Qui di seguito pubblichiamo il documento della Rete dei Comunisti di presentazione e convocazione del Forum del 27 ottobre.
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La presidenza Trump, nei suoi comportamenti apparentemente irrazionali, sta facendo emergere quale sia la reale condizione non solo dei diversi imperialismi ma, a nostro vedere, il limite dello stesso Modo di Produzione Capitalistico in questo frangente storico.
L’improvviso riemergere dei dazi, che ricorda gli scenari precedenti alla seconda guerra mondiale, la fine della centralità del dollaro e la competizione tra le monete, l’accentuazione mondiale delle diseguaglianze sociali e la dimensione globale di una recessione oggi ammessa da tutti, stanno evidenziando, senza ombra di dubbio, i limiti attuali alla crescita capitalistica dovuti alle difficoltà sempre maggiori di valorizzare la grande massa di capitale finanziario che oggi è in circolazione per il mondo.
La sconfitta dell’URSS e del campo socialista alla fine del secolo scorso, ha fatto ritenere che la storia fosse finita e che l’unico orizzonte non poteva che essere il capitalismo come compimento ultimo dei destini dell’umanità. La fine della Storia è stata, e in parte rimane, la rappresentazione ideologica egemone che intendeva chiudere con il comunismo ma soprattutto con la lotta di classe che ha percorso l’800 e il ‘900.
Le tendenze che ora si stanno manifestando, in verità da oltre un decennio, ci dicono che le contraddizioni insite nel MPC non vengono superate, anzi si aggravano e si amplificano in modo direttamente proporzionale alla pervasività dell’economia capitalista.
Nell’ultimo trentennio, l’occidente capitalista a guida USA, ha ritenuto di avere ormai l’intero mondo a disposizione e si è lanciato nella corsa ai profitti investendo nelle aree non ancora subordinate all’economia di mercato, in modi diversi Cina, India, Russia e paesi dell’Europa dell’est, amplificando e velocizzando così il ciclo economico del capitale.
Questo ha prodotto un cambiamento delle condizioni economiche e sociali nelle diverse aree, ma ha soprattutto portato ad uno sviluppo enorme delle Forze Produttive, in particolare la produzione fondata sulle nuove e nuovissime tecnologie, che è andato ben oltre i confini delle aree imperialiste ed ora sta alla base dell’accentuata competizione globale divenendo cosi un boomerang per l’occidente imperialista.
In questo caso significa che gli enormi investimenti esteri realizzati dagli anni ’90 in poi dai centri finanziari verso quelle che erano le periferie produttive, hanno radicalmente cambiato gli assetti produttivi di queste ultime, sviluppando processi scientifici, tecnologi, finanziari ed economici, che gli permettono oggi di competere con chi ha pensato che la Storia fosse finita.
La Cina è indubbiamente l’esempio più eclatante di questo fenomeno, ma i nuovi competitori nei vari settori economici e produttivi non sono solo cinesi. Infatti l’aumento enorme di produttività, di prodotti e servizi ottenuti attraverso l’uso intensivo della scienza e della tecnica, ha ristretto gli spazi di crescita per il profitto, la caduta tendenziale del saggio di profitto sta agendo concretamente, esattamente come intuiva e documentava Marx già nell’800.
Tale tendenza ha incrementato anche la competizione tra centri imperialisti, come emerge chiaramente nelle relazioni USA/UE, ma ha dimostrato, ad esempio, anche l’impotenza in cui si sta dibattendo la Gran Bretagna, il paese imperialista per eccellenza, anche se da tempo in decadenza.
Questo processo impetuoso di crescita è stato incentivato ed accompagnato dall’uso spregiudicato della leva finanziaria che ha assunto dimensioni e forme speculative mai viste prima storicamente. Infatti la vera, unica, globalizzazione che si è avuta dagli anni ’90 è stata quella della finanza, che tra investimenti produttivi, speculativi e nell’intreccio con varie forme di illegalità si presenta come condizione materiale per tutti gli attori in campo, i quali sono condannati a confliggere ed a collaborare proprio a causa della dimensione finanziaria la quale, crollando, non lascerebbe nessuno al riparo dal fallimento.
La nascita delle criptomonete da parte di Stati e di multinazionali, è un ulteriore tentativo di divincolarsi dagli attuali intrecci finanziari e monetari, per trovare nuovi spazi di crescita dei singoli soggetti privati e statuali. Questo intreccio pericoloso si è palesato nella crisi finanziaria del 2007 che si è velocemente propagata dagli USA a tutto il mondo ed ha rapidamente fatto cadere l’assioma religioso di “più Mercato e meno Stato”. Gli istituti finanziari si sono salvati solo grazie agli interventi degli Stati, che hanno trasferito ricchezze ingenti dalle tasche dei cittadini alle casse delle Banche e dei fondi di investimento.
