“La Repubblica di Turchia ha le risorse e la determinazione per vincere l’organizzazione terrorista (kurda, ndr). Le nostre forze di sicurezza stanno continuando a ripulire montagne e città dalla presenza terrorista e continueranno a farlo”. E’ l’augurio di fine anno che il presidente Recep Tayyip Erdoğan lancia alla sua gente, a tutti i turchi anche repubblicani e lupi grigi che approvano, annuiscono o comunque guardano altrove in queste settimane in cui il grilletto poliziesco è stato premuto talmente tanto che ha fatto tremila e cento morti. Terroristi, secondo l’Atatürk islamista. Fra questi ci sono indubbiamente combattenti del Partito kurdo dei lavoratori, tornati dallo scorso agosto ad azioni armate che hanno fatto oltre duecento vittime fra poliziotti e soldati; ci sono anche semplici cittadini oppure attivisti dell’Hdp freddati come fossero guerriglieri. Il Capo dello stato e del governo ripetono ossessivamente quest’equazione: ogni kurdo è un potenziale terrorista che va estirpato perché con la su presenza mette in pericolo l’integrità della nazione.
Un ritorno al passato oscuro della Turchia, quella della dittatura assassina in mimetica, supportata dalle squadracce fasciste. “Il nostro Paese non ha ambizioni territoriali su altre nazioni, vogliamo che le popolazioni della regione, che sono storicamente e culturalmente nostri fratelli, vivano in pace e sicurezza. La Turchia non è responsabile degli sviluppi che si registrano in Egitto, Libia, Palestina e Siria. Non abbiamo altro scopo che vivere in pace con i fratelli che vivono nella regione” ha concluso il presidente che evidentemente non annovera i kurdi fra gli storici abitanti delle terre del sud-est anatolico oppure, accanto alla sanguinosa repressione, ha abbracciato la vecchia teoria che bollava quest’ultimi come “turchi della montagne”, ma pur sempre negletti, gente che può essere uccisa senza dover dar conto a chi che sia del criminale operato. Così facevano i generali quarant’anni fa, così lo Stato forte dell’attuale partito-regime torna a fare, per un presunto “bene nazionale”.
Frattanto la stampa turca ancora non asservita, offre una carrellata d’immagini della città di Diyarbakır posta sotto la tutela dell’esercito, l’eufemismo con cui commentatori compiacenti definiscono il coprifuoco che a singhiozzo soffoca e taglia le vite di quei cittadini da settimane. Assediata, ma non piegata visto che anche stamane ci sono stati flash mob di persone d’ogni età che si rifiutano di vivere in un territorio diventato prigione a cielo aperto. Dal canto loro due sigle del sindacato giornalisti, rappresentate da decine d’iscritti, hanno deciso di attendere l’arrivo dell’anno nuovo davanti al carcere di Silivri dove sono rinchiusi alcuni loro colleghi. Attualmente trenta reporter sono imprigionati in tutto il Paese, parecchi restano in celle d’isolamento. L’Unione dei giornalisti sostiene che la categoria userà ogni strumento di lotta a disposizione per difendere la libertà di esercitare la professione basata sul diritto di cronaca e di opinione.
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