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31/03/2025

Idiocracy (2006) di Mike Judge - Minirece

Guerra in Ucraina - Gli USA coinvolti più di quanto ammesso

Il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto in Ucraina è stato, fin dall’inizio, assai più profondo di quanto apparisse all’esterno e di quanto Washington abbia mai ammesso.

A rivelarlo è una lunga inchiesta pubblicata sul New York Times, dal titolo “The Partnership: la storia segreta della guerra in Ucraina, realizzata dal giornalista Adam Entous attraverso più di trecento colloqui con fonti governative, militari e d’intelligence in dieci diversi paesi.

Nell’inchiesta – che tende ad addossare le responsabilità della sconfitta interamente a Kiev, che non avrebbe seguito alla lettera le istruzioni degli strateghi americani – il quotidiano statunitense ricostruisce la strategica collaborazione militare instaurata tra Washington e Kiev nell’aprile del 2022, due mesi dopo l’invasione russa del 24 febbraio.

All’epoca due generali ucraini di alto rango si recarono a Clay Kaserne, il quartier generale dell’esercito degli Stati Uniti in Europa, per siglare un accordo che da quel momento è diventato il pilastro su cui si sono fondate le operazioni militari ucraine, pianificate di fatto nel complesso militare situato a sud-est della città di Wiesbaden, in Germania.

L’operazione, denominata “Task force Dragon” e coordinata dai generali Mykhaylo Zabrodskyi e Christopher Donahue, mirava a coordinare le forze con l’obiettivo di consentire agli ucraini di sconfiggere i russi. Ogni mattina da Wiesbaden gli ufficiali analizzavano gli schieramenti di Mosca e individuavano gli obiettivi più importanti, stilando una lista di priorità che poi veniva fornita all’intelligence per localizzarli e colpirli.

L’idea di fondo della partnership, scrive il Nyt, era che questa stretta cooperazione avrebbe potuto consentire agli ucraini di infliggere un duro colpo ai russi, un obiettivo che nei mesi successivi – fino alla metà del 2023 – sembrava sempre più a portata di mano, quando le truppe di Mosca hanno cominciato ad arretrare abbandonando una parte importante dei territori ucraini precedentemente occupati.

Secondo il Nyt fu grazie alla collaborazione con Washington che a metà del 2022 gli ucraini riuscirono così a colpire il quartier generale del 58ma unità russa nella regione di Kherson con una salva di missili, uccidendo vari generali e ufficiali di Stato maggiore.

Più a sud, al culmine della controffensiva ucraina del 2022, uno sciame di droni marittimi attaccò, grazie al supporto della Cia, il porto di Sebastopoli, in Crimea, dove la flotta russa del Mar Nero aveva caricato missili destinati a colpire obiettivi ucraini su navi da guerra e sottomarini, riuscendo a danneggiare diversi mezzi navali e spingendo i russi a ritirarli.

Successivamente, tuttavia, la collaborazione si è fatta tesa e il fronte della guerra si è spostato, tra rivalità, risentimenti e strategie divergenti.

Secondo quanto ricostruito dal New York Times, gli ucraini hanno cominciato a mal sopportare la direzione statunitense, man mano che Washington insisteva per colpire obiettivi misurati e raggiungibili mentre le forze di Kiev erano costantemente alla ricerca “della grande vittoria, del premio luminoso e splendente”.

Gli ucraini, inoltre, hanno cominciato a considerare Washington un ostacolo alle loro aspirazioni, puntando a una improbabile vittoria. Man mano che gli ucraini conquistavano una maggiore autonomia hanno mantenuto sempre più segrete le loro intenzioni. Kiev ha inoltre manifestato un crescente risentimento nei confronti degli Stati Uniti per la mancata fornitura di tutte le armi e le attrezzature richieste.

Washington invece si è irritata con Kiev per quelle che considerava richieste irragionevoli e per la contrarietà di Zelensky e del suo entourage ad adottare misure politicamente impopolari, in particolare la leva obbligatoria generalizzata a partire dai 18 anni.

Secondo gli autori dell’inchiesta la svolta, in negativo, per Kiev sarebbe arrivata a metà del 2023, quando gli ucraini hanno lanciato una controffensiva che si è rivelata una catastrofe.

In quel momento, afferma il Nyt, la strategia ideata a Wiesbaden è saltata del tutto a causa soprattutto delle rivalità interne al fronte ucraino, in particolare a quella tra il presidente Zelensky e l’allora capo di Stato maggiore delle Forze armate Valery Zaluzhny, in seguito esonerato.

La decisione di dedicare ingenti forze alla riconquista della città di Bakhmut – situata nel Donetsk – avrebbe provocato un fallimento totale della controffensiva già fondata su presupposti errati.

Anche se Washington ha spesso impedito a Kiev di attaccare il territorio russo in profondità per non suscitare un conflitto diretto della Nato con Mosca, dall’inchiesta emerge che più volte è stato proprio grazie alla direzione e al sostegno statunitense che le forze ucraine hanno sfiorato o anche superato la cosiddetta “linea rossa”.

In più occasioni, infatti, l’amministrazione Biden ha autorizzato operazioni clandestine che in precedenza aveva proibito. I consiglieri militari statunitensi sono stati infatti inviati a Kiev e, in seguito, autorizzati ad avvicinarsi alla linea del fronte, mentre ufficiali militari e della Cia a Wiesbaden hanno aiutato a pianificare e supportare una campagna di attacchi ucraini nella Crimea, annessa alla Federazione Russa nel 2014. Infine, secondo il New York Times, i militari statunitensi e poi la Cia hanno ricevuto il via libera della Casa Bianca per consentire attacchi in profondità all’interno del territorio russo.

La più grave rottura del rapporto di fiducia tra Kiev e Washington si sarebbe verificata nell’agosto del 2024, quando le forze armate ucraine hanno invaso la regione russa di Kursk usando armi statunitensi senza informare l’alleato. Un alto funzionario del Pentagono descrive questa mossa al Nyt come “un ricatto”, in seguito al quale, però, gli Usa scelsero comunque di non interrompere il supporto a Kiev. Quella scelta, afferma un’altra fonte, “avrebbe potuto portare a una catastrofe”: senza la protezione dei razzi Himars e dell’intelligence statunitense, i soldati ucraini sarebbero stati sbaragliati in poco tempo.

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Come la Cina sta affrontando la guerra commerciale degli USA sui chip

Le ultime notizie riguardanti gli sviluppi dell’elettronica cinese ci fanno capire che il Dragone sta investendo ampie risorse per colmare le lacune che ha rispetto agli Stati Uniti nel cruciale campo dei microprocessori e dei chip custom per l’IA (quelli usati appunto nei progetti di frontiera dell’attuale sviluppo tecnologico).

Questa spinta alla ricerca e all’innovazione è stata fondante dell’approccio di Pechino nell’ultimo ventennio, ma ha accelerato con le sanzioni statunitensi degli ultimi anni, che hanno vietato la vendita dei prodotti più sofisticati di Intel, Amd e Nvidia a clienti cinesi. E che, specularmente, hanno costretto le compagnie stelle-e-strisce a crearne versioni depotenziate per non sparire dal lucrativo mercato del gigante asiatico.

Invece di competere direttamente sul terreno dei colossi americani, sembra che le compagnie cinesi si stiano concentrando sullo sviluppo di chip basati su architetture RISC, come Arm e Risc-V, piuttosto che sulla produzione di chip all’avanguardia con architettura x86, come quelli creati da AMD e Intel. È la stessa strada che, parallelamente, ha intrapreso persino Apple negli ultimi anni.

Queste architetture, oltre a essere più semplici da progettare e a garantire una maggiore efficienza energetica, sottostanno a licenze più economiche o sono addirittura libere di essere utilizzate senza alcun costo, come nel caso dell’architettura Risc-V ideata dall’Università di Berkeley.

Sebbene questi processori al momento abbiano delle prestazioni inferiori rispetto a quelle garantite dall’architettura x86, più usata nei computer e nei server, il loro basso consumo energetico permette di sfruttare al massimo il calcolo parallelo, creando chip con centinaia di core, ovvero microprocessori veri e propri, sullo stesso die di silicio.

Per farla più semplice, significa che anche se meno sofisticato, il tipo di chip su cui si sta concentrando la Cina permette, in virtù del ridotto consumo energetico, l’utilizzo contemporaneo di più unità di elaborazione fissate sullo stesso supporto. E, dunque, anche di velocizzare l’esecuzione di un codice, cioè delle ‘istruzioni’ ricevute da un programma quando facciamo una qualsiasi operazione.

