di Marco d'Eramo
Uno dei più frequenti, e stupefacenti, fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell'insicurezza, vittime dell'ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell'invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere.
Vittime si sentono i tedeschi delle sanguisughe greche che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. Perché non c'è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l'alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell'Europa del nord: è assai istruttivo il rendiconto che Jacob Soll ha pubblicato sul New York Times di un convegno di economia tenutosi a Monaco di Baviera all'inizio di luglio, convegno a cui partecipavano nomi tedeschi di rilievo come Hans-Werner Sinn, Clemens Fuest, Henrik Enderlein, Daniel Gros.
Mentre per tutto il convegno l'atmosfera era stata equilibrata, “quando gli economisti tedeschi presero la parola nella sessione finale, un tono completamente diverso prevalse nella sala. Dietro le teorie economiche e dietro i numeri venne un messaggio morale: i tedeschi erano gli onesti gonzi e i greci corrotti inaffidabili e incompetenti. Ambedue le parti erano ridotte a caricature di se stesse: questa storia l'abbiamo sentita durante tutte le trattative, ma in quella stanza era chiaro quanto grande fosse il risentimento che plasma le opinioni degli economisti tedeschi”.
Per chi, come me, in questo momento sta in Grecia, è quasi surreale la rabbia che traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene: soggiornando in un paese che è costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti. Rendersi conto del vittimismo tedesco è forse l'aspetto più preoccupante nell'attuale vicenda europea. Semplicemente perché, dopo 70 anni, ripropone in Europa una questione tedesca che sembrava essere stata risolta per sempre. E forse gli storici ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la questione tedesca, dove l'aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco, la classe dominante tedesca. Esattamente come, quando si parla di “imperialismo americano”, non si attribuiscono certo mire imperialistiche a una ragazza madre di un ghetto urbano statunitense.
E uno dei pochi motivi di gratitudine che avevamo nei confronti dell'imperialismo americano era che, semplicemente grazie alle loro dimensioni schiaccianti, gli Stati Uniti avevano costretto sia le élites francesi, sia quelle tedesche a rendersi conto di “non fare il peso”, di essere gattini in un mondo di elefanti, e avevano così liberato noi europei dall'insopportabile prospettiva di altri tre secoli di guerre franco-tedesche. Ricordiamo che la Germania unita è una costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione nel 1866, la Germania ha posto all'Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l'Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una guerra ogni 19 anni; solo lo Stato d'Israele (anch'esso una creazione recentissima) si sta dando da fare per battere questo record, con cinque guerre e varie guerricciole in 66 anni: a confronto, gli Stati Uniti stanno a 11-12 guerre (a seconda se si considerino due guerre separate oppure la stessa guerra l'invasione dell'Iraq e quella dell'Afghanistan) in 241 anni, una guerra ogni 20-21 anni. Tanto che dopo la seconda guerra mondiale, quando la Germania fu divisa in due, molti condivisero la battuta che viene attribuita allo scrittore francese François Mauriac: “Amo talmente tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due”.
Quasi a confermare le parole di Mauriac, appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato un po' d'inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto; la fretta nell'annettere all'Unione europea i paesi dell'Est, una fretta che ha provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica; una certa megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale. Vi si riconosceva il senso di una nuova assertività politica, anche se questi segnali potevano essere considerati errori d'inesperienza, prodotti da un'euforia che si sperava transitoria.
Né vale la pena appellarsi alla memoria collettiva. Innanzitutto è dubbio che esista qualcosa chiamato memoria collettiva. Ma se esistesse, sarebbe una memoria piena di amnesie, come dimostra il fatto che, nonostante Hiroshima e Nagasaki, più della metà dei giovani nipponici (il 52 % esattamente) ignora che vi sia mai stato un conflitto tra Giappone e Stati Uniti. Il modo in cui gli italiani trattano gli immigrati è totalmente immemore delle umiliazioni, discriminazioni, persino dei linciaggi subiti dagli immigrati italiani nell'ultimo secolo e mezzo (e sono stati complessivamente decine di milioni). Anche il modo in cui gli israeliani abusano del proprio potere militare sembra incompatibile con la memoria delle angherie subite per millenni dal popolo ebraico.
Perciò quando si parla di questione tedesca, non è in gioco un ipotetico, improbabile carattere etnico collettivo di supposta “teutonica” arroganza autoritaria, bensì di un atteggiamento proprio della classe dominante che sembra discendere in linea diretta dagli Junker prussiani perché, come loro, accompagna con una violenta svolta conservatrice ogni sua spinta espansionistica. E bisogna spazzare dal tavolo il paragone con il Terzo Reich, perché proprio l'enormità delle devastazioni prodotte dal nazismo, e dunque proprio l'improponibilità del confronto, in un certo senso “assolve” la Germania attuale da ogni responsabilità. Più utile sarebbe ricordare la Germania bismarkiana e guglielmina. Innanzitutto perché proprio quell'esperienza ha plasmato la nascita dell'euro.