C’è poi un altro fattore di aumento della conflittualità internazionale ed è quello militare. Siamo reduci da un periodo storico in cui sostanzialmente solo due superpotenze – Usa e Urss – detenevano il monopolio scientifico, nucleare e militare. Il crollo del muro di Berlino ha rotto gli argini anche in questo campo. Dato che non c’era più un nemico da battere, il settore militare ha ricevuto un ulteriore spinta dallo sviluppo delle forze produttive, che dal centro si sono riversate nella periferia, incrementando non solo la produzione di merci e servizi ma anche la produzione di nuovi armamenti. In questa situazione un ruolo centrale lo svolge ancora l’arma nucleare, la quale garantisce un’equa e “reciproca distruzione” tra i competitori nel caso in cui si volessero riproporre le soluzioni alla crisi attraverso le politiche militari messe in campo nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.
Quello che si configura oggi, a nostro modo di vedere, è una situazione di stallo nei rapporti di forza internazionali che segnerà i prossimi anni, e che gli USA stanno vivendo come fine della loro egemonia globale alla quale intendono opporsi in tutti i modi, pena il declino e la fine del loro imperialismo come è avvenuto per l’Inghilterra nel secolo scorso. Uno scenario del tutto in contrasto con il sogno e il progetto del Nuovo Secolo Americano.
Questa condizione di stallo sta inoltre producendo situazioni paradossali e contraddittorie. Valga come esempio il comportamento di Trump nelle relazioni internazionali, nelle quali cambia continuamente sia i nemici che i toni diplomatici, senza però tradurre mai le sue parole in fatti, come sta ancora dimostrando lo scontro con l’Iran.
Un altro paradosso che emerge è che gli USA ultraliberisti applicano i dazi e la Cina socialista si pronuncia per il libero mercato. E poi, come già detto c’è il prima, durante e dopo della Brexit. Le stesse politiche neoliberiste in America Latina, Brasile e Argentina, a differenza degli anni ’70/’80 si sono rapidamente consumate riproducendo quelle crisi che avevano chiuso negli anni ’90 il periodo golpista in quella parte del mondo.
D’altra parte anche i vincitori appaiono sconfitti dalla loro vittoria. La Nato in quanto braccio armato dell’occidente, entra in crisi in un suo snodo centrale come quello della Turchia, la quale ora compra missili strategici dalla Russia, una decisione che in un’altra fase storica avrebbe provocato un colpo di Stato, operazione realmente tentata ma che, non a caso, è fallita.
Gli imperialismi storici sono così dentro uno stallo che coinvolge anche i nuovi competitori, a cominciare dalla Cina, la quale trova certamente un limite alla sua crescita a causa dei blocchi commerciali decisi da Trump, ma ne trova anche dalla forte spinta competitiva dell’Unione Europea.
Questo stallo generale però non riguarda solamente le relazioni economiche e finanziarie internazionali, ma si riversa anche nella vita quotidiana delle popolazioni. L’aumento della disoccupazione e della precarietà a livello mondiale non sono un episodio congiunturale ma dipendono dall’aumento della composizione organica di capitale che rende sempre più superflua la presenza di forza lavoro nella produzione capitalistica. Questa contraddizione ha un suo lungo percorso storico ma ora, di fronte ai limiti materiali della crescita capitalista, si manifesta per quello che è, cioè come una crisi di prospettive, una crisi della civilizzazione capitalistica in tutti i suoi aspetti.
Contemporaneamente gli effetti sociali relativi alle diseguaglianze ed alla crescita della povertà, paradossalmente si fanno sentire materialmente e politicamente soprattutto nei paesi imperialisti, dove le forze politiche borghesi vivono una fase di sbando e di crisi di rappresentanza molto seria, essendo incapaci di dare una risposta alle storture del modo di produzione.
Anche la questione ambientale si amplifica dentro questa corsa alla competizione globale che sta rompendo gli equilibri naturali del pianeta, incrementando il riscaldamento globale che porta alla trasformazione di intere aree geografiche. Eclatante è la vicenda degli incendi in Brasile (ma non solo, sta accadendo anche in Siberia, in Africa e in Asia), che nasce dalla necessità dei latifondisti brasiliani rappresentati da Bolsonaro di mettere a produzione nuovi terreni per essere più competitivi, a costo di distruggere una componente importante per la vita sul pianeta come la foresta amazzonica.
Vivere in una condizione di stallo strategico degli imperialismi non significa che le contraddizioni non continuino a crescere e a stressare complessivamente la situazione finanziaria, economica e politica internazionale. Anzi la pressione aumenta ma non ha ancora trovato uno sbocco, anche perché nessuno dei contendenti si sente tanto forte economicamente e militarmente da imporre la propria egemonia.