I colossi dell’elettronica cinese stanno sviluppando architetture di microproccessori a livello da Data Center, cioè i grandi centri di elaborazione per enormi quantità di dati, sfruttando proprio questo paradigma. Alcuni esempi sono dati dal XuanTie C930 di Alibaba, basato appunto sull’archiutettura Risc-V, o la serie Kunpeng della Huawei, basata sull’architettura Arm.

Oltre quindi a sfruttare architetture già esistenti in maniera innovativa, i ricercatori cinesi stanno investigando nuove tecniche per sviluppare circuiti digitali. In particolare, ad esempio, risulta molto interessante un recente studio di alcuni ricercatori dell’Università di Pechino, pubblicato sull’importante rivista internazionale Science.

Questi ricercatori, infatti, hanno sviluppato un circuito digitale che non è basato su di un semiconduttore, al centro della lotta per l’accaparramento delle materie prime strategiche, ma su dei nanotubi di carbonio capaci di comportarsi come un transistor con tre stati invece che due.

Anche qui, cercando di semplificare, i chip sono costituiti da milioni di ‘interruttori’ – transistor – che amplificano o annullano il passaggio di corrente generando dunque una ‘informazione’ da processare. Fino ad oggi, erano state proprio le caratteristiche dei semiconduttori a permettere di creare dispositivi del genere, ma ora negli atenei cinesi stanno cercando soluzioni alternative.

Inoltre, siamo abituati a pensare, anche solo per le volte che lo abbiamo sentito nei film di fantascienza, che il linguaggio dell’informatica sia fatto da 0 e 1, che sono appunto i due valori che può assumere un transistor, le due informazioni che può generare in base al passaggio o meno di corrente. Passare da due stati a tre stati significa invece non usare più solo i valori di 0 e 1.

Non è una cosa nuova: studi sull’utilizzo di una logica ternaria invece che binaria si susseguono da decenni, e alcuni esperti hanno detto che questa potrebbe aiutare nei computer quantistici. Con questa tecnologia, gli studiosi dell’Università di Pechino hanno già costruito un circuito che è capace, in hardware, di implementare una rete neurale per risolvere una versione molto semplificata di un famoso task di benchmark per modelli di IA ottenendo risultati molto incoraggianti.

Ultima spiegazione: significa, in poche parole, che questo nuovo chip è stato testato e ha mostrato ottimi risultati per ciò che riguarda gli standard necessari all’attuale sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. È ancora lunga la strada per un’applicazione in massa e per la sua commercializzazione, ma questi nanotubi in carbonio palesano il livello di avanzamento delle ricerche cinesi.

Gli esiti della guerra dei chip sono tutt’altro che scontati.

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L’Ucraina costretta a scegliere tra Usa e “Europa”

In una intervista al Financial Times Giorgia Meloni ha liquidato come “infantile” e “superficiale” l’idea che l’Italia debba scegliere tra Stati Uniti ed Europa.

Sarà, ma intanto qualcun altro, già ora, sembra proprio costretto a scegliere tra i due soggetti, ed anche molto rapidamente. Si vede che la faglia atlantica si va allargando molto velocemente, stirando fino alla lacerazione chi prova a tenere i piedi in troppe scarpe.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato venerdì che l’Ucraina non accetterà alcun accordo con gli Stati Uniti sui minerali che possa compromettere il suo percorso di adesione all’Unione Europea.

“La Costituzione dell’Ucraina stabilisce chiaramente che la nostra direzione è verso l’UE... Ci sono riforme molto importanti e passi corrispondenti da compiere”, ha detto Zelensky durante una conferenza stampa a Kiev venerdì sera. “Niente che possa mettere in pericolo... l’adesione dell’Ucraina all’UE può essere accettato”.

In effetti, obbedendo allo scopo per cui esistono, ossia andare a vedere cosa c’è scritto negli accordi di carattere economico, Bloomberg e il Financial Times hanno riportato la nuova proposta di Washington a Kiev sullo sfruttamento delle risorse minerarie, che concederebbe agli Stati Uniti l’accesso a petrolio, gas e minerali ucraini attraverso un fondo d’investimento congiunto, dividendo i ricavi tra i due paesi.

In pratica, una vera e propria “invasione” dell’Ucraina da parte statunitense, realizzata acquisendo di default la metà delle entrate minerarie del paese, peraltro una delle poche risorse – insieme al grano – che potranno garantire una futura ricostruzione non dipendente solo dagli aiuti o dai prestiti esteri.

Zelensky ha confermato che Kiev ha ricevuto ufficialmente una nuova bozza dell’accordo da Washington, contenente “molte nuove disposizioni non discusse in precedenza” e “alcuni aspetti già respinti da entrambe le parti”, secondo i media ucraini. Si deve notare lo stile “israeliano” dell’amministrazione Usa, che prima stringe un accordo e poi cambia unilateralmente le condizioni a proprio favore...

E visto che da sola la junta di Kiev non sarebbe in grado di opporsi al diktat della Casa Bianca, ecco entrare in campo l’“altro forno” del sostegno alla guerra, l’Unione Europea.

La Commissione Europea valuterà il testo, che potrebbe garantire un trattamento preferenziale alle aziende americane, una volta che ci sarà un “accordo concreto, nero su bianco”, ha detto venerdì Paula Pinho, portavoce capo della Commissione.

“Un tale accordo dovrebbe essere esaminato nell’ottica delle relazioni tra Ucraina e UE, in particolare per quanto riguarda i negoziati di adesione”, ha aggiunto Pinho.

Evidente il cul de sac in cui si è infilato Zelenskij con la sua linea molto cinematografica ma per nulla realistica (“guerra fino alla vittoria, nessuna trattativa con la Russia”).

Se straccia il contratto con Trump si condanna a perder molto se non tutto dell’apporto Usa (basta pensare all’intelligence satellitare...), se lo conferma perde il sostegno dell’Unione Europea – o per lo meno dei “volenterosi” – che sono gli unici pazzi a condividere la sua linea.

Un capolavoro, no?

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“Bombardate tutto”: l’inchiesta che inchioda Netanyahu

Nei primi giorni dell’”Operazione Spade di Ferro”, iniziata il 7 ottobre 2023 in risposta all’attacco di Hamas, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato al capo delle forze armate israeliane di colpire migliaia di obiettivi senza informazioni di intelligence, inclusi edifici residenziali. A svelarlo è un’inchiesta del giornalista Nahum Barnea per Ynet, versione online di Yedioth Ahronoth, uno dei principali quotidiani in lingua ebraica di Israele. Secondo quanto raccontato dal giornale israeliano, durante una riunione del 9 ottobre 2023 l’ex capo di stato maggiore dell’IDF, Herzi Halevi, ha riferito a Netanyahu che l’esercito stava già bombardando 1.500 obiettivi al giorno.

A quel punto, secondo tale ricostruzione, Bibi, battendo il pugno sul tavolo, avrebbe replicato al “suo generale”: “Perché non 5.000?”. Quando gli è stato riferito che l’IDF non disponeva dell’intelligence necessaria per un numero così elevato di attacchi, Netanyahu ha risposto: “Non mi interessano gli obiettivi. Buttate giù case, bombardate con tutto quello che avete”.

L’inchiesta che inchioda il premier israeliano

L’inchiesta esclusiva di Ynet arriva dopo che la rivista 972 Magazine ha rivelato che l’IDF utilizzava un programma di intelligenza artificiale chiamato Lavender per classificare i palestinesi come membri di Hamas. Questo sistema aumentava il numero di obiettivi generati, con una fonte che spiegava come i risultati dell’IA venissero trattati “come se fossero una decisione umana”. In totale, 37.000 palestinesi sono finiti nella lista di obiettivi di Lavender, molti dei quali uccisi nelle loro case insieme a decine di familiari.

Le fonti hanno raccontato di aver modificato i parametri del programma per aggiungere ulteriori nomi alla lista. “Un giorno, di mia iniziativa, ho aggiunto circa 1.200 nuovi obiettivi al sistema di tracciamento, perché il numero di attacchi era diminuito”, ha dichiarato una fonte. “Mi sembrava sensato. Col senno di poi, sembra una decisione grave, presa senza l’approvazione dei livelli superiori”.

Pronta una nuova invasione di Gaza

Dopo il collasso della tregua e del cessate il fuoco, in pochi giorni, i bombardamenti israeliani hanno causato la morte di oltre 700 persone. Almeno 200 bambini sono stati uccisi a Gaza da quando Israele ha ripreso la guerra nell’enclave questa settimana, secondo Rosalia Paulin, portavoce di Unicef a Gaza. Secondo un report del Washington Post del 23 marzo, che cita fonti israeliane, Tel Aviv starebbe pianificando una nuova invasione della Striscia di Gaza, con l’IDF pronta a prendere il controllo diretto dell’assistenza umanitaria.

