Se l’aumento dell’astensione e il crollo di voti del Pd rappresentano sicuramente i due fatti più rilevanti di questa tornata elettorale comunale, un altro dato ci sembra degno di interpretazione. Il “blocco lepenista” sembra subire una sostanziale battuta d’arresto, anzi un vero e proprio arretramento politico. Vediamo se davvero è così e come può spiegarsi questo fatto, visto che la contestuale scomparsa della sinistra radicale da un lato e della destra “moderata” berlusconiana dall’altro, avrebbero al contrario dovuto portare ad un suo sostanziale incremento elettorale. Salvini esce ridimensionato in tutte le maggiori città. A Torino prende un 5,7% (8% complessivo del candidato Alberto Morano); a Bologna, altra città da tempo sotto le mire del progetto leghista, la Lega si ferma al 10% dopo le percentuali vicine al 20% delle scorse elezioni; a Milano, capitale mediatica del leghismo, questo si ferma addirittura all’11%, in presenza peraltro di un candidato, Stefano Parisi, scelto proprio per contrastare l’idea di appaltare la rappresentanza elettorale del centrodestra alla frangia radicale di Salvini; a Napoli il blocco lepenista contava sulla rappresentanza di Fratelli d’Italia, ferma ad un misero 1,28%. Poi c’è Roma. Qui il progetto reazionario tentava la partita più ambiziosa e potenzialmente fervida di risultati. La vera partita politica nazionale interna al centrodestra si giocava infatti nella Capitale. Una Meloni al ballottaggio avrebbe comportato una ridefinizione dell’area difficilmente procrastinabile. Eppure il 20% raggiunto dalla Meloni (con Fratelli d’Italia al 12% e Noi con Salvini al 2%), difficilmente può definirsi un “buon risultato”. In questo senso, bisogna però comprendere bene una certa tradizione politica ed elettorale cittadina. Scomparsa Forza Italia (che si ferma ad un inutile 4%), scomparso Storace (0,6%) Fratelli d’Italia in sostanza ereditava tutti i voti e la presenza elettorale di Alleanza nazionale. Che a Roma è sempre stato il primo partito del centrodestra. Per dare un’idea: nel 1993 l’Msi raggiungeva i 400.000 voti e il 31% dei votanti; nel 1997 An prendeva il 24%; nel 2001 il 21%; nel 2006 il 19.4%; nel 2008 An confluiva nel Pdl che raggiungeva l’enorme cifra del 36%, crediamo con il contributo determinante proprio dell’ex partito post(?)fascista. In altra parole, Roma è sempre stato feudo elettorale di Alleanza nazionale, che poteva e può ancora contare su di un blocco di voti e di interessi radicato e capillare, che di certo non viene destrutturato nel giro di pochi anni. Fratelli d’Italia dunque si ferma ad un 12% – 143mila voti – che sono molti di più di quanti ne prese nel 2013 (dove partiva dal 5%), ma che rappresentano un arretramento deciso rispetto alla tradizione storica elettorale di quell’area. E in presenza di una candidatura forte come quella della Meloni, e dall’arretramento del Pd, che lasciava ampi margini di recupero di voti nel serbatoio elettorale post(?)fascista. Il 20% complessivo non va certo sottovalutato ma neanche, crediamo, enfatizzato: la Meloni a quel ballottaggio ci credeva davvero, e non averlo centrato è un dato che certifica una sconfitta, non una parziale vittoria. Poi ci sono sconfitte che sedimentano i germi di future vittorie, oppure sconfitte senza appelli. Al momento è difficile prevedere cosa accadrà in quell’area.
Al blocco lepenista, quello originale francese, riesce a livello elettorale comunale e regionale quel che ancora non raggiunge a livello nazionale. E’ proprio “nei territori” che prende forma quel voto di protesta del soggetto sociale impoverito, deluso e rancoroso verso la politica tradizionale che in Francia confluisce nel partito “antisistema” del Front national. In Italia questo ancora non avviene, ed anzi queste elezioni sembrano davvero rappresentare un arresto – per ora momentaneo – nella costruzione di quel soggetto reazionario di massa agognato da Salvini e soci. La nostra ipotesi è che questa dinamica viene bloccata dalla presenza del Movimento 5 Stelle, che contende elettoralmente lo stesso bacino d’utenza del leghismo, rappresentandolo però “meglio” agli occhi degli elettori perché “meno compromesso” con gli organi istituzionali di governo (cosa che la Lega – al governo per vent’anni – non può certo rivendicarsi). Ciò che riesce al Front national in Francia viene riprodotto in Italia dal M5S, che in questo ne ricalca molto di più ruolo e rappresentanza nella società. Oltretutto, la scelta suicida di Salvini di accreditarlo come unica forza “antisistema”, attraverso i suoi continui endorsement elettorali in favore di Grillo, non fa altro che consegnare al M5S l’egemonia elettorale su quel pezzo di società.
Il vero Front national italiano è allora il M5S, almeno osservando da un punto di vista oggettivo il ruolo che il Movimento ha nel dare rappresentanza alla volontà di rottura di una parte della popolazione. Quel blocco sociale è oggi conteso tra due soggetti politici, e questo impedisce la fagocitazione elettorale da parte di un solo partito. A questo proposito, però, sarebbe utile anche “analizzare” alcuni dati del M5S, per capire da dove arriva davvero il voto cinquestelle.
Abbiamo detto che l’astensione è il vero dato rilevante di queste elezioni (assieme al notevole restringimento elettorale – in termini di voti assoluti – del Pd). E’ un fatto a cui va data la giusta considerazione: dopo aver raggiunto cifre “americane”, l’astensione invece di stabilizzarsi (non può certo aumentare ad ogni elezione), continua a marciare spedita (addirittura -6% di votanti rispetto al 2011). Questo dato va tenuto in considerazione anche nell’interpretazione del “successo” del M5S. Il movimento di Grillo infatti riesce, ci sembra, ad egemonizzare il voto di protesta di chi si è stancato dei partiti tradizionali ma allo stesso tempo va ancora a votare, mentre non riesce a riportare al voto chi ha da tempo abbandonato ogni illusione elettorale. Anche il +4% di votanti avuto a Roma – unica grande città in controtendenza – ci sembra più un’oscillazione fisiologica che recupero effettivo di non votanti. Questo è un fatto molto importante, perché inquadra politicamente le potenzialità, almeno attuali, del M5S: grande presa tra gli elettori delusi ma scarsa credibilità tra l’astensionismo di protesta. Quel pezzo di società che non vota continua a rimanere senza possibile rappresentanza. Un deserto politico ancora non occupato e su cui dovrebbe interrogarsi la sinistra di classe: le possibilità di rappresentanza sociale insomma continuano ad esistere, lo spazio rimane aperto ad un lavoro politico non conteso da altri soggetti “ufficiali”. E’ una delle possibili “buone notizie” che ci lascia questa elezione.
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