinto Las Meninas di Velázquez in cui il filosofo francese giunge a prospettare che ad essere messa in scena dal dipinto «sia innanzitutto la questione della possibilità di rappresentare l’atto stesso della rappresentazione. O anche, di far vedere gli scarti e le pieghe da cui sarebbe intimamente costituita, in verità, ogni visione, ossia ogni rappresentazione. E per ciò stesso ogni immagine». Il celebre dipinto farebbe riferimento dunque a «qualcosa che rimane costitutivamente “invisibile”, e che rimane tale in quanto valevole come semplice “fuori” rispetto alla scena cui tutti gli occhi, nello spazio scenico della rappresentazione, si rivolgono quasi incantati».

L’analisi di un film come King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack permette a Donà di sottolineare come l’antropomorfizzazione cinematografica dell’animalità permetta la resa di un sentimento puro, non calcolato o giudicato e «la realissima illusione di un patimento finalmente libero da costrizioni o sofferenze di sorta, anche in quanto capace di percepirsi e riconoscersi come tale in virtù di una semplice e per ciò stesso immediata esperienza di libertà».

Le pellicole sul cibo e sull’atto del mangiare Babettes gæstebud (1987) di Gabriel Axel e La grande bouffe (1973) di Marco Ferreri, per quanto muovano da prospettive differenti, permettono a Donà di strutturare una riflessione su quanto come spettatori – partecipi di una collettività eppure al tempo stesso soli in sala – ci si “rifugi” al cinema in uno spazio “separato” al pari dei personaggi del film di Axel (abitanti un paesino isolato) e quello di Ferreri (rinchiusi in una villa). «Ma ci separiamo dal mondo, per fare, sempre del medesimo mondo, qualcos’altro, e per fare di noi stessi altro da quel che siamo. Per ‘divorare’ la soglia che ci separa e distingue dal mondo».

Analizzando invece Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, lo studioso argomenta come ad essere messo in scena dal regista sia in definitiva l’atto del fotografare come risposta all’insoddisfazione per quanto offre la vita. Nel ricorrere allo scatto il protagonista ignora cosa esso possa far emergere; la sua, in fin dei conti, sostiene Donà, è una fotografia che «non “rappresenta” e non “ripete” alcunché; ma “presenta”… sola mente». Il protagonista, al termine di quello che si struttura come un viaggio iniziatico, capisce che «malata non è tanto la realtà in ragione della sua insensatezza, quanto piuttosto la nostra pretesa di sostituire questa negatività (o insensatezza) con un altro positivo – che sarebbe solo da scoprire e mettere finalmente a fuoco... per liberarsi da quello che appare come un sempre meno sopportabile mal di vivere».

In conclusione, lo studioso argomenta come nella messa in scena dell’individuo di fronte alla Storia di violenza e di sopraffazione subita dai neri negli Stati Uniti, Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino in definitiva mostri come «l’assolutamente altro può anche presentarsi con un volto simile al nostro, mettendo in crisi il nostro esserci collocati da una parte ben precisa dell’opposizione assoluta; in genere quella dell’essere, ossia del bene», ed ogni volta che ci scagliamo contro un “altro”, lo scambiamo per un “altro assoluto”. «Mentre si tratta solamente di un altro “essere”». La forza icastica di questo film, sostiene Donà, è tale da farci capire che «parla di un reietto che non solo si libera dalla condizione di schiavitù e mostra a tutti noi spettatori come ci si possa liberare da una schiavitù che è sempre schiavitù anzitutto nei confronti della grande illusione, o dal grande fraintendimento che governa le nostre vite».

Fonte

29/04/2024

Fog (1980) di John Carpenter - Minirece

Quei diabolici anni Settanta

di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, Les papillons noirs (Arte-Netflix, 2022) di Bruno Merle e Olivier Abbou e The Serpent (BBC-Netlfix, 2021) di Mammoth Screen, proiettano uno sguardo sugli anni Settanta che rivela inevitabilmente anche qualcosa dei nostri tempi.

La serie Les papillons noirs racconta dello scrittore quarantenne Adrien Winckler (Nicolas Duvauchelle) che, in crisi creativa, accetta l’offerta di trascrivere in romanzo la vita che gli viene raccontata da un individuo ormai prossimo alla morte, Albert Desiderio (Niels Arestrup), imperniata attorno alla storia d’amore avuta con Solange (Alyzée Costes) negli anni Settanta.

