Se il bilancio di un attacco condotto sulla Siria con oltre 100 missili è di tre feriti, è evidente che siamo di fronte ad un attacco quanto meno “contrattato” tra le parti in causa. “Sembrerà cinico agli uomini di buona volontà, ma nel bene e nel male ognuno ha fatto ciò che doveva fare” è il lapidario commento di Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore.
Cosa abbiamo visto dunque in queste ore? A cosa abbiamo assistito negli anni e mesi trascorsi nella guerra in Siria? E cosa dovremo aspettarci di vedere nel prossimo periodo?
Il fatto che la banda dei bombardieri (Usa, Francia, Gran Bretagna) abbiano attuato un attacco con il freno tirato, per un verso conferma il concreto timore di dare vita ad un conflitto non più facile e asimmetrico come quelli visti negli ultimi venticinque anni in Iraq, Jugoslavia, Libia, (sostanzialmente aggressioni unilaterali di potenze immensamente più forti contro paesi assai più deboli). Dall’altro possiamo affermare di aver assistito ad un altro episodio di quella “guerra mondiale a pezzi” che si va combattendo dal 2001 su vari scenari.
Pochi ricordano come lo scenario consueto (attacchi unilaterali contro paesi più deboli) abbia subito il primo serio stop in Georgia nel 2008, quando la Russia intervenne a difesa delle repubbliche di Ossetia e Abkhazia attaccate dalla Georgia. Quest’ultima, guidata da un dittatorello di osservanza occidentale, diventato poi “ministro in Ucraina” e finito nei guai giudiziari, invocò l’art. 5 della Nato per un intervento militare a proprio sostegno. Gli Usa si dissero disposti a prenderlo sul serio, ma tutti i partner europei della Nato risposero “marameo”, e la reazione occidentale accettò lo statu quo, mostrando tutte le crepe di una Nato non più utilizzabile come camera di compensazione con gli Usa come primus inter pares.
Sei anni dopo, in Siria, l’entrata in campo della Russia stoppò e rovesciò completamente quello che sembrava un iter già visto e ineluttabile, con la caduta del governo preso di mira dalle grandi potenze occidentali: quello di Assad. Al contrario quest’ultimo, sostenuto da una alleanza tra Russia e Iran, è riuscito via via a riconquistare gran parte del paese caduto nella mani dei gruppi jiahdisti sostenuti dall’alleanza tra Arabia Saudita, Israele, Stati Uniti.
In questi anni abbiamo assistito anche a episodi potenziali di scatenamento di un conflitto di più vasta portata – vedi l’abbattimento di un aereo militare russo da parte della Turchia – ma che hanno prodotto una inaspettata alleanza tra Turchia e Russia piuttosto che una guerra tra questi due paesi. Fino ad arrivare ad una gestione comune di Turchia, Russia e Iran dei negoziati ad Astana tra il governo siriano e una parte delle organizzazioni che lo combattono. Uno scenario che ha tagliato fuori gli Usa dalla definizione dei possibili assetti futuri della Siria e di parte del Medio Oriente (vedi l’Iraq).
I bombardamenti voluti da Trump e costruiti insieme a Gran Bretagna e Francia come “punizione” per il presunto uso di armi chimiche, sono sembrati così un segnale contrattuale per mettere sul tavolo il proprio peso negoziale e per uscire dalla visibile marginalizzazione prodottasi sul campo.
Del resto non era imprevedibile che gli ondeggiamenti e le strumentalizzazioni operate dagli Usa fossero indice della loro debolezza. Aver prima sostenuto, anche apertamente, l’Isis in funzione anti-Assad e averne poi bombardato le postazioni, oppure aver lasciato agire e sostenuto i guerriglieri curdi delle Ypg nel nord della Siria e poi averli lasciati massacrare dalle truppe turche, è qualcosa di peggio del gioco di “alleanze a geometria variabile” che avevamo già visto usare dagli Usa in Iraq e prima ancora in Afghanistan.
Al momento le alleanze visibili sul campo appaiono due: quella tra Usa, Israele e Arabia Saudita e quella tra Russia, Iran e Turchia. Ma è evidente che dentro queste alleanze ognuno giochi poi in proprio e in base ai propri interessi. Finché coincidono si procede, quando divergono si aprono altri e diversi canali di interlocuzione o conflitto.
Israele e Arabia Saudita hanno il problema dell’Iran, la Turchia ha il problema dei curdi (ma solo quelli del Pkk), l’Iran intende rafforzare il network sciita (oggi ben saldo in Iraq e Libano ma potenzialmente destabilizzante per le petromonarchie del Golfo dove ampie quote di popolazione sono sciite. I bombardamenti sullo Yemen vanno visti in tale contesto). Israele approfitta spudoratamente della situazione per attaccare le linee di rifornimento di Hezbollah in Siria, per dare una mano alle milizie jihadiste ed impedire ogni stabilizzazione del governo di Damasco, e per rafforzare l’alleanza con i curdi nell’Iraq del nord contro il governo centrale iracheno oggi in mano agli sciiti.
Anche ad occhio appare evidente come, ad esempio, le istanze di liberazione e autodeterminazione di due popoli martoriati come i palestinesi e i curdi, finiscano macinate e annullate dentro questo contesto.
Dopo la salva di missili sparati nel deserto nella notte tra venerdì e sabato, adesso molti si chiedono cosa faranno Trump, la May e Macròn. Il loro imbarazzo e la loro debolezza sono apparsi fin troppo evidenti in questo scorcio di guerra. Davanti non avevano un paese debole e facilmente demonizzabile e attaccabile ma una potenza di prima grandezza come la Russia. Hanno sparato 100 missili nel deserto perché non potevano “perdere la faccia” dopo aver abbaiato per giorni. Questa loro difficoltà non li rende meno pericolosi, al contrario.
E’ evidente che il pretesto delle armi chimiche non abbia convinto nessuno. In questi venticinque anni sono state raccontate troppe frottole e diffusi troppi inganni per giustificare guerre e aggressioni. Per quanto l’industria mainstream dell’orrore cerchi di lavorare a pieno regime, arruolando in Italia personaggi come Saviano e la Littizzetto, l’opinione pubblica appare più vaccinata, forse anche troppo, sconfinando in un cinismo e in un disincanto che non produce – sull’altro versante – la disponibilità a mobilitarsi per fermare la guerra e smascherare i guerrafondai. E i guerrafondai sono quelli che valutano la guerra come opzione nella valutazione tra costi e benefici, sta in questo la discriminante da cogliere e la natura dell’imperialismo.
Soprattutto perché occorre impedire di trovarci davanti ai fatti compiuti, quelli da cui diventa difficile tornare indietro senza “perdere la faccia”. Il problema degli automatismi previsti dai trattati militari tra Italia e Usa e dalla Nato, diventa una contraddizione centrale dalla quale dipende il futuro del nostro paese nel coinvolgimento o meno nella “guerra mondiale a pezzi” in corso da anni. E questo diventa il “nostro” problema.
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