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09/06/2013

Grandi manovre attorno alla Siria

A maggio è stato raggiunto un accordo di massima, tra Stati Uniti e Russia, per convocare entro l'estate a Ginevra una nuova conferenza di pace che ponga fine alla tragedia siriana. Sin qui sembrerebbe una notizia come un'altra, non degna di particolare attenzione, visto che missioni analoghe, sponsorizzate da Lega araba e ONU, si sono svolte in passato senza portare ad alcun risultato concreto; ma la vera novità è che Barack Obama ha accettato che ai prossimi negoziati di Ginevra partecipino, a pieno titolo, anche rappresentanti dell'attuale governo di Bashar Al Assad. Sino ad oggi Obama aveva chiaramente detto, per bocca del Dipartimento di Stato, che qualsiasi ipotesi di pace negoziata avrebbe dovuto avere, come precondizione, l'abbandono del potere da parte di Assad; pertanto il cambio di strategia costituisce, di fatto, una sconfitta dolorosa per la Casa Bianca.

Ma cosa ha determinato questo voltafaccia da parte della diplomazia americana? Essenzialmente la constatazione che i ribelli, malgrado l'imponente finanziamento estero e relativa fornitura di armi, stanno perdendo la guerra civile. Su tutti i fronti l'esercito regolare è al contrattacco e scaccia i ribelli verso i confini, aiutato anche da milizie territoriali lealiste (multiconfessionali, è bene rimarcarlo) e da decine di migliaia di guerrieri Hezbollah, il "Partito di Dio" del vicino Libano. Gli attacchi eseguiti da aerei israeliani all'inizio di maggio sull'area di Damasco hanno poi aggravato la situazione diplomatica e provocato una levata di scudi da parte di Lega araba e Turchia i quali, pur essendo consapevolmente complici di Israele nel tentativo di eliminare il regime di Assad e dei suoi rappresentanti, non possono permettersi il lusso di tacere, approvando di fatto azioni ostili contro uno Stato arabo compiute da quello che viene unanimemente individuato dai popoli della regione come il più feroce nemico dell'Islam, a causa della questione palestinese.

Tutto chiaro dunque, da parte di Obama? Nemmeno per sogno. Per arginare l'ira del fronte anti siriano e specificatamente dell'emiro del Qatar (che sogna di trasformare la Siria in un Califfato sunnita retto dalla shaaria), del governo turco di Erdogan (che nutre ambizioni imperiali che riportino i possedimenti turchi ad un secolo fa) e, soprattutto, di Israele (che vuole la fine del regime siriano perché è l'unico Paese confinante che non ha accettato come definitiva l'invasione della Cisgiordania, come hanno fatto a suo tempo Egitto e Giordania in cambio della pace) il Presidente USA ha subito contattato l'Europa affinché abolisca l'embargo degli armamenti ai ribelli, cosa che ubbidientemente gli organi di Bruxelles hanno recepito, e, provocatoriamente, ha inviato il senatore John McCain attraverso il confine turco in un villaggio controllato dai ribelli; quest'ultima visita ha tanto il sapore delle "missioni lampo" in Iraq ed Afghanistan. Naturalmente queste iniziative hanno sollevato le proteste di Russia e Siria che parlano, apertamente, di azioni che vanno contro la pace.

Un colpo al cerchio quindi, da parte di Obama, ed uno alla botte, per non smentire l'ambiguità di questo Presidente, ambiguità riscontrata in molte occasioni dai commentatori internazionali.
Barack Obama, insomma, sempre di più appare o come troppo debole per realizzare le aspettative quasi messianiche che hanno accompagnato la sua prima elezione (ricordiamo che nel 2009 gli è stato addirittura conferito il Nobel per la Pace) per l'instaurazione di un nuovo ordine mondiale pacificato e multipolare, ovvero come un astuto simulatore che vuole mantenere e fortificare gli immensi vantaggi geopolitici che gli esiti della Guerra Mondiale prima e della Guerra fredda poi hanno assicurato agli Stati Uniti d'America; vantaggi che però vivono e si nutrono di turbolenze e destabilizzazioni in vaste aree del mondo.

Se e quando la conferenza di pace avrà luogo, data per scontata la partecipazione ai più alti livelli del governo siriano, sancirà però un principio: gli assenti avranno comunque torto. Nella disarticolata e confusa galassia della ribellione siriana, infatti, è molto probabile che l'ala più oltranzista e feroce, molto vicina all'emiro del Qatar ed alle altre dinastie tribali del Golfo Persico, non vorrà partecipare ai negoziati, perdendo così qualsiasi potere decisionale in un'eventuale accordo da sottoporre al popolo siriano; ciò comporterà, di conseguenza, la totale sconfitta politica delle monarchie tribali ed il tramonto del disegno di instaurare un Califfato sunnita in Siria, con gravi conseguenze anche al loro interno. Ma gli emirati del Golfo sono stretti vassalli di Washington; avrà dunque la forza Barack Obama di guadagnarsi qualche punto del premio Nobel per la Pace, che gli è stato assegnato a futura memoria, o preferirà, come al solito, privilegiare lo status quo, dimostrando ancora una volta la sua doppiezza?

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