Vale la pena ricordare che una moneta unica europea (prima il Serpente monetario europeo – Sme – poi l'Ecu, infine l'euro) fu la condizione che il presidente francese François Mitterrand impose per acconsentire alla riunificazione tedesca, come strumento per imbrigliare lo strapotere prevedibile di una Germania unita. L'euro fu quindi vissuto dalla classe dominante tedesca come l'ultimo diktat esercitato dalle potenze vincitrici mezzo secolo dopo la disfatta della seconda guerra mondiale. Ancora tre anni fa l'ex socialdemocratico, ed ex membro del Direttorio della Deutsche Bundesbank, Thilo Sarrazin scriveva un libro dal titolo significativo: Europa braucht den Euro nicht. Wie uns Wunschendenken in die Krise gefürt hat (Deutsche Verlags-Anstalt), (“L’Europa non ha bisogno dell’euro: come i nostri pii desideri politici ci hanno condotto alla crisi”). Sarrazin scriveva esplicitamente che la Germania si è lasciata trascinare “nell’euro e nell’unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale” (die Kriegsschuld: in tedesco “colpa” e “debito” sono espressi dallo stesso vocabolo: die Schuld): “I fautori (dell’euro e degli eurobonds) sono spinti dal riflesso squisitamente tedesco per cui la penitenza per l’olocausto e la guerra mondiale è davvero conclusa solo quando noi affidiamo tutti i nostri averi e il nostro denaro in mani europee”.
Assistiamo qui a un ennesimo esempio del fenomeno descritto all'inizio: viene descritto come strumento dell'oppressione e umiliazione subite dai tedeschi quell'euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione. È l'euro che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo dal perseguimento di una Germania europea all'instaurazione (destinata al fallimento) di un'Europa tedesca.
Innanzitutto perché nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha preso a ricalcare in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedesca nel XIX secolo: primo passo un’unione doganale col Mercato comune europeo, sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con diritto di veto. Poi una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli stati membri non avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 stati della Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un parlamento comune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli stati: per continuare il paragone, il Consiglio federale era l’equivalente della Commissione europea, mentre il Reichstag corrispondeva all’Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispetto all’Unione europea dei 27 membri. La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata nell’impero tedesco. Ma in realtà non finisce qui, perché in Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell'unificazione della Germania.
Naturalmente la deriva antidemocratica, francamente autoritaria, del progetto euro non può essere ascritta alla sola Germania: la sua data d'inizio va cercata nel referendum sulla Costituzione europea bocciato nel 2005 dai francesi e dagli olandesi. Fu a partire da allora che si allontanò la prospettiva di un'unione politica e quindi di un possibile controllo democratico sulle scelte di Bruxelles.
Ed è altrettanto naturale che ogni soggetto economico e politico del pianeta cerchi di sfruttare a proprio vantaggio le circostanze che si presentano. E che perciò la crisi economica sia stata vista come un'opportunità (e usata come tale) per perseguire i propri scopi politici e finanziari. Così i poteri finanziari di tutto il pianeta hanno sfruttato (con successo) la crisi per sottrarre ai lavoratori conquiste che avevano richiesto secoli di lotta per essere ottenute. Così la Cina ha sfruttato la recessione atlantica per affermare definitivamente il proprio status di officina del mondo. Così la Germania ha usato la crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta di sovranità nazionale, con l'ironico risultato che l'euro pensato per imbrigliare Berlino ha finito per imprigionare Parigi (in questo scontro la Grecia è solo un birillo sul tavolo da biliardo). Ma, appunto, il problema è definire il soggetto.
Ed è chiaro che, almeno dalla riunificazione in poi, la classe dominante tedesca ha pensato sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini di Germania. Tanto che, a tutt'oggi, come scriveva sul Financial Times Wolfgang Münchau, l'euro ha funzionato bene praticamente per la sola Germania (in misura minore per l'Austria e l'Olanda, anche se adesso l'Olanda è in crisi). Ma l'euro è stato disastroso per l'Italia; sta rivelandosi letale per la stessa Francia; la Finlandia è in piena recessione; la Spagna e il Portogallo sono più poveri di sette anni fa; per la Grecia non ne parliamo. Ancora una volta la narrazione prevalente in Germania è il contrario della realtà: l'euro viene visto come un regime di cui Berlino deve sopportare tutti i costi, da buona formica nordica che paga per tutte le cicale meridionali. Mentre è l'euro ad aver garantito la possibilità di esportate i prodotti tedeschi nell'eurozona: un ritorno al marco, e la sua conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo.
Ed è questa la maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti. Per cui assistiamo a una commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice costretta a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un'opinione pubblica che questa stessa classe dominante ha plasmato nello stampo più reazionario; che è costretta a esercitare una dittatura del capitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti perderebbe il consenso popolare. Il risultato è l'evoluzione della Spd tedesca che, dopo aver cacciato Sarrazin, adotta oggi con il socialdemocratico vicepremier Sigmar Gabriel tutta la visione del mondo di Sarrazin, con tutte le sue conseguenze politiche.
Quanto sia distante la narrazione che la Germania racconta a se stessa della crisi greca e della gestione da parte della Trojka, risulta lampante dalla vicenda dei panettieri greci. A prima vista può sembrare ridicolo che in un disastro economico come quello greco, i paesi creditori si ostinino a esigere misure urgenti come la liberalizzazione della vendita del pane non solo presso i fornai ma perché no anche nei saloni di bellezza, e che considerino l'equiparazione dell'Iva sul pane nelle panetterie e nei supermercati (che finora pagavano di più per salvaguardare il piccolo commercio). Ma il ridicolo si trasforma in grottesco quando la Trojka impone in modo ultimativo il diktat sul peso delle pagnotte: finora nei negozi greci si vendevano forme o da un chilo o da mezzo. Ora sarà obbligatorio venderne in pezzature diverse e graduali.
Ma che gliene può fregare ai creditori del peso della pagnotta greca? Quattro anni fa avevo iniziato un editoriale del manifesto con una frase che mi provocò indignate reazioni da parte dei miei amici tedeschi: “Dove non era giunta la Wehrmacht, è arrivata la Bundesbank” (mi riferivo per esempio a Lisbona e a Madrid). Rispetto ad allora, c'è da aggiungere che neanche i generali prussiani si sarebbero mai sognati di legiferare sulla pezzatura delle pagnotte in terra d'occupazione.
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