Adrien, che vive con Nora (Alice Belaïdi), una ricercatrice di medicina, ha un passato burrascoso fatto di incontri clandestini di boxe in Thailandia, alcol e carcere. Figlio dell’infermiera ormai in pensione Catherine (Brigitte Catillon), sul piano personale lo scrittore si trova a dover dissipare un alone di mistero che riguarda il padre Vic, medico belga morto da tempo, e il fratello di quest’ultimo.

Nella sua abitazione di campagna, Albert racconta ad Adrien della difficile infanzia passata in orfanotrofio e dell’incontro con Solange, figlia di una prostituta. Da questo incontro tra ‘esseri respinti’ scaturisce una storia d’amore in cui i due si dimostrano disposti ad ogni complicità, una storia che nell’uomo assume tratti di irrefrenabile gelosia.

Nel corso del racconto, Albert riferisce di quando, in risposta a un’aggressione sessuale subita da Solange, la coppia si ritrova complice nell’uccisione del responsabile del gesto e del fratello di questo in quanto testimone. A partire da quell’episodio prende il via, attraverso diversi flashback, il racconto di una lunga scia di sangue che, si scoprirà, intreccia le esistenze di diversi personaggi del film. Mentre il racconto di Albert progredisce svelando allo scrittore le vicende della sua vita e quest’ultimo cerca di venire a capo del proprio passato, il poliziotto Carrel (Sami Bouajila) e la sua collaboratrice Mathilde (Marie Denarnaud) indagano su una serie di omicidi irrisolti risalenti agli anni Settanta.

La serie The Serpent trae invece ispirazione dalle vicende realmente accadute riguardanti Charles Sobhraj (Tahar Rahim), autore di una lunga serie di omicidi nel corso degli anni Settanta che hanno avuto come vittime giovani occidentali in cerca di nuove esperienze di vita lungo la “rotta hippie” nell’Asia meridionale. Mercante di gemme preziose, trafficante di droga ed abile truffatore, Sobhraj ha saputo sfruttare il suo carisma per raggirare numerosi viaggiatori al fine di impossessarsi dei loro documenti, travel cheque e contanti, per poi ucciderli così da non lasciare testimoni.

Non incline a violenza pulsionale e sadismo, questo omicida, amante del lusso, ha condotto i suoi crimini muovendosi con metodo e pianificazione ricorrendo all’aiuto della compagna canadese Marie-Andrée Leclerc (Jenna Coleman) e dell’indiano Ajay Chowdhury (Amesh Edireweera) che provvedevano a somministrare droghe alle vittime, la prima, e ad aiutare Sobhraj negli omicidi, dunque nel far sparire i cadaveri, il secondo. Dopo un periodo di detenzione in India tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, Sobhraj ha sfruttato la sua fama rilasciando interviste a pagamento salvo poi recarsi in Nepal, ove era ricercato per l’omicidio di due giovani turiste statunitensi, venendo nuovamente arrestato e imprigionato all’inizio del nuovo millennio restandovi per quasi un ventennio.

Quegli anni Settanta ‘diabolici’, in Les papillons noirs e in The Serpent, sembrano appartenere ad un tempo mitico e mitizzato, allontanato in una dimensione dalle connotazioni quasi epiche. Gli stessi personaggi violenti ed assassini sembrano trasformarsi in eroi epici, mitici guerrieri di un tempo lontano. Vengono rappresentati estremamente eleganti, abbigliati all’ultima moda (dell’epoca) mentre, in ralenti, camminano o si atteggiano in espressioni ‘dure’ e sprezzanti.

Se l’uomo appare come un guerriero o un giustiziere, la donna è tratteggiata come una terribile femme fatale, una “dama senza pietà” dispensatrice di morte, specialmente in Les papillons noirs. Sono personaggi che sembrano emergere da quel passato epico ed “assoluto” di cui parla Bachtin: lontanissimo, irraggiungibile ed eterno, che appartiene esclusivamente all’universo dell’epopea1. Perché, in fin dei conti, gli anni Settanta si stanno trasformando in un tempo mitico anche nell’immaginario comune odierno: per rendersene conto basta girare un po’ sui social dove sono innumerevoli i gruppi dedicati a quel periodo, intrisi di una lancinante nostalgia.