Secondo il Washington Post, le nuove tattiche israeliane includeranno, oltre al controllo militare degli aiuti, attacchi mirati alla leadership civile di Hamas e l’evacuazione di donne, bambini e non combattenti in “bolle umanitarie”, mentre chi resta subirà un assedio ancora più duro, simile al “piano dei generali” del 2024 per il Nord di Gaza, che prevedeva l’evacuazione totale dei civili a Sud del Corridoio Netzarim o la loro eliminazione come combattenti tramite fame o azioni militari.

Un approccio se possibile ancora più brutale che rifletterebbe un cambio nella leadership dell’IDF – con Eyal Zamir che ha sostituito Herzi Halevi – e l’appoggio deciso del presidente statunitense Donald Trump, che ha garantito a Tel Aviv munizioni e pieno appoggio politico. L’ex comandante Amir Avivi ha sottolineato che, con le missioni al Nord concluse, l’IDF si concentrerà su Gaza con un attacco su vasta scala per “eradicare Hamas completamente”. Il che significa, nel concreto, il rischio di una mattanza di civili.

Secondo il Premio Pulitzer Chris Hedges, si tratta dell’ultima fase del genocidio israeliano a Gaza, un’operazione finale che vuole costringere i palestinesi a scegliere tra morte e deportazione, eliminando ogni altra opzione. Hedges paragona questa strategia all’uccisione dei nativi americani dopo Little Bighorn nel 1876, prevedendo per i gazawi un destino di espulsione e miseria, supportato dall’Occidente e da un Israele che, sotto Netanyahu e Katz, abbandona ogni finzione umanitaria per perseguire l’eradicazione di Hamas e l’annessione di Gaza.

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Alle destre saltano i nervi? È un’ottima notizia. Ma il vero problema si chiama PD

I grevi insulti di Giovanni Donzelli all’indirizzo dell’ottimo giornalista del Fatto Giacomo Salvini sono a mio avviso davvero un’ottima notizia. Essi infatti rivelano in modo innegabile lo stato di estrema irritabilità delle destre che sono al governo in Italia. Costoro sono evidentemente consapevoli della loro estrema inadeguatezza, per usare un eufemismo, dato che mai l’Italia ha avuto una classe dirigente di così basso livello culturale ed intellettuale.

Ma il segreto del successo della cara Giorgia e della sua banda di sciamannati accoliti, nel loro intimo sempre fedeli al fascismo, oggi declinato in modo consono alla modernità del capitalismo occidentale neoliberista in crisi preagonica, ha un nome e un cognome. Esso si chiama Partito Democratico.

Tale Partito infatti, con la sua stessa esistenza, scredita ogni giorno agli occhi delle masse la stessa idea di ogni possibile alternativa. Dall’estremo e inappetibile grigiore delle sue posizioni contraddittorie, emerge da un lato una sorda e profonda incomprensione, se non aperta ostilità, alle ragioni del popolo lavoratore, e dall’altro la totale disponibilità ad appecoronarsi di fronte ai comandi del capitale, che oggi vuole riarmo e guerra.

La povera Schlein, che in fondo sembra una brava persona, si arrabatta per cercare di mostrare un’immagine migliore, ma è a tutti evidente cone quel Partito sia in mano a oscuri e impresentabili personaggi di potere, i quali, in mancanza del carisma necessario ad assumerne la leadership, tramano più o meno nell’ombra per assecondare i diktat del capitale finanziario, oggi rovinosamente proiettato verso la guerra mondiale come estremo destino dell’incontenibile decadenza dell’Occidente imperiale.

La piazza del Popolo del 15 marzo, indebitamente finanziata dal Comune coi soldi dei contribuenti, me compreso, ha mostrato a tutti quale sia il vergognoso abisso culturale in cui boccheggiano i cantori della sedicente civiltà europea.

Basti citare il peana di Vecchioni, che ha tentato di esaltare, con una serie di nomi importanti buttati lí più o meno a caso, la presunta supremazia della cultura europea ed occidentale. O le davvero oscene perorazioni di Scurati a favore dello spirito guerriero, mentre la Litizzetto si fa tristemente beffa di chi in guerra o comunque nell’espletamento dei doveri militari è morto sul serio e Landini, anziché occuparsi dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, fa la ola a tanta immondizia.

Perché quindi stupirsi del fatto che Giorgia e i suoi sodali continuino a restare al governo, nonostante ogni giorno emergano nuovi scandali ed appaiano nuovi fallimenti?

Il nuovo corso di Trump, se da un lato sfoggia senza pudore tutto l’armamentario razzista, suprematista e colonialista che caratterizza il crepuscolo dell’Occidente, dall’altro dimostra un certo realismo. Trump vuole l’accordo con Putin per poter dedicare tutte le sue energie alla costruzione della sua incrollabile egemonia nel campo occidentale, appoggiando fra l’altro senza esitazione l’annientamento del popolo palestinese, mentre Netanyahu eleva a campioni della lotta contro l’antisemitismo i peggiori elementi della destra fascista europea e mondiale, diretti discendenti dei protagonisti dell’Olocausto contro il popolo ebraico.

La svolta politica di Trump offre un’occasione d’oro a chiunque voglia seriamente emanciparsi dal dominio statunitense. Ma non certo i quaquaraquà alla Macron, von der Leyen, Gentiloni. Non certo chi propone la via del riarmo europeo per far fronte a minacce del tutto immaginarie. Non certo chi continua a ritenere che esista una superiorità innata della cultura europea e occidentale e non dice una parola sui secoli di colonialismo, genocidi e sfruttamento di cui l’Europa si è resa protagonista.

Esiste in Italia una forza politica in grado di farsi carico della necessaria alternativa alle forze della guerra? Che sappia ritrovare la continuità coi momenti migliori della storia italiana ed europea? Che sappia costruire un rapporto costruttivo, cooperativo e fraterno col resto del mondo, in particolare Cina, Russia e America latina? Che sappia dire una parola chiara di condanna del genocidio del popolo palestinese e dei suoi complici, compresa la signora Meloni e i suoi ministri, contro i quali presenteremo presto una denuncia alla Corte penale internazionale, data l’inaccettabile sordità fin qui dimostrata dalla Procura di Roma?

Bisogna augurarsi che tale forza politica possa nascere a breve e lo vedremo fin dall’inizio di aprile. Il popolo italiano ha la sua memoria storica e non vuole riarmo e guerra. Mio nonno e i miei zii fecero la guerra in patria, in Africa e in Russia.

Mio padre dovette fare la guerra, ma la terminó da partigiano. Sappiano lorsignori che le generazioni successive, a partire dalla mia, pullulano di partigiani in difesa dei principi incrollabili affermati dalla Costituzione della Repubblica nata dalla Resistenza di cui celebreremo tra poco l’ottantesimo anniversario. Nonostante il PD.

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L’Antitrust cinese blocca la vendita dei porti sul Canale di Panama

A inizio marzo era arrivata la notizia che una cordata guidata da BlackRock, a cui partecipa anche l’imprenditore italiano Aponte e la sua MSC, avevano chiuso un accordo per rilevare il 90% di Panama Ports. In questo modo, i due (dei cinque) porti agli estremi del Canale di Panama gestiti dalla società CK Hutchison Holdings, con sede a Hong Kong, sarebbero finiti sotto controllo statunitense.

Il 28 marzo, però, quella che è l’Antitrust di Pechino ha fatto sapere di aver avviato un’indagine sull’intesa “in conformità con la legge per proteggere la concorrenza leale nel mercato e salvaguardare l’interesse pubblico”. Il South China Morning Post ha riportato che una fonte vicina alla CK Hutchinson ha confermato che non firmerà l’accordo il prossimo 2 aprile.

Su Ta Kung Pao, quotidiano di Hong Kong, nemmeno dieci giorni fa veniva scritto in un editoriale che la transazione doveva essere fermata, poiché si presentava come una mossa in “perfetta collaborazione” con la strategia anti-cinese degli USA. La contrarietà del governo cinese ha portato anche a una significativa perdita di valore delle azioni della CK Hutchinson.

I porti all’ingresso e all’uscita del Canale non hanno un diretto controllo sulla via d’acqua, ma sono comunque infrastrutture poste in posizioni strategiche. Così come lo sono gli altri 43 porti e 199 attracchi, distribuiti tra 23 paesi, di cui CK Hutchinson cederebbe il controllo alla cordata guidata da BlackRock.

Per Washington significherebbe dunque mettere le mani su importanti snodi del commercio mondiale, e soprattutto poter vantare di aver inferto un duro colpo al nemico strategico cinese. Inoltre, ciò si sommerebbere alla volontà espressa dal presidente panamense di non rinnovare l’adesione alla Nuova Via della Seta.

