Il prossimo vertice della Nato (il ventiseiesimo dalla creazione dell’organismo militare) previsto a Varsavia l’8 e 9 luglio troverà sicuramente le attenzioni europee e statunitensi rivolte ai confini orientali del vecchio continente e a quei focolai vecchi e nuovi (dall’Ucraina alle Repubbliche caucasiche) che vedono direttamente interessato l’ingombrante, ma diplomaticamente dotato, inquilino moscovita. Eppure in testa alle attenzioni americane c’è la situazione afghana, che ha visto la Nato impegnata su quel territorio dal 2001 con la missione Isaf, quindi dal gennaio 2015 con Resolute Support, che pur avendo diminuito il numero dei militari in loco (11.000, più un numero imprecisato di contractors, si dice oltre 20.000 unità ma non esistono documentazioni ufficiali) ha aumentato le operazioni dal cielo con attacchi condotti con aerei da guerra e droni. Per le azioni di terra, soprattutto di vigilanza e pattugliamento, l’esercito locale avrebbe dovuto sostituire i marines, ma dopo tre anni di reclutamento e addestramento serrati, l’Afghan National Security Forces fa più acqua della diarchia Ghani-Abdullah. Ben prima delle operazioni targate “supporto” il vertice Nato di Lisbona (novembre 2010) aveva tracciato lo scenario attuato gradualmente dal Pentagono.
Quello, appunto, della strategia dell’uscita dal “pantano afghano” che nel 2010 aveva fatto vivere l’anno orribile alle truppe dirette prima da McChrystal poi da Petraeus, che registrarono oltre 700 vittime, 630 in azioni offensive compiute dai resistenti. Ricordiamo come in quel periodo i soldati statunitensi avevano toccato quota 100.000 unità per la decisione presa da Obama di aggiungere 30.000 marines alle restanti truppe. Anche i contractors erano al top delle presenze con oltre 100.000 uomini. A fine 2010 si stabiliva di proseguire il conflitto ma con un numero sempre più ridotto di divise Nato sul terreno (oltre a statunitensi e britannici la coalizione era formata dai militari di Italia, Francia, Germania, Daminarca, Paesi Bassi, Norvegia, Canada, Australia, Nuova Zelanda) e di far operare l’esercito locale e le armi mercenarie. Intanto si ampliavano le basi aeree da dove far partire raid sui talebani, diffusi in un numero crescente di province. Queste azioni non erano sempre rivolte su obiettivi mirati: i leader talib, che pure hanno subìto molte perdite (l’ultima quella di Mansour). Hanno, come al solito, continuato a colpire nel mucchio gli abitanti stanziali e quelli che vagano fra una provincia e l’altra, cercando di sfuggire a ogni kalashnikov, talebano, dei signori della guerra locali e di quelli con la divisa Nato, pattuglianti assoldati inclusi.
La guerra sporchissima, continuava così. Nelle conferenze di Londra e Kabul (2010) e nei summit Nato di Chicago (2012) e Newport (2014) veniva riannunciata quella transizione verso la sicurezza del Paese, che doveva garantire principalmente la certezza della continuità d’occupazione statunitense del territorio tramite le famosi basi aeree (Kabul, Bagram, Mazar-e Sharif, Herat, Shorab, Kandahar, Jalalabad, Shindand, Gardez) e la formazione d’un efficiente esercito. Nonostante il reclutamento crescente, che ha raggiunto nel 2015 la vetta delle 350.000 presenze, questa struttura non ha mai funzionato, per le continue defezioni, per le molteplici infiltrazioni di talebani che, nel tempo, hanno compiuto grazie ai loro basisti vari attentati interni alle caserme. Nelle circostanze in cui lo scontro sul terreno si è acuito con una ridda di attentati (dal 2014 la stessa capitale non è assolutamente controllata dalle truppe governative) e con operazioni simboliche, come la presa di Kunduz dell’autunno scorso, le truppe di terra afghane non sono state in grado di reggere lo scontro tattico né quello armato coi turbanti neri. Dal 2013 i 4.1 miliardi di dollari spesi annualmente per formazione e sostegno dei militari locali risultano improduttivi. Almeno una parte di questa cifra potrebbe venir dirottata a sostenere i mille bisogni dell’indigenza locale?
Lo potrebbe se l’establishment di Kabul lo volesse e lo chiedesse, ma Ghani e Abdullah hanno chinato la testa davanti al Bilateral Security Agreement, valido fino al 2024, l’accordo che ha avallato un progetto, da quel che si vede, fallimentare. Eppure a Varsavia i numeri riguardanti il personale impiegato per la presunta sicurezza sono elefantiaci: 173.000 soldati, 154.000 agenti di polizia, 28.000 poliziotti di villaggio, piazzati in quali villaggi è tutto da scoprire, visto che ben 27 province afghane sono o direttamente guardate a vista dai talebani, oppure ne registrano una presenza imposta con le armi, oppure patteggiata coi signorotti locali e coi governatori, che in vari casi sono un sinonimo. Indiscrezioni fanno salire a 5 miliardi di dollari i costi annuali di questa sceneggiata che serve a far vivere una fetta della popolazione, poiché avere un militare in famiglia, che intasca fino a 500 dollari mensili, rappresenta una rendita. La Nato fa passare l’idea d’un controllo del territorio, che in realtà si riferisce alle basi di suo interesse, e alcuni luoghi ipervigilati. Il governo perpetua il suo vivere alla giornata, i talebani sono felici d’un simile panorama e, a seconda della direzione, scelgono se patteggiare una presenza e un affarismo senza scontri decisivi o invece decidere di dare la grande spallata. Finora lo scontro totale non c’è stato. Il caos calmo potrebbe proseguire, appagando interessi vari di varia natura. L’unica incognita, anche lì, è il Daesh.
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