Ma le serie televisive in questione non ci presentano l’universo ovattato e intimistico che incontriamo invece in molto cinema italiano, circondato da canzoni ‘iconiche’ del periodo e da pulitissime e perfette automobili vintage. Les papillons noirs e The Serpent non raccontano gli anni Settanta come un mondo incantato ed utopistico, come un’età dell’oro per sempre perduta. Sono lontani sì, ma non incastonati in una irraggiungibile utopia. Diventano uno sfondo caratterizzato da una inaudita violenza dove, come eroi, si muovono gli alfieri di quella stessa violenza. Quest’ultima, nei lacerti di flashback presenti in Les papillons noirs, emerge improvvisamente su uno sfondo vintage e quasi nostalgico: ben presto, i caratteri caricaturali della rappresentazione d’epoca (le auto, i vestiti, le canzoni e gli ambienti) precipitano nel baratro di una violenza cieca che sembra emergere dai più segreti interstizi di quei Settanta. I paesaggi e le ambientazioni dei luoghi di vacanza in cui si svolgono gli efferati omicidi della coppia si rivestono di connotazioni diaboliche e infernali, come se ci trovassimo all’interno del filone horror contemporaneo che si focalizza sui viaggi da incubo di turisti che si ritrovano nelle fauci di spietati serial killer.

Un luogo di vacanza, per certi aspetti, è anche lo sfondo in cui si svolge la vicenda di The Serpent, pure se allontanato negli spazi “lisci”2 lontani dall’Occidente, estreme lande orientali che sfuggono alla centralità europea o statunitense che connota le storie ambientate negli anni Settanta. Ci troviamo a Bangkok, in Thailandia, e il terribile Charles Sobhraj circuisce, rapina e uccide giovani turisti occidentali per derubarli e usare i loro documenti. Gli scenari di violenza, qui, sono la Thailandia, il Tibet, l’India: sono luoghi inediti per le ambientazioni vintage e gli stessi ambienti, il paesaggio nonché l’abbigliamento dei personaggi non sembrano eccessivi ed iperbolici come negli scenari europei. Gli unici personaggi tratteggiati con tinte un po’ caricaturali sono i giovani ‘figli dei fiori’ europei e americani che si avventurano in Oriente spinti da una nuova forma di “orientalismo” (un approccio ai territori orientali, secondo una definizione di Edward Said, filtrato da uno sguardo europeo e occidentale3 ) veicolato dalla controcultura.

Le ambientazioni appaiono meno naïf di quelle occidentali appunto perché sono allontanate in luoghi separati dai cliché europei e statunitensi, luoghi intrisi essi stessi di uno sguardo orientalista che trasforma la Bangkok del racconto in un vero e proprio baratro infernale che ingloba nelle sue spire gli ingenui occidentali. In questi luoghi infernali si muove il “serpente” Sobhraj, infido e imprendibile, braccato a sua volta dal giovane diplomatico olandese Herman Knippenberg (Billy Howle).

Fin dai tempi di Baudelaire e di Flaubert, Oriente è sempre stato sinonimo di pericolo ambiguo e strisciante, di malattia e di corruzione: ecco allora il “serpente” Sobhraj, egli stesso di origine orientale, ambiguo e mostruoso (coadiuvato dall’altrettanto ambiguo e mostruoso, e altrettanto orientale, Ajay, di carnagione scura) che si contrappone ai perfetti occidentali rappresentati dal già ricordato diplomatico olandese, dalla sua moglie tedesca e dal belga Paul, nonché dalla coppia di francesi Nadine (Mathilde Warnier) e Remi (Grégoire Isvarine). Gli occidentali sembrano gli emblemi di una razionalità che cerca di infiltrarsi negli interstizi malati dell’Oriente: sono sempre riconoscibili, sempre ben vestiti in impeccabili abiti, come il diplomatico che veste sempre una camicia bianca con cravatta4. Sono il simbolo di una razionalità che si è lanciata verso l’ignoto, quasi come Jonathan Harker in Dracula di Bram Stoker, che si spinge verso le orrorifiche lande della Transilvania, proprio in bocca al mostruoso vampiro.