L’apertura di questa indagine e il rinvio della chiusura dell’accordo rappresenta invece una evidente reazione del Dragone alla postura aggressiva della Casa Bianca. La Cina dimostra che non è disposta ad accettare ricatti, e ha gli strumenti per contrastare l’azione statunitense.

Non può inoltre passare inosservato che la vendita delle sussidiarie di CK Hutchinson doveva arrivare il 2 aprile, ovvero lo stesso giorno dell’introduzione dei dazi decisi dall’amministrazione Trump, imposte anche sulle merci cinesi. Il tycoon aveva detto che avrebbe valutato flessibilità sulle gabelle se ByteDance avesse venduto le attività di TikTok negli States a una società non cinese.

Pechino ha respinto l’offerta e ora risponde anche sul dossier di Panama. Bisognerà mantenere alta l’attenzione, poiché Trump non aveva escluso l’intervento militare, e ora questa opzione potrebbe tornare tra le ipotesi papabili ora che la Cina mostra di non voler sottostare ai ricatti stelle-e-strisce.

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30/03/2025

Robots (2005) di Chris Wedge, Carlos Saldanha - Minirece

L’ultimo capitolo del genocidio

Questo è l’ultimo capitolo del Genocidio. È l’ultima, sanguinosa spinta per cacciare i palestinesi da Gaza. Niente cibo. Niente medicine. Niente riparo. Niente acqua pulita. Niente elettricità. Israele sta rapidamente trasformando Gaza in un Girone dantesco di miseria umana dove i palestinesi vengono uccisi a centinaia e velocemente, di nuovo, a migliaia e decine di migliaia, o saranno costretti ad andarsene per non tornare mai più.

L’ultimo capitolo segna la fine delle bugie israeliane. La bugia della Soluzione dei “Due Stati”. La bugia che Israele rispetta le leggi di guerra che proteggono i civili. La bugia che Israele bombarda ospedali e scuole solo perché vengono usati come rifugi da Hamas.

La bugia che Hamas usa i civili come scudi umani, mentre Israele costringe sistematicamente i palestinesi prigionieri a entrare in tunnel e edifici potenzialmente pieni di trappole prima delle truppe israeliane.

La bugia che Hamas o la Jihad Islamica Palestinese sono responsabili (l’accusa è spesso quella di lancio di razzi) della distruzione di ospedali, edifici delle Nazioni Unite o Uccisione di Massa di palestinesi. La bugia che gli aiuti umanitari a Gaza sono bloccati perché Hamas sta dirottando i camion o contrabbandando armi e materiale bellico.

La bugia che i bambini israeliani vengono decapitati o che i palestinesi hanno compiuto stupri di massa di donne israeliane. La bugia che il 75% delle decine di migliaia di persone uccise a Gaza erano “terroristi” di Hamas. La bugia che Hamas, poiché si presumeva stesse riarmando e reclutando nuovi combattenti, è responsabile della rottura dell’accordo di cessate il fuoco.

Il volto Genocida di Israele è a nudo.

Ha ordinato l’evacuazione della parte settentrionale di Gaza dove palestinesi disperati sono accampati tra le macerie delle loro case. Ciò che sta per arrivare è una Carestia di Massa: l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) ha dichiarato il 21 marzo di avere ancora sei giorni di scorte di farina, morti per malattie causate da acqua e cibo contaminati, decine di morti e feriti ogni giorno sotto l’implacabile assalto di bombe, missili, fuoco di carri armati e proiettili di artiglieria.

Niente funzionerà, panetterie, impianti di trattamento delle acque e fognature, ospedali (Israele ha fatto saltare in aria l’Ospedale Turco-Palestinese danneggiandolo il 21 marzo), scuole, centri di distribuzione degli aiuti o cliniche. Meno della metà dei 53 veicoli di emergenza gestiti dalla Mezzaluna Rossa Palestinese sono funzionanti a causa della carenza di carburante. Presto non ce ne sarà più nessuno.

Il messaggio di Israele è inequivocabile: Gaza sarà inabitabile. Andatevene o morite.

Da martedì, quando Israele ha rotto il cessate il fuoco con pesanti bombardamenti, sono stati uccisi oltre 700 palestinesi, tra cui 200 bambini. In un periodo di 24 ore sono stati uccisi 400 palestinesi.

Questo è solo l’inizio. Nessuna potenza occidentale, compresi gli Stati Uniti, che forniscono le armi per il Genocidio, intende fermarlo. Le immagini da Gaza durante i quasi sedici mesi di attacchi incessanti erano orribili. Ma ciò che sta arrivando ora sarà peggio. Rivaleggerà con i Crimini di Guerra più atroci del ventesimo secolo, tra cui la Carestia di Massa, il Massacro, e la distruzione del Ghetto di Varsavia nel 1943 da parte dei Nazisti.

Il 7 ottobre ha segnato la linea di demarcazione tra una politica israeliana che sosteneva la Brutalizzazione e la Sottomissione dei palestinesi e una politica che ne richiedeva lo Sterminio e l’allontanamento dalla Palestina Storica.

Ciò a cui stiamo assistendo è l’equivalente storico del momento innescato dall’annientamento di circa 200 soldati guidati da George Armstrong Custer nel giugno 1876 nella Battaglia di Little Bighorn. Dopo quella sconfitta umiliante, i nativi americani erano destinati a essere uccisi e i superstiti costretti nei campi di prigionia, in seguito denominati Riserve, dove migliaia di persone morirono di malattia, vissero sotto lo sguardo spietato dei loro occupanti armati e caddero in una vita di miseria e disperazione.

Aspettatevi lo stesso per i palestinesi di Gaza, abbandonati, sospetto, in uno degli inferni del mondo e dimenticati.

“Abitanti di Gaza, questo è il nostro ultimo avvertimento“, ha minacciato il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz: “La prima guerra del Sinwar distrusse Gaza e la seconda guerra del Sinwar la distruggerà completamente. Gli attacchi dell’Aviazione Militare contro i terroristi di Hamas sono stati solo il primo passo. Diventerà molto più difficile e ne pagheranno il prezzo per intero. L’evacuazione della popolazione dalle zone di combattimento ricomincerà presto. Restituite gli ostaggi e rimuovete Hamas e altre opzioni si apriranno per voi, inclusa la partenza per altri posti nel mondo per coloro che lo desiderano. L’alternativa è la distruzione assoluta“.

L’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas è stato progettato per essere implementato in tre fasi.

La prima fase, della durata di 42 giorni, avrebbe visto la fine delle ostilità. Hamas avrebbe rilasciato 33 ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre 2023, tra cui donne, persone di età superiore ai 50 anni e persone malate, in cambio di oltre 2.000 uomini, donne e bambini palestinesi imprigionati da Israele (circa 1.900 prigionieri palestinesi sono stati rilasciati da Israele al 18 marzo).

Hamas ha rilasciato un totale di 147 ostaggi, di cui otto morti. Israele afferma che ci sono 59 israeliani ancora trattenuti da Hamas, 35 dei quali Israele ritiene siano deceduti.

L’esercito israeliano avrebbe dovuto ritirarsi dalle aree popolate di Gaza il primo giorno del cessate il fuoco. Il settimo giorno, ai palestinesi sfollati sarebbe stato consentito di tornare nel Nord di Gaza. Israele avrebbe consentito a 600 camion di aiuti con cibo e forniture mediche di entrare a Gaza ogni giorno.

La seconda fase, che si prevedeva sarebbe stata negoziata il sedicesimo giorno del cessate il fuoco, contemplava il rilascio degli ostaggi israeliani rimanenti. Israele si sarebbe ritirato da Gaza mantenendo una presenza in alcune parti del Corridoio Filadelfia, che si estende lungo il confine di otto miglia tra Gaza ed Egitto, rinunciando al suo controllo del valico di frontiera di Rafah verso l’Egitto.

Nella terza fase si sarebbero avviati negoziati per una fine permanente della guerra e la ricostruzione di Gaza.

Israele firma abitualmente accordi, tra cui gli Accordi di Camp David e gli Accordi di pace di Oslo, con calendari e fasi. Ottiene ciò che vuole, in questo caso il rilascio degli ostaggi, nella prima fase e poi viola le fasi successive. Questo schema non è mai stato interrotto.

Israele ha rifiutato di onorare la seconda fase dell’accordo. Ha bloccato gli aiuti umanitari a Gaza due settimane fa, violando l’accordo. Ha anche ucciso almeno 137 palestinesi durante la prima fase del cessate il fuoco, tra cui nove persone, tre delle quali giornalisti, quando i droni israeliani hanno attaccato una squadra di soccorso il 15 marzo a Beit Lahiya nel Nord di Gaza

I pesanti attacchi di bombardamento di Gaza da parte di Israele sono ripresi il 18 marzo mentre la maggior parte dei palestinesi dormiva o preparava il suhoor, il pasto consumato prima dell’alba durante il mese sacro del Ramadan. Israele non fermerà i suoi attacchi ora, anche se gli ostaggi rimanenti verranno liberati, presunta ragione di Israele per la ripresa dei bombardamenti e dell’assedio di Gaza.