Su quali scenari e quadranti potrà rompersi questo stallo non è semplice individuarlo. Scontro militare tra Ovest ed Est? Implosione degli USA sulle propri contraddizioni interne tra cui quella razziale della maggioranza bianca “wasp” che teme di diventare minoranza? Crisi della UE in quanto anello debole nella competizione interimperialista? Crisi finanziarie, stagnazione e recessione di lungo periodo in quanto lo stallo si può protrarre nel tempo senza soluzione?
È difficile prevedere quale tendenza prevarrà ma è certo che occorre sforzarsi di capire quale risoluzione imporranno i possibili nuovi rapporti di forza, oppure se siamo dentro un “tunnel” dal quale per ora è difficile uscirne in termini di un rinnovato quadro internazionale. Si conferma e si attualizza quello che Gramsci scriveva dal carcere “La crisi appunto consiste nel fatto che il vecchio muore ma il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Di fenomeni “morbosi” ne stiamo vedendo effettivamente molti in questi anni di transizione, sulla quale la RdC ha promosso nel dicembre 2016 un Forum nazionale di dibattito teorico e politico e numerosi incontri di analisi della crisi. Se è vero che bisognerà immaginarci il tipo di conflitto che potrà rimettere in discussione lo stallo attuale, è anche vero che questa condizione ripresenta a tutto tondo la necessità dell’alternativa sociale.
Sappiamo bene che in Occidente parlare di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo viene interpretato e liquidato, grazie a potenti campagne mediatiche, ideologiche e culturali sviluppate in questi anni in maniera bipartisan da forze politiche e dai mass media, come un atteggiamento velleitario e utopistico per un verso, minaccioso e terroristico per un altro. Nonostante il discredito gettato quotidianamente dai nostri nemici di classe sulle nostre idee la situazione, per come si manifesta e per la dimensione che hanno assunto le contraddizioni, rivela tutto il peso dell’assenza di un’alternativa politica e statuale e pone dunque la necessità di una alternativa che non riusciamo ad esprimere con termini diversi da Socialismo e Comunismo. Sappiamo anche che è una strada difficile e piena di rovine lasciate da chi ha avuto la pretesa, nel nostro paese, di avere il monopolio di questa prospettiva, tradendone i fini in ogni passaggio fatto negli ultimi decenni, e ben prima della fine dell’URSS.
Come d’altra parte non possiamo esimerci dall’analizzare e valutare il ruolo dell’Unione Europea nel presente contesto internazionale. Nelle nostre elaborazioni individuiamo correttamente l’analisi degli effetti economici e sociali pesantemente regressivi prodotti dalla riorganizzazione complessiva del capitalismo attorno alla dimensione europea, egemonizzata ormai fin troppo chiaramente dalle forze economiche e finanziarie del grande capitale multinazionale, soprattutto ma non solo, da quelle concentrate in Francia e Germania. Su questo stiamo lavorando analiticamente e politicamente da tempo, evidenziando il degrado economico e sociale complessivo, che ora riguarda la stessa Germania, e le diseguaglianze per settori economici ed aree geografiche prodotte dalle politiche degli Eurocrati.
C’è però un altro punto di vista da tenere presente, forse più rilevante, e che parte dall’alto dell’analisi economica internazionale e dalle dinamiche storiche che vanno oltre le contraddizioni di classe prodotte dalla costruzione concreta dell’Unione Europea.
Questo riguarda il ruolo della UE come soggetto pienamente imperialista, entrato a pieno titolo nella competizione globale che abbiamo cercato di descrivere nella condizione di crisi e di stallo che la caratterizza. Un soggetto che sotto le mentite spoglie democratiche ed umanitarie, lo “stile di vita europeo” invocato dalla Von der Leyen, ha vinto tutte le sue battaglie nonostante le previsioni – strumentalmente pessimistiche ma in realtà funzionali – che ne preconizzavano il suo fallimento. La nascita e la tenuta dell’Euro, gli interventi militari in Africa e Medio Oriente, la recente sconfitta dei “sovranisti”, la crisi profonda della Brexit, dimostrano come questa prospettiva, per ora vincente, vada ad incrementare una conflittualità internazionale di tipo economico ma anche militare, come stanno a dimostrare i progetti di costruzione dell’esercito europeo nei quali la Francia, unica detentrice dell’arma nucleare, svolge un ruolo di punta.
Per questo la lotta per rompere la costruzione dell’Unione Europea ha assunto un valore generale, progressista e pacifista, contro ogni mistificazione dell’eurocentrismo che si ricandida ad essere il “faro” democratico per l’umanità.
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