Ci sono notizie che vanno prese con le molle e spiegate per bene nelle loro implicazioni.
Facebook e Instagram hanno deciso di oscurare da ieri i profili social di CasaPound e Forza Nuova, compresi quelli dei loro membri più conosciuti (Iannone, Di Stefano, Fiore, ecc). Il che non può che far piacere a degli antifascisti sinceri.
Ovviamente, ci sono molti “ma”. Che non c’entrano nulla con la “democrazia”, a cominciare dalla motivazione addotta dal gruppo controllato da Mark Zuckerberg.
“Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia”. Quindi, “gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram”.
Come si vede, la decisione non è conseguenza di uno schieramento politico-valoriale (anche se la coincidenza con la fiducia al governo BisConte potrebbe far sospettare una “ostilità postuma” nei confronti del “populismo delle fake news“...), ma di una policy fatta scattare piuttosto tardivamente. Quei profili esistono da anni e la proprietà della piattaforma si era ben guardata dal contestare l’apologia quotidiana di fascismo che grondava da quelle pagine. Portava contatti e pubblicità, quindi poteva benissimo essere tollerata in nome del profitto di impresa.
Facebook, insomma, non è antifascista e non rimuove ora quella merda per questo motivo.
“Diffusione di odio” e “attacchi a persone sulla base di chi sono”, se guardate bene, sono formule così vaghe che lasciano nelle mani della governance aziendale una totale libertà di scelta su chi cancellare e chi no. In via di principio, anche l’antifascismo potrebbe essere considerato una forma di “odio” nei confronti di qualcuno “per quel che è” (un fascista, in quel caso). E come la mettiamo quando “l’odio” viene diffuso per anni da un parlamentare, un ministro dell’interno o addirittura dal presidente degli Stati Uniti?
Del resto, le piattaforme social non sono uno “spazio pubblico”, ma un “cortile privato” dove chiunque può esporre quasi qualsiasi cosa finché torna a vantaggio dell’azienda. Quando qualcosa o qualcuno diventa – per qualsiasi motivo – dannoso per i profitti attuali e futuri, viene cancellato.
Altra cosa è uno Stato, istituzione pubblica per eccellenza, che dovrebbe invece muoversi sulla base di un patto costituzionale – che determina nel lungo periodo cosa è ammissibile e cosa no – e di un codice penale, più variabile nel tempo, che stabilisce cosa è reato e cosa no.
La logica dell’istituzione pubblica è insomma l’esatto opposto della policy privata. Prescrive un quadro di regole rese note a tutti i membri di quello Stato, presenti o futuri, e sanziona ciò che espressamente vieta. È frutto (teoricamente…) di un equilibrio collettivo, non del dispotismo di un cda.
La ricostituzione del partito fascista e l’apologia di fascismo sono espressamente vietate dalla Costituzione italiana e da alcune leggi (quella Mancino è la più esplicita). Ma i governi italiani, tutti, si sono ben guardati dall’applicare Costituzione e leggi. Peggio ancora hanno fatti i corpi di polizia e quasi tutta la magistratura, sulle cui scrivanie spesso compaiono busti o foto del “duce”, consentendo così a un discreto numero di gruppuscoli fascisti di esistere, propagandare, presentarsi alle elezioni, spacciare droghe ideologiche e chimiche, pestare avversari politici e immigrati, ecc.
Insomma: sarebbe stato logico, anzi doveroso, che fosse la polizia, su ordine della magistratura, a chiudere non solo i profili social, ma anche le sedi politiche, perseguendo penalmente i membri di quelle organizzazioni.
Invece abbiamo ora questa curiosa situazione: fascisti dichiarati che hanno momentaneamente perso alcuni degli strumenti di propaganda online (ci metteranno poco a crearne di nuovi, non ci vuole poi molto...), ma che possono fare le vittime sulla scena politica pubblica – erano ieri in piazza con Salvini e Meloni, con tanto di saluti romani, che sono reato – e continuare ad appestare il clima politico di questo paese. Con la complicità di polizie, magistratura e tutti i partiti parlamentari, di governo o di ex governo.
Non c’è insomma da gioire più di tanto per la decisione di Facebook e Instagram, perché identiche – ma meno note – decisioni colpiscono spesso antifascisti e antimperialisti di mezzo mondo (i più tartassati sono i solidali con i palestinesi, non a caso). E anche nel funzionamento quotidiano delle pagine social ogni antagonista potrà notare “stranezze”, rallentamenti, sparizioni di contatti, diradamento improvviso del traffico, ecc.
Che significa tutto ciò? Che la “difesa della libertà”, o addirittura della “democrazia”, non può davvero essere fatta da una multinazionale privata che bada solo ai propri conti e – in funzione di questi – alla propria immagine. Sarebbe peraltro una contraddizione in termini che una struttura gerarchica quasi monarchica – Zuckerberg è amministratore delegato e “azionista di riferimento” – avesse a cuore la libertà altrui...
Ma il dato peggiore è un altro. Certo la presenza sui social è un potente vettore di propaganda politica, di diffusione di un “senso comune”, di modi di pensare. Ma se – come avviene – l’agibilità politica dei fascisti non viene interdetta dallo Stato o dagli antifascisti, quella diffusione continua. Anzi, si nutre di questi piccoli “divieti privati” che ne ingigantiscono le pretese di “alterità rispetto al sistema”.
Di quel sistema di cui sono da sempre servi ben remunerati, utilizzati alla bisogna e poi rimessi nel loro recinto. E che dunque non può e non vuole farne a meno...
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