La Casa Bianca di Trump applaude al Massacro. Attaccano i critici del Genocidio come “antisemiti” che dovrebbero essere messi a tacere, criminalizzati o deportati mentre incanalano miliardi di dollari in armi verso Israele.

L’assalto Genocida di Israele a Gaza è l’inevitabile epilogo del suo Progetto Coloniale di Coloni e dello Stato di Apartheid. La conquista di tutta la Palestina Storica, con la Cisgiordania che presto, mi aspetto, sarà annessa da Israele, e lo sfollamento di tutti i palestinesi è sempre stato l’obiettivo Sionista.

I peggiori eccessi di Israele si sono verificati durante le guerre del 1948 e del 1967, quando vaste parti della Palestina Storica furono conquistate, migliaia di palestinesi uccisi e centinaia di migliaia furono sottoposti a Pulizia Etnica. Tra queste guerre, il furto di terre progressivo, gli assalti omicidi e la costante Pulizia Etnica in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, sono continuati.

Quella danza calibrata è finita. Questa è la fine. Ciò a cui stiamo assistendo eclissa tutti gli attacchi storici ai palestinesi. Il folle Sogno Genocida di Israele, un incubo palestinese, sta per realizzarsi. Distruggerà per sempre il mito che noi, o qualsiasi nazione occidentale, rispettiamo lo Stato di Diritto o siamo i protettori dei Diritti Umani, della Democrazia e delle cosiddette “virtù” della civiltà occidentale. La Barbarie di Israele è la nostra Barbarie. Potremmo non capirlo, ma il resto del mondo sì.

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Un altro arresto per le opinioni antisioniste nelle università statunitensi

Lo scorso martedì una cittadina turca, Rumeysa Ozturk, è stata arrestata a Sommerville, nel Massachusetts, mentre si recava a un evento per la conclusione del mese di Ramadan. La trentenne è una dottoranda della TUFTS University, uno dei più importanti atenei del New England, e il Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti (DHS) afferma che abbia “intrapreso attività a sostegno di Hamas”.

Tuttavia, come ha fatto presente alla CNN il suo avvocato, non è stata ancora presentata alcuna accusa formale. Sembra che la vicenda di Ozturk stia seguendo lo stesso copione di quella di Mahmoud Khalil, imprigionato all’inizio di marzo. In questo momento, entrambi si trovano in una struttura dell’Immigration and Customs Enforcement in Louisiana.

Le condizioni in cui sono tenuti sono criminali, e mostrano la misura della millantata civiltà occidentale. Altrettanto preoccupanti sono le modalità con cui Ozturk è stata prelevata dalle forze dell’ordine: sei agenti in borghese hanno circondato la donna, uno di questi l’ha presa per un braccio, mentre solo in quel momento hanno mostrato i distintivi, coprendosi però il volto.

Sembra di racconta un’operazione speciale da ‘teste di cuoio’ per la cattura di un pericoloso mafioso o un intervento finalizzato a sventare un atto terroristico. Proprio questo vogliono suggerire le forze di sicurezza: John Miller, analista della CNN, ha chiesto al DHS come mai di queste modalità, e il DHS ha risposto che è per proteggere i poliziotti dai “simpatizzanti dei terroristi”.

Parliamo di un’accademica, quasi alla fine del proprio percorso dottorale, che a quanto pare ha avuto come unica colpa quella di scrivere un articolo di critica sul genocidio perpetrato dagli israeliani. Infatti, il Segretario di Stato Marco Rubio, chiamato a rispondere ad alcune domande sul caso, ha affermato che la donna fosse coinvolta nelle proteste studentesche contro le operazioni militari israeliane a Gaza, senza portare prove.

Tolto il fatto che poter esprimere il proprio dissenso in piazza è la cartina tornasole dello stato di salute di una democrazia – che lascia a desiderare anche su questa sponda dell’Atlantico – l’atto davvero scatenante di tutta la vicenda sembra essere l’aver co-firmato un editoriale sul giornale dell’università, nel marzo 2024, in cui criticava i vertici dell’ateneo e i crimini israeliani.

Ozturk è l’ennesima vittima delle misure che l’amministrazione Trump sta adottando da una parte per rispettare le sue promesse elettorali riguardo al pugno duro da usare nei confronti degli immigrati, dall’altra per compiacere la lobby sionista che influenza profondamente sia il partito repubblicano sia il partito democratico.

Nei campus statunitensi si assiste a una pesante repressione degli studenti che hanno partecipato ed animato le proteste per la rottura del sostegno a Israele e dei legami degli atenei con il complesso militare-industriale. Proteste che hanno raggiunto un livello di diffusione e di coscienza politica che ha preoccupato alcuni dei settori più reazionari della società stelle-e-strisce.

Affibbiando l’accusa di terrorismo con estrema facilità e usando la stringente normativa statunitense sull’immigrazione, il secondo mandato Trump si sta caratterizzando per una vera e propria caccia alle streghe. Lo stesso Rubio ha confermato che i visti per studio revocati “potrebbero essere più di 300 a questo punto”.

Il governo turco sta monitorando il caso, mentre sono già partite le proteste di piazza in solidarietà di Ozturk, chiedendone la liberazione.

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Il debito degli Stati Uniti supererà il picco del dopoguerra nei prossimi anni

Ben pochi opinion maker hanno fin qui evidenziato le ragioni banalmente finanziarie del “ciclone Trump” sulla politica complessiva degli Stati Uniti – sia quella estera che quella interna – preferendo raccontarci quant’è “immorale” , cinico, reazionario, scortese, diplomaticamente rozzo, ecc. Insomma, un vero affarista senza scrupoli, uguale alle altre migliaia che si comportano in egual modo fuori dall’occhio dei riflettori.

Il Financial Times, che per specializzazione editoriale deve invece occuparsi delle faccende politiche da un punto di vista meno moraleggiante, coglie finalmente il punto: il debito pubblico federale (quello dello Stato centrale) è fuori controllo e segna nuovi record ogni giorno che passa.

Fin qui il problema è stato in parte ignorato, in parte affrontato manovrando il dollaro e i tassi di interesse (la moneta Usa è l’unica al mondo che funzioni da unità di misura dei prezzi internazionali, moneta di riserva, mezzo di pagamento universale, ecc., pur essendo “stampata” da un governo nazionale al di fuori da qualsiasi legame con un “sottostante” fisico, dal 1971 ad oggi).

Ma visto che l’entità di questo debito cresce “fisiologicamente”, va sommato a quello dei 50 Stati che compongono la Federazione, oltre che a quello privato dei singoli cittadini (uno dei più elevati al mondo), allo squilibrio sistematico della bilancia commerciale con il resto del mondo (gli Usa sono il “consumatore di ultima istanza”), non è più possibile andare avanti facendo finta di essere sani.

Per capirci, con i “parametri” attuali gli Stati Uniti non potrebbero chiedere di esser ammessi nell’Unione Europea... È una battuta paradossale, chiaramente, ma rende l’idea di un mostro malato di proporzioni gigantesche che si aggira per il pianeta calpestando qua e là e sempre a rischio di stramazzare al suolo.

La situazione rischia oltretutto di peggiorare rapidamente, in prospettiva, visto che l’amministrazione Trump (come tutte quelle precedenti) ha in programma la riduzione delle tasse per i ricchi e per le imprese, addirittura fino al 15% (molto meno dell’aliquota minima di un lavoratore dipendente in Italia). Il che aprirebbe voragini ulteriori in un ghiacciaio solcato da profondi crepacci.

Al momento, dalla serie di “ordini esecutivi” già firmati da Trump, emerge la chiara intenzione di ridurre il debito pubblico federale in due modi: i dazi sulle importazioni e i tagli alla spesa pubblica. Dei dazi abbiamo già parlato, anche se bisognerà tornarci sopra, evidenziando il rischio di produrre effetti incontrollabili nell’economia globale, tali da vanificare in gran parte anche le attese di maggiori entrate fiscali da essi derivanti.

L’altra strada è altrettanto classica – tagli alla spesa pubblica – e generatrice forse di problemi anche più grandi di quel che vorrebbe risolvere. Leggiamo a spizzichi e bocconi, nelle cronache, che sono stati tagliati i fondi a tutti i programmi pubblici di “diversità e inclusione”, come se fosse questa la fetta principale.