Se The serpent ci mostra i diabolici anni 70 ‘disambientati’ in territori orientali, lontani quindi nel tempo e nello spazio, Les papillons noirs ce li mostra soltanto lontani nel tempo. Ma è un tempo che equivale in tutto e per tutto ad un altro spazio, quello dell’orrore. Perché in quel tempo – sembrano voler ribadire le due serie televisive – c’è posto solo per l’orrore e la violenza, oltretutto scatenati da futili motivi. La Francia degli anni Settanta non sembra neppure la Francia: sembra un paese emerso da una fiaba crudele, un universo di cartapesta e di sangue, che si contrappone alla logicità e alla razionalità del nostro tempo. La contemporaneità appare quindi venata di una caratterizzazione ‘occidentale’ mentre gli anni Settanta – fatti di lunghe gonne colorate, di camicie sgargianti e di capelli lunghi – sono l’Oriente del nostro passato: un orrore clownesco che ci spia dalla sua notte. Non sono i cosiddetti ‘anni di piombo’ – mostrati, ad esempio, da una serie TV come Esterno notte (Rai, 2022) di Marco Bellocchio, incentrata sulla ‘vicenda Moro’, o da un film come La prima linea di Renato De Maria, liberamente ispirato al libro Miccia corta (2009) di Sergio Segio, che racconta un episodio dei primissimi anni Ottanta che assume la forma di epilogo degli anni Settanta vissuti da alcuni militanti che il mondo lo volevano cambiare, in cui la violenza emergeva da una lotta inesausta fra le classi, da logiche di protesta e di ribellione – ma sono gli anni di una futile e vacua efferatezza. Ancora più terribile se pensiamo che, in fondo, quella diabolica violenza è figlia delle nostre paure e del nostro tempo perché è proprio il nostro tempo che l’ha creata e che l’ha messa in scena. E allora, forse, quell’universo di cartapesta e di sangue, fra le guerre e le efferatezze che ci circondano, è più vicino di quanto possiamo immaginare.

Note

  1. Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it. Einaudi, Torino, 1979, p. 457. 

  2. Per il concetto di “spazio liscio” cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, p. 451 e seguenti. 

  3. Cfr. E.W. Said, Orientalismo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013. 

  4. Cfr. ivi, pp. 55-56: «Da un lato ci sono gli occidentali, dall’altro gli arabi-orientali; i primi sono, nell’ordine che preferite, razionali, propensi alla pace, democratici, logici, realistici, fiduciosi; i secondi sono quasi esattamente l’opposto».

Fonte

Israele dichiara guerra vera ai movimenti pacifisti nei nostri paesi

Naturalmente c’è da sperare che questo progetto abnorme fallisca subito. Ma il solo fatto che sia stato “pensato” getta una luce livida sul gruppo dirigente di Israele che, anche agli occhi di compassati osservatori ultra-atlantisti, appare ormai posseduto dal demone di una visione millenaristica, simile a quella dell’Isis musulmano.

Stiamo parlando del programma di “formazione di gruppi civili armati affiliati alle comunità ebraiche all’estero, per contrastare il movimento di lotta contro l’occupazione israeliana, negli Stati Uniti d’America e in Europa”, che ha il suo massimo progettista nel ministro della sicurezza di Tel Aviv, Itamar Ben Gvir.

Ossia qualcuno che in questo momento ha il potere di fare ciò che ha in testa, non un pirla qualsiasi che balla sui tavoli di una birreria sparando scemenze che diventerebbero tragedie, se messe in pratica.

Ha il potere, dunque, di creare in diversi paesi del mondo – pescando nell’ala sionista estrema delle comunità ebraiche, non certo tra i membri di associazioni come la Jewish Voice of Peace – “squadre di allerta”, ossia gruppi armati composti da civili che rientrano nel “comando del fronte interno dell’esercito”. Insomma, agli ordini del governo di Tel Aviv.

Per la formazione di queste “truppe irregolari” all’estero il governo Netanyahu si impegna a fornire “supporto professionale, compresa la formazione e il rafforzamento della risposta tecnologica di sicurezza”.

