A maggio è stato raggiunto un accordo di massima, tra Stati Uniti e
Russia, per convocare entro l'estate a Ginevra una nuova conferenza di
pace che ponga fine alla tragedia siriana. Sin qui sembrerebbe una
notizia come un'altra, non degna di particolare attenzione, visto che
missioni analoghe, sponsorizzate da Lega araba e ONU, si sono svolte in
passato senza portare ad alcun risultato concreto; ma la vera novità è
che Barack Obama ha accettato che ai prossimi negoziati di Ginevra
partecipino, a pieno titolo, anche rappresentanti dell'attuale governo
di Bashar Al Assad. Sino ad oggi Obama aveva chiaramente detto, per
bocca del Dipartimento di Stato, che qualsiasi ipotesi di pace negoziata
avrebbe dovuto avere, come precondizione, l'abbandono del potere da
parte di Assad; pertanto il cambio di strategia costituisce, di fatto,
una sconfitta dolorosa per la Casa Bianca.
Ma cosa ha determinato
questo voltafaccia da parte della diplomazia americana? Essenzialmente
la constatazione che i ribelli, malgrado l'imponente finanziamento
estero e relativa fornitura di armi, stanno perdendo la guerra civile.
Su tutti i fronti l'esercito regolare è al contrattacco e scaccia i
ribelli verso i confini, aiutato anche da milizie territoriali lealiste
(multiconfessionali, è bene rimarcarlo) e da decine di migliaia di
guerrieri Hezbollah, il "Partito di Dio" del vicino Libano. Gli attacchi
eseguiti da aerei israeliani all'inizio di maggio sull'area di Damasco
hanno poi aggravato la situazione diplomatica e provocato una levata di
scudi da parte di Lega araba e Turchia i quali, pur essendo
consapevolmente complici di Israele nel tentativo di eliminare il regime
di Assad e dei suoi rappresentanti, non possono permettersi il lusso di
tacere, approvando di fatto azioni ostili contro uno Stato arabo
compiute da quello che viene unanimemente individuato dai popoli della
regione come il più feroce nemico dell'Islam, a causa della questione
palestinese.
Tutto chiaro dunque, da parte di Obama? Nemmeno per
sogno. Per arginare l'ira del fronte anti siriano e specificatamente
dell'emiro del Qatar (che sogna di trasformare la Siria in un Califfato
sunnita retto dalla shaaria), del governo turco di Erdogan (che nutre
ambizioni imperiali che riportino i possedimenti turchi ad un secolo fa)
e, soprattutto, di Israele (che vuole la fine del regime siriano perché
è l'unico Paese confinante che non ha accettato come definitiva
l'invasione della Cisgiordania, come hanno fatto a suo tempo Egitto e
Giordania in cambio della pace) il Presidente USA ha subito contattato
l'Europa affinché abolisca l'embargo degli armamenti ai ribelli, cosa
che ubbidientemente gli organi di Bruxelles hanno recepito, e,
provocatoriamente, ha inviato il senatore John McCain attraverso il
confine turco in un villaggio controllato dai ribelli; quest'ultima
visita ha tanto il sapore delle "missioni lampo" in Iraq ed Afghanistan.
Naturalmente queste iniziative hanno sollevato le proteste di Russia e
Siria che parlano, apertamente, di azioni che vanno contro la pace.
Un
colpo al cerchio quindi, da parte di Obama, ed uno alla botte, per non
smentire l'ambiguità di questo Presidente, ambiguità riscontrata in
molte occasioni dai commentatori internazionali.
Barack Obama,
insomma, sempre di più appare o come troppo debole per realizzare le
aspettative quasi messianiche che hanno accompagnato la sua prima
elezione (ricordiamo che nel 2009 gli è stato addirittura conferito il
Nobel per la Pace) per l'instaurazione di un nuovo ordine mondiale
pacificato e multipolare, ovvero come un astuto simulatore che vuole
mantenere e fortificare gli immensi vantaggi geopolitici che gli esiti
della Guerra Mondiale prima e della Guerra fredda poi hanno assicurato
agli Stati Uniti d'America; vantaggi che però vivono e si nutrono di
turbolenze e destabilizzazioni in vaste aree del mondo.
Se e
quando la conferenza di pace avrà luogo, data per scontata la
partecipazione ai più alti livelli del governo siriano, sancirà però un
principio: gli assenti avranno comunque torto. Nella disarticolata e
confusa galassia della ribellione siriana, infatti, è molto probabile
che l'ala più oltranzista e feroce, molto vicina all'emiro del Qatar ed
alle altre dinastie tribali del Golfo Persico, non vorrà partecipare ai
negoziati, perdendo così qualsiasi potere decisionale in un'eventuale
accordo da sottoporre al popolo siriano; ciò comporterà, di conseguenza,
la totale sconfitta politica delle monarchie tribali ed il tramonto del
disegno di instaurare un Califfato sunnita in Siria, con gravi
conseguenze anche al loro interno. Ma gli emirati del Golfo sono stretti
vassalli di Washington; avrà dunque la forza Barack Obama di
guadagnarsi qualche punto del premio Nobel per la Pace, che gli è stato
assegnato a futura memoria, o preferirà, come al solito, privilegiare lo
status quo, dimostrando ancora una volta la sua doppiezza?
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