È passato quasi sotto silenzio, sui media internazionali, lo stop improvviso e prolungato al programma UsAid, uno degli strumenti principali del “soft power” statunitense, motore di tutte le “rivoluzioni colorate” e di tutti i finanziamenti alle “opposizioni” in vari paesi non allineati con Washington. Ma anche di programmi devastanti come la sterilizzazione femminile – forzata o mascherata – in alcuni paesi del “Terzo Mondo”.

Qualcuno si è persino accorto che è stato azzerato il Dipartimento dell’Istruzione (il “ministero”), lasciando tutto l’onere di formazione delle prossime generazioni ai singoli stati e soprattutto alla capacità dei portafogli familiari (con ovvie profonde differenze di classe).

Quasi silenzio di tomba, invece, sul drastico taglio alla spesa pluriennale del Pentagono (80 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni), ovvero alla spesa militare, pilastro centrale – dopo il dollaro – del potere statunitense sul mondo.

Sorprendente, no? L’amministrazione più fascista della storia nordamericana si taglia da sola gli artigli perché costretta a risparmiare... Il contrario di quel che è sempre avvenuto e, paradossalmente, il contrario di quel che l’Unione Europea viene indotta a fare (aumentare la spesa militare per “compensare” il ridotto impegno Usa nel Vecchio Continente).

Di qui, crediamo, i molti rovesciamenti “culturali” cui assistiamo ogni giorno, secondo i quali “la guerra è ‘di sinistra’ e la pace è di destra”...

Una volta almeno “nominate” le ragioni strutturali delle “scelte sorprendenti” dell’amministrazione Trump diventa forse meno misterioso il comportamento lunatico della sua scombiccherata squadra governativa, abbandonando gli schemi di lettura “moralistici” tanto cari all’establishment “dem”, che occultano da sempre le peggiori politiche guerrafondaie e di rapina.

Cadono i veli e si può guardare il mostro per quel che è. “Ci prenderemo la Groenlandia perché ci serve”, così, senza tanti giri di parole sui “diritti umani” o la “democrazia”. “Vogliamo il Canale di Panama” e “faremo del Canada il 51° stato Usa”, anche se ai canadesi non va. Ma, se si va a guardare con più attenzione, si vede che questa maggiore aggressività – proprio perché accoppiata a una riduzione drastica della spesa militare – si va concentrando su un’area molto più ristretta, invece che sull’intero Pianeta.

Questo non implica, ovviamente, che gli Usa rinuncino a muover guerra contro chiunque se “nel loro interesse strategico”. Ma mettono da parte l’illusione di poter governare il mondo e al tempo stesso frantumano la maschera “progressista” del loro dominio imperiale, quella che si permetteva di definire “umanitarie” le guerre di rapina condotte contro paesi troppo più deboli ma comunque fuori dal loro comando (lista lunghissima: Grenada, Somalia, Jugoslavia, due volte l’Iraq, Libia, Afghanistan, più bombardamenti e missioni in Somalia, Siria, Niger, Africa, Pakistan; fino all’Ucraina, naturalmente).

Stiamo entrando in un altro mondo. E si combatte più razionalmente contro un nemico senza maschera---

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L’onere del debito federale degli Stati Uniti è destinato a superare il picco raggiunto dopo la seconda guerra mondiale nei prossimi anni, ha avvertito l’organo di vigilanza fiscale del Congresso, sottolineando le crescenti preoccupazioni per le finanze pubbliche americane.

L’Ufficio Bilancio del Congresso (CBO) ha dichiarato giovedì che il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti raggiungerà il 107% durante l’anno fiscale 2029 – superando il picco degli anni ’40 – e continuerà a salire fino al 156% entro il 2055. Per l’anno fiscale 2025, il rapporto debito/PIL è previsto al 100%.

Queste proiezioni arrivano pochi giorni dopo che Moody’s ha lanciato un avvertimento sulla sostenibilità della posizione fiscale degli Stati Uniti, affermando che i dazi commerciali del presidente Donald Trump potrebbero compromettere i tentativi di tenere sotto controllo il grande deficit federale, aumentando i tassi di interesse.

“L’aumento del debito rallenterebbe la crescita economica, farebbe salire i pagamenti degli interessi verso i detentori stranieri del debito americano e comporterebbe rischi significativi per le prospettive fiscali ed economiche; potrebbe anche limitare le scelte politiche dei legislatori”, ha detto il CBO giovedì.



Nonostante l’entità dell’aumento del debito, il tasso di crescita dovrebbe essere meno drastico rispetto alle previsioni di un anno fa, grazie alle ipotesi del CBO di tassi di interesse più bassi, minori spese per Medicare e maggiori entrate.

L’amministrazione Trump e le tasse

L’amministrazione Trump ha promesso di trovare margine fiscale per mantenere la promessa elettorale di tagli fiscali sostanziali per imprese e famiglie. Trump ha incaricato il miliardario della tecnologia Elon Musk di trovare 2.000 miliardi di dollari di tagli alla spesa federale entro la metà del prossimo anno, mentre il presidente cerca di rinnovare i tagli alle tasse introdotti nel 2017 durante il suo primo mandato.

Il presidente ha anche sollevato la possibilità di ridurre l’aliquota fiscale sulle società per le attività domestiche dal 21% al 15%. I calcoli del CBO non tengono conto dell’impatto di un eventuale prolungamento dei tagli fiscali di Trump – una mossa che, secondo l’organo di vigilanza la scorsa settimana, aggiungerebbe 47 punti percentuali al rapporto debito/PIL degli Stati Uniti entro il 2054.

L’amministrazione Trump ritiene che le entrate derivanti dai dazi possano colmare il vuoto lasciato dal calo delle entrate fiscali su redditi e società. Tuttavia, economisti del Peterson Institute, un think tank di Washington, hanno contestato l’idea che queste imposte commerciali possano compensare la potenziale perdita di migliaia di miliardi di dollari di entrate fiscali.


Deficit persistenti

Il governo federale degli Stati Uniti ha registrato deficit sostanziali ogni anno dalla pandemia, con uscite superiori alle entrate del 6,4% del PIL lo scorso anno. Il CBO ha affermato che i deficit probabilmente rimarranno elevati, salendo al 7,3% entro il 2055 – leggermente inferiori rispetto alle previsioni di marzo 2024.

I calcoli presuppongono che la crescita a lungo termine degli Stati Uniti sarà leggermente inferiore alle attese di un anno fa. Il CBO ritiene che la crescita più lenta sia in gran parte dovuta a un calo dell’immigrazione, con la popolazione americana destinata a iniziare a ridursi nel 2033.

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La Cina progredisce sui chip e sfida le restrizioni

Tra gli anni ’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione del lavoro su scala planetaria. La specializzazione di distretti industriali e aree economiche nelle attività in cui ciascuna godeva dei maggiori “vantaggi comparati” (in termini di sviluppo, risorse, lavoro o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione tecnologica degli ultimi decenni.

La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive, spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali.

Il modello delle foundry, le fabless e la divisione del lavoro

Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato, quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore” (ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip raddoppia ogni due anni).

Sui presupposti di questa divisione del lavoro è nato addirittura un nuovo modello di azienda: le cosiddette “fabless”. Scaricate interamente dai costi fissi, le “fabless” non possiedono stabilimenti di produzione e si occupano soltanto dell’ideazione di nuovi chip sempre più performanti. La più nota di queste aziende è NVIDIA, divenuta negli ultimi anni il perno materiale dell’evoluzione delle IA.

La svolta protezionistica sui chip

Fino a qualche anno fa, l’estrema globalizzazione della catena del valore dei chip – proprietà intellettuali USA, progettate con software anglo-israeliani, riversate da macchinari olandesi su silicio giapponese usando componenti chimici cinesi dentro fabbriche taiwanesi – era considerata una grande festa per tutti: la tecnologia evolveva e i profitti crescevano. Non è più così: da qualche anno gli Stati, USA in testa, hanno deciso che il chip, in quanto “tecnologia di tutte le tecnologie”, è un oggetto troppo strategico – e soprattutto troppo determinante per i rapporti di potenza – per essere lasciato in balia del mercato.

E così, già nel 2016, Obama chiamava Angela Merkel e vietava la vendita alla Cina di Aixtron, un’azienda tedesca di componenti chimici per microelettronica, dopodiché Trump faceva la guerra a Huwaei (anche sui chip) e, infine, Biden dedicava ai semiconduttori gran parte della sua azione normativa in campo internazionale. Dopo aver firmato, nell’agosto 2022, il CHIPS and Science Act, un piano di investimenti per la ricostruzione della manifattura americana dei semiconduttori, nell’ottobre 2022 Biden ha proclamato ufficialmente una serie di restrizioni senza precedenti all’export di chip avanzati verso la Cina.