Per tranquillizzare almeno in parte i governi che si ritroveranno queste bombe in casa, per di più alla vigilia di ricevere un mandato di cattura internazionale, Ben Gvir ha assicurato “piena collaborazione con la polizia locale e le autorità competenti”.

La gravità di questo progetto è tale da sconvolgere quel che resta – non molto, in verità – della cornice costituzionale delle “democrazie liberali”.

Vediamo perché.

La difesa delle comunità ebraiche nel mondo

È completamente falsa la premessa-obiettivo. Nella storia dell’umanità non c’è mai stato, probabilmente, un periodo così tranquillo per le numerose comunità ebraiche sparse in moltissimi paesi, sia dell’Occidente che non.

Gli attentati di diversi gruppi palestinesi all’estero sono ormai un ricordo lontano di una fase della Resistenza che si era chiusa con gli “accordi di Oslo” e l’inizio della costruzione di uno Stato palestinese. Processo che la destra israeliana ha interrotto assassinando Yitzhak Rabin, il primo ministro che li aveva firmati, e intensificando l’espansione delle colonie in Cisgiordania.

Da allora, comunque, la lotta dei palestinesi è rimasta all’interno degli incerti confini di Israele e dei territori occupati, come dimostra la storia delle varie Intifada.

All’estero i pochi episodi di antisemitismo violento sono stati in genere gesti isolati oppure di lieve entità (tipo, in Italia, gli sfregi alle “pietre di inciampo”), con protagonisti i nazifascisti “classici”, o “nostalgici”, che oggi appaiono compattamente al fianco del governo Netanyahu e dello stato militarista israeliano.

C’è da ricordare, infine, che anche i gruppi più sanguinari del “terrorismo islamico” – tipo l’Isis – non hanno mai preso a bersaglio né Israele né le comunità ebraiche. Il che ha naturalmente sollevato non poche domande sulle triangolazioni teoricamente possibili...

Dunque il “nemico” individuato da Ben Gvir e Netanyahu, come esplicitamente dichiarato, sono i movimenti pacifisti che in tutto il mondo stanno premendo per isolare il governo genocida cui appartengono.

Il monopolio statale della forza

In ogni caso, e in tutti i paesi del mondo, la “difesa delle comunità ebraiche” – come di qualsiasi altro cittadino o comunità – è compito dello Stato che le ospita, tramite le sue forze armate e di polizia, non di “milizie statali straniere”.

Sappiamo che da decenni, all’interno delle comunità ebraiche, esistono nuclei di “autodifesa”, armati e con regolare porto d’ami italiano, posti a protezione delle sinagoghe e di altri luoghi simbolicamente importanti (il Ghetto di Roma, per esempio). Ma il loro ruolo è stato fin qui decisamente “difensivo”, anche se spesso in modo molto aggressivo (lo sa bene chiunque abbia provato a passare nei dintorni del Portico D’Ottavia indossando qualcosa che assomigliava ad una kefiah...).

Il programma di Ben Gvir punta però a cambiare radicalmente la funzione di questi “nuclei armati”.

La premessa, falsa, serve a nascondere il carattere eversivo del progetto israeliano: creare un corpo militare irregolare – “civili armati e sottoposti al proprio comando” – operanti in paesi sovrani, sia “alleati” che non.

Ricordiamo che ogni Stato al mondo si caratterizza per il monopolio della forza, ossia per il potere esclusivo di organizzare e sviluppare un esercito, forze di polizia, servizi di sicurezza, ecc.

Gli unici “stranieri” abilitati a portare ed eventualmente utilizzare armi sono i militari di paesi alleati con cui sono stati sottoscritti accordi di mutua assistenza (esempio classico italiano: gli statunitensi nelle basi Nato), oppure gli agenti di scorta a ministri o presidenti, temporaneamente in visita nel paese.

Una milizia composta da civili obbedienti ad un altro Stato è una bomba posta sotto l’autorità e la “sovranità” del paese che la “ospita”. A maggior ragione se – come nel caso di civili che dispongono di una “doppia nazionalità” – non esiste un obbligo di dichiarare una “priorità”.

Facciamo esempi semplici, così da facilitare la comprensione anche ai non esperti di regole istituzionali.