Il pacchetto di norme non si limitava a proibire la vendita diretta di chip di ultima generazione a Pechino, ma imponeva anche vincoli sulla cessione di macchinari per la loro produzione, sulla condivisione di ricerche e di brevetti e sull’assunzione di personale specializzato da parte di aziende cinesi. L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era solo quello di mantenere il vantaggio tecnologico delle aziende americane, ma, se possibile, di ritardare/arretrare lo sviluppo della microelettronica cinese (con ricadute a cascata su tutte le tecnologie, incluse quelle militari).

Le ripercussioni sulle catene del valore sono state notevoli. Giganti del settore come NVIDIA si sono visti costretti a rivedere le proprie strategie di mercato, mentre colossi della manifattura come la coreana Samsung e la taiwanese TSMC (la più importante “foundry” del mondo) si sono trovate a navigare in un campo minato di regolamentazioni sempre più stringenti. La questione ha avuto anche riflessi politici: l’applicazione delle normative ha richiesto grandi sacrifici economici da parte di aziende e paesi alleati degli USA, con costi diplomatici non trascurabili.

La corsa cinese per un’industria autoctona

La conseguenza più significativa della decisione di Biden è stata tuttavia quella di aver costretto la Cina a intensificare gli sforzi per accelerare lo sviluppo di un’industria autoctona di chip avanzati. La reazione cinese si è mossa finora su molteplici livelli, dal sostegno diretto dello Stato alla ricerca fino alla riorganizzazione delle catene di approvvigionamento interne. Pechino ha aumentato in modo significativo i finanziamenti al settore, puntando su colossi nazionali come SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation) e YMTC (Yangtze Memory Technologies), le punte di diamante del suo sistema industriale.

Nel solco di quanto avvenuto in altri ambiti, come la mobilità elettrica, il sostegno di Pechino non è solo finanziario ma anche normativo, logistico e strategico: sono stati varati piani per il rafforzamento della supply chain dei semiconduttori, a partire dalle materie prime, e sono stati dispiegati incentivi per attirare talenti stranieri aggirando le restrizioni di Washington.

Nel breve periodo, la Cina ha inoltre adottato soluzioni creative per superare i vincoli internazionali. Una di queste è la pratica del cosiddetto “chip laundering”, ovvero l’importazione di chip avanzati attraverso paesi terzi, come Singapore o gli Emirati Arabi Uniti, che sfuggono ai controlli più stringenti degli USA. Inoltre, il governo cinese ha incentivato l’acquisto massiccio di chip prima che le restrizioni entrassero in vigore, accumulando scorte strategiche per le proprie industrie high-tech e per il settore della difesa. La vera partita tuttavia è sul lungo periodo. E su questo fronte Pechino sta spingendo sull’acceleratore dell’innovazione, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da fornitori occidentali per tutte le tecnologie più critiche coinvolte nella produzione di chip.

La scommessa sui macchinari litografici e la supremazia europea

Un esempio è lo sviluppo dei macchinari litografici a ultravioletto estremo (EUV), ovvero le macchine con cui, tramite un processo quasi fantascientifico, si “stampano” transistor molto più piccoli di un virus. Per la stampa dei chip più avanzati, il settore è oggi un monopolio di fatto di una singola azienda, l’olandese ASML, a cui gli USA hanno imposto il veto all’export cinese, attraverso un’azione diplomatica che, nel 2023, ha visto direttamente coinvolto il governo olandese (all’epoca guidato dall’attuale Segretario Generale della NATO Mark Rutte).

Lo sviluppo autonomo di macchine EUV di ultima generazione è ritenuto uno degli ostacoli più insormontabili dell’intera catena del valore dei microchip. L’implementazione della tecnologia ha del resto richiesto decenni di lavoro da parte di ASML, miliardi di investimenti e una stretta integrazione con fornitori che rappresentano l’eccellenza della meccanica e dell’ottica europea. Se il capitale da investire alla Cina non manca (sono stati destinati 37 miliardi all’impresa), il tempo e la ricomposizione di una filiera di fornitura autonoma rappresentano due variabili importanti che, secondo autorevoli pareri, dovevano garantire all’Occidente un vantaggio di oltre dieci anni. Ebbene, di recente questo margine potrebbe essersi assottigliato molto, almeno stando alle voci secondo cui Huawei starebbe per testare un macchinario EUV avanzato, di produzione interamente cinese.

Del macchinario si sa che utilizza un sistema di produzione del plasma (per l’incisione dei transistor) di tipo diverso da quello di ASML. Un sistema la cui efficacia, scalabilità e compatibilità con altre parti del processo di lavorazione dei chip, resta da verificare. Tuttavia, se il test di Huawei si rivelasse un successo, e aprisse la strada a una produzione autoctona di macchinari EUV cinesi, ciò non solo significherebbe la perdita, per gli USA, di un’importante leva per il contenimento dell’ascesa tecnologica di Pechino ma anche un notevole danno economico, e strategico, per l’Europa, che vedrebbe ridimensionato il ruolo di ASML, uno dei suoi asset tecnologici più avanzati.

Un paradigma tecnologico autonomo

Per le aziende occidentali, sarebbe inoltre molto problematico se la Cina riuscisse, come sta provando a fare, a sviluppare macchinari basati su un paradigma tecnologico del tutto autonomo. In caso di successo, Pechino aprirebbe un fronte di sviluppo della litografia del tutto originale, con i competitor occidentali che si troverebbero di colpo a dovere inseguire e imparare (quasi) tutto da capo e soprattutto a doversi adattare a nuovi standard imposti da Pechino.

Un altro fronte su cui si dispiega la strategia di Xi Jinping sui semiconduttori è il cosiddetto mercato dei “legacy chip”, ovvero i chip ai “nodi maturi”: semiconduttori non di ultimissima generazione ma essenziali per il funzionamento dell’elettronica e dell’informatica di largo consumo. Se i chip di NVIDIA (e poche altre aziende) sono il fulcro della competizione strategica intorno allo sviluppo della IA, i “legacy chip” rappresentano l’ossatura dell’infrastruttura tecnologica globale.

Il peso del segmento legacy ovvero i vecchi chip ancora contano

Microcontrollori per elettrodomestici, circuiti integrati per veicoli, apparecchiature mediche e milioni di altri oggetti dipendono da questi semiconduttori, la cui produzione è forse meno sofisticata ma non meno strategica. Già da prima delle restrizioni di Biden, Pechino aveva messo nel mirino il segmento “legacy”, che rappresenta una fonte essenziale di entrate per storiche aziende occidentali come Intel e un elemento di cruciale sovranità tecnologica per tutti. Aziende come SMIC e Hua Hong Semiconductor stanno espandendo la loro capacità produttiva in questa fascia di mercato, con il supporto di massicci investimenti statali e incentivi fiscali.

Le implicazioni di questa strategia non si limitano al semplice riequilibrio delle catene di approvvigionamento. La leadership cinese nei “legacy chip” potrebbe tradursi in un nuovo strumento di influenza tecnologica globale, fornendo a Pechino una leva nei confronti di paesi e industrie che ancora dipendono fortemente dalle forniture esterne per il loro fabbisogno di chip.

La crisi globale dei semiconduttori, causata dalle interruzioni delle filiere della microelettronica durante la pandemia da COVID-19, ha dimostrato quanto sia pericoloso sottovalutare l’importanza dei chip tradizionali. Se la Cina riuscisse a consolidare il proprio primato in questo settore, potrebbe utilizzare la sua capacità produttiva in modo non molto diverso da ciò che l’OPEC ha fatto per decenni con il petrolio.

La strategia cinese sul mercato “legacy” rischia di essere particolarmente onerosa per l’Europa. A causa dello stretto legame con l’industria automobilistica, il settore dei “legacy chip” è uno dei pochi in cui il Vecchio Continente detiene ancora quote di mercato significative. Un drastico aumento della capacità industriale cinese non avrebbe quindi solo l’effetto di rivedere al ribasso questa percentuale, ma introdurrebbe un ulteriore elemento di dipendenza dell’automotive europeo dalla Cina, in una fase già molto delicata per il comparto.

C’è poi la variabile DeepSeek. Sebbene l’exploit dell’intelligenza generativa cinese non vada sopravvalutato – poiché non del tutto indipendente da tecnologie e processi occidentali – è evidente come l’ottimizzazione algoritmica di DeepSeek rappresenti una variabile potenzialmente “impazzita” per il mercato americano dei chip di fascia alta, come ha del resto testimoniato l’immediata risposta, in negativo, del titolo di NVIDIA alla diffusione della nuova IA generativa cinese.

Allo stesso tempo, paradossalmente, proprio DeepSeek ha rivelato alcune delle fragilità infrastrutturali della dotazione hardware delle aziende IA cinesi, non solo a livello di chip ma anche di altri componenti cruciali come, per esempio, i sistemi di interconnessione dei server. Queste difficoltà sono altrettante testimonianze degli effetti – perlomeno nel breve termine – che il veto all’export americano ha avuto sulla microelettronica cinese.