Un qualsiasi calciatore, se dispone di una doppia nazionalità, deve prima o poi scegliere una volta per tutte per quale paese intende giocare se convocato in nazionale. Non può insomma scegliere di volta in volta, mettendo così sempre in dubbio la sua reale appartenenza e “onestà sportiva”.

A maggior ragione, un/a potenziale soldato/essa deve scegliere per quale paese è disposto a combattere, perché non è affatto detto che le due “nazioni” che gli riconoscono la cittadinanza saranno sempre in pace tra loro.

Si sa che in questo momento circa 1.400 cittadini italiani sono stati o sono impegnati come riservisti o militari al fronte, tra Gaza e il confine con il Libano. Oggi Italia e Israele sono parecchio “complici”, ma un auspicabile cambiamento politico in uno dei due paesi potrebbe un giorno metterli in contraddizione.

Per chi combatterebbero quei miliziani sionisti? Stanti le caratteristiche note del progetto israeliano, quei miliziani sarebbero una sorta di “quinta colonna” dell’esercito di Tel Aviv in Italia. Armati e formati per combattere, ma agli ordini di un governo “straniero”. Magari considerato “nemico”. Eventualmente, insomma, anche contro un governo meno sdraiato sugli interessi di Israele.

Quasi un casus belli, secondo le regole internazionali.

Una milizia nazionalista per condizionare il quadro internazionale

Peggio ancora. La creazione di questa milizia non ha confini, riguarda potenzialmente ogni paese del mondo in cui esiste una comunità ebraica (o meglio: dove esiste un’ala “sionista combattente”).

Avremo insomma una rete militare/informativa con dimensioni quasi mondiali ma obbediente agli interessi strategici di un solo paese, oltretutto perennemente in guerra con i suoi vicini e i loro alleati. Una rete, detto altrimenti, che dissemina la logica e la pratica della guerra nazionalista praticamente dappertutto. Ad insindacabile giudizio di un governo – come detto – posseduto da una visione millenaristica, simile a quella dell’Isis musulmano...

A ben guardare, si tratta del rovesciamento finale della grandiosa storia cui tanto avevano contribuito rivoluzionari di origine ebraica. Dall’internazionalismo liberatorio al nazionalismo predatorio sul mondo, dall’uguaglianza tra tutti gli esseri umani alla pretesa di supremazia “divina” di un unico gruppo etnico-religioso.

Interferenza deliberata nella dialettica politica di altri paesi

Non è ancora finita. Queste squadre armate sioniste, già nella definizione degli “scopi”, assumono come “nemico” quella parte della popolazione e del panorama politico che non condivide affatto il genocidio in corso a Gaza e, appena meno esplicito, in Cisgiordania.

In altri termini, la finalità di queste squadre è condizionare militarmente la dialettica politica di ogni paese i cui saranno presenti. Una modalità che si aggiunge, eventualmente, a quelle ordinarie nel capitalismo attuale (basti citare l’informazione, per esempio).

Pratiche omicide

Il carattere specificamente militare di quelle “squadre”, enfatizzato peraltro dagli stessi ministri israeliani, mette esplicitamente nel mirino – in senso letterale – chiunque critichi la politica di Tel Aviv, a partire dal noto mantra secondo cui ogni obiezione a Israele sarebbe una manifestazione di “antisemitismo” (sul punto consigliamo sempre la lettura di un altro nostro articolo).

Israele si fa storicamente un vanto delle proprie pratiche di “guerra sporca”, con in testa le esecuzioni mirate. Finché questa capacità – diversi decenni fa – si limitava al rintracciare ed eliminare i criminali nazisti, nessuno trovava molto da obiettare. Anzi...

Quando ha cominciato a rivolgersi contro i dirigenti palestinesi costretti all’esilio, già era diventata una pratica intollerabile (pur se molto tollerata dai governi imperialisti). Solo a Roma tra il 1972 e il 1982 sono stati uccisi quattro dirigenti palestinesi.

Ma se “il nemico” sono i movimenti che in Occidente e altrove – sempre pacificamente e a mani nude – stanno animando le piazze a favore del “cessate il fuoco”, lo slittamento verso uno stragismo reazionario e nazionalista diventa un pericolo immediato. Secondo il linguaggio ordinario, insomma, sarebbe (o sarà) terrorismo sionista.

Conoscendo le “pratiche” israeliane non si fa fatica a immaginare un lavoro di intelligence (condotto “in collaborazione con la autorità locali”, se queste sono spianate sulle posizioni sioniste) per schedare e selezionare i “target” per poi condurre azioni “offensive”, magari graduando tra “pestaggi mirati”, “stupri punitivi” (come minacciato in piazza il 25 aprile), fino agli omicidi.

È chiaro anche che queste azioni, essendo opera di “milizie irregolari”, non sarebbero ufficialmente rivendicate (se non magari dopo anni), rimanendo avvolte nelle nebbie dei “si dice”, alimentando magari la “dietrologia” che specie in Italia ha una tradizione fognaria solidissima.

Ma è anche il caso di ricordare che questa torsione omicida dell’identità sionista, che si propone di assorbire totalmente l’identità ebraica, mette a rischio proprio le comunità che dice di voler “difendere”, esponendole a qualsiasi follia o ritorsione.

Al contrario che in Israele, infatti, gli ebrei nel mondo non vivono in una sorta di fortino fondato sull’apartheid, ma – giustamente – come tutti gli altri cittadini locali. Ovvero come individui e famiglie libere, che si riuniscono solo nelle scadenze rituali.

Militarmente indifendibili, insomma, a dimostrazione che la “premessa” alla base di questo programma è non solo totalmente falsa, ma anche terribilmente pericolosa per le comunità ebraiche.

In altri termini, come già osservato da molti ebrei non sionisti, “il più potente incentivo all’antisemitismo è proprio il governo Netanyahu”.

Riassumendo

Violazione della “sovranità” degli Stati, interferenza militare nella dinamica politica di altri paesi, violenza organizzata contro una parte delle popolazioni e specificamente i movimenti solidali...

Ce n’è abbastanza per pretendere che nessun governo europeo si presti a “collaborare” con questo programma.

Ma, chissà com’è, ci sembra che l’aria sia decisamente opposta...

Fonte

Russia - Putin non ha ordinato la morte di Navalnj. Le conclusioni dell’intelligence statunitense

Con una conclusione arrivata tardivamente, le agenzie di intelligence statunitensi hanno stabilito che il presidente russo Putin probabilmente non ha ordinato l’uccisione in carcere dell’esponente dell’opposizione Alexej Navalnj a febbraio. A renderla pubblica è stato sabato il Wall Street Journal.

Navalny, 47 anni è morto in carcere a febbraio e i suoi sostenitori avevano accusato Putin di averlo assassinato dichiarando che avrebbero fornito prove a sostegno delle loro accuse. Le accuse dirette a Putin erano rimbalzate anche nella sede del Parlamento europeo e al Congresso USA. Tutti i leader e i mass media dei paesi occidentali si erano allineati a questa chiave di lettura.

Il Cremlino aveva negato qualsiasi coinvolgimento dello Stato. Il mese scorso, Putin ha definito “triste” la morte di Navalny facendo sapere di essere stato pronto a consegnare il politico incarcerato all’Occidente in uno scambio di prigionieri a condizione che Navalny non rientrasse più in Russia. Diverse fonti, ufficiali e ufficiose, avevano confermato che tali colloqui erano in corso.

Il Wall Street Journal, citando fonti anonime che hanno familiarità con la questione, ha affermato sabato che le agenzie di intelligence statunitensi hanno concluso che Putin probabilmente non ha ordinato l’uccisione di Navalny a febbraio.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto sabato di aver visto il rapporto del Wall Street Journal che, a suo avviso, conteneva “speculazioni vuote”.

“Ho visto il materiale, non direi che è materiale di alta qualità che merita attenzione”, ha detto Peskov ai giornalisti quando gli è stato chiesto della questione.

L’agenzia Reuters non ha potuto verificare in modo indipendente il rapporto del Wall Street Journal, secondo cui la scoperta era stata “ampiamente accettata all’interno della comunità dell’intelligence e condivisa da diverse agenzie, tra cui la Central Intelligence Agency, l’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale e l’unità di intelligence del Dipartimento di Stato”.

Fonte