Rischi, costi, limiti strutturali

Nel lungo periodo, tuttavia, il rischio è che il regime dei veti acceleri, invece di rallentare, lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori in Cina. È un rischio rispetto al quale il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, mette in guardia Washington da tempo. La storia dei protezionismi è del resto piena di casi in cui l’isolamento forzato ha finito per stimolare, anziché soffocare, l’innovazione interna. La logica del “deny and deter” – negare l’accesso alle tecnologie critiche per dissuadere Pechino dal competere su un piano paritario – rischia di trasformarsi in un potente incentivo all’autosufficienza.

Ciò che distingue il protezionismo sui chip da esempi del passato è la combinazione di fattori che rendono l’industria dei semiconduttori particolarmente intensiva dal punto di vista del capitale, finanziario, politico e umano coinvolto. Da un lato, il costo dell’innovazione è sempre più alto: la realizzazione di una nuova fonderia di semiconduttori avanzati può superare i 20 miliardi di dollari, una barriera all’ingresso che rende difficoltosa la scalata per qualunque nuovo attore.

Dall’altro, la domanda di chip non è mai stata così diffusa e pervasiva. La transizione energetica, le infrastrutture cloud, le telecomunicazioni 5G e 6G, la biotecnologia, le IA: ogni settore critico dell’economia globale dipende oggi da semiconduttori avanzati. Non si tratta di una mera questione di hardware, ma di un’infrastruttura di potere tecnologico che ridefinisce il mondo.

Ed è qui che il rischio dell’effetto boomerang si fa concreto per gli Stati Uniti. Storicamente, l’egemonia tecnologica americana si è costruita non solo sul primato dell’innovazione, ma anche sulla capacità di dettare le regole del gioco attraverso il controllo dei brevetti, degli standard e delle filiere. Se la Cina aprisse la strada a un ecosistema alternativo, la curva di innovazione dei chip potrebbe sfuggire completamente, e definitivamente, dal perimetro del controllo americano.

Tutto ciò avviene oltretutto in un contesto in cui l’innovazione nei semiconduttori sta raggiungendo limiti fisici sempre più estremi. La legge di Moore, che per decenni ha guidato l’industria, è prossima alla sua “fine”. E ciò si traduce, da anni, in costi di produzione in costante aumento e sfide ingegneristiche sempre più complesse.

La partita, dunque, non si gioca solo sulla capacità di progettare chip sempre più avanzati, ma anche sulla capacità di immaginare sistemi computazionali alternativi ai semiconduttori. E, come racconta un recente paper di Nature, oggi la Cina produce il doppio della ricerca degli USA nel campo dei “future computing hardware” e dei “next generation chips”.

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Come rimuovere gli ordinari crimini occidentali e la memoria dei genocidi coloniali

di Carlo Formenti

I.

Le violente reazioni polemiche con cui politici, intellettuali e giornalisti occidentali di ogni colore ideologico (ad eccezione di qualche minoranza) hanno replicato alle accuse di genocidio allo stato israeliano, sono la conferma che tali accuse – più che fondate – toccano un nervo scoperto, in quanto mettono in questione un mito alimentato e condiviso da tutti i regimi liberal-democratici euroatlantici. Per inciso, che le accuse siano più che fondate non è testimoniato solo dal numero spaventoso di vittime di ogni età e sesso provocate dal terrorismo aereo praticato dal governo di estrema destra di Netanyahu, ma da quei rari intellettuali israeliani che, come Ilan Pappé (1), denunciano da tempo le pratiche criminali del regime sionista.

Di più: lo conferma il significato originario – prima che venisse mistificato da decenni di propaganda ideologica – del termine genocidio, coniato, come ricorda lo storico Leonardo Pegoraro (2), dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin negli anni della Seconda Guerra mondiale. Costui definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico delle vittime, ma anche alla soppressione delle istituzioni di autogoverno, alla distruzione della struttura sociale e della classe dirigente, al divieto di usare la propria lingua, alla privazione dei mezzi di sussistenza, alla criminalizzazione di una determinata fede religiosa, all’umiliazione e la degradazione morale. Mi pare chiaro che molti, se non tutti, questi criteri si applicano ai crimini che vengono quotidianamente perpetrati contro la popolazione palestinese.

Partendo da tale definizione, Pegoraro contesta la testi “unicista” che attribuisce alla Shoah l’attributo di unico evento storico suscettibile di essere definito genocidio. La cultura e la prassi genocidaria, argomenta, esistono fin dalla più lontana antichità, come testimoniato dall’Iliade e (lupus in fabula) dall’agghiacciante invito divino del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17). Gli unicisti descrivono la Shoah come un evento irriducibile a ogni spiegazione storica e razionale, una catastrofe unica nella sua orribile dismisura. La storia dimostra al contrario che esistono innumerevoli altri eventi paragonabili in termini di velocità, portata, intensità, efficienza e crudeltà.

Storie antiche, come lo sterminio dei Galli da parte di Cesare o i milioni di morti causati dalle invasioni mongole? Non solo, replica Pegoraro: anche e ancor più storie moderne, non imputabili unicamente a regimi totalitari e a ideologie incompatibili con la cultura liberal democratica, come teorizzato da Hannah Arendt (3). Basti ricordare che Hitler, fervente ammiratore del colonialismo inglese e dei suoi metodi (tornerò più avanti sul punto), lo assunse come modello da mettere in pratica nell’Europa Orientale, da cui voleva estirpare le etnie slave per rimpiazzarle con quella germanica (4). Fenomeno coloniale prima e più che fenomeno totalitario dunque, come Pegoraro argomenta ricordando i genocidi dei popoli nativi commessi, fra gli altri, da Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Ecco perché l’Occidente è tanto sollecito nel celebrare la memoria della Shoah: non per esorcizzare la possibilità che possa ripetersi, bensì per nascondere i propri scheletri nell’armadio, cioè per occultare il fatto che è la sua storia a grondare più di ogni altra del sangue di massacri di massa.

II.

A Costanzo Preve (5) dobbiamo la più dura requisitoria che mi sia capitato di leggere contro l’uso propagandistico di quella che questo autore chiama la “religione olocaustica” finalizzata a rimuovere le politiche criminali dell'imperialismo occidentale. La sua analisi parte dall’affermazione che la cultura ebraica viene sempre più spesso eretta a simbolo dell’occidentalismo imperiale, in nome di una presunta identità ebraico-cristiana dell’intero Occidente e dell’Europa in particolare, evocata per legittimare uno scontro di civiltà (6) di ispirazione razzista (islamofobica e non solo). Discutere le argomentazioni teologiche con cui Preve nega l’esistenza stessa di una nostra presunta radice ebraico-cristiana, a partire dalla incompatibilità fra il “tribalismo” di un culto fondato sul rapporto esclusivo fra Dio e il popolo eletto e l’universalismo cristiano, richiederebbe troppo spazio. Mi limito a citare le seguenti due tesi che ritengo di poter condividere:

1) L’inscalfibile alleanza fra Stati Uniti e Israele si fonda, oltre che sulla convergenza di interessi economici e geopolitici (Israele come baluardo del dominio occidentale sul Vicino Oriente e sulle sue risorse), sulla condivisione di valori religiosi secolarizzati che sono, più che ebraico-cristiani, ebraico-protestanti (calvinisti). Il “sionismo cristiano” delle élite neocons Usa è infatti di matrice esplicitamente calvinista, si fonda sulla teoria della predestinazione individuale che si è secolarizzata in teoria delle predestinazione del popolo anglosassone (l’eccezionalismo americano), associato al popolo ebraico nel ruolo di popolo eletto (con le relative implicazioni colonialiste e razziste).

2) Quanto appena affermato non implica affatto una condanna della cultura e della civiltà ebraiche in toto. Quest’ultima appare infatti attraversata da molteplici sfumature e correnti, in particolare da quelle correnti eretiche del messianesimo in cui si manifesta una reazione universalistica a un’identità religiosa particolaristica. Ciò vale per Gesù (di qui la tesi di Preve sull’incompatibilità fra cristianesimo originario e ebraismo ortodosso), così come vale per i moderni messianismi rivoluzionari: da Spinoza ai vari Benjamin, Bloch e Lukacs passando per Marx.

Facciamo un passo indietro. Che il culto della memoria della Shoah presenti i tratti di un’ideologia religiosa, scrive Preve, è attestato, fra le altre cose, dall’introduzione del reato di negazionismo nei sistemi giuridici europei (un fatto eccezionale, sia perché non applicato ad altri crimini di guerra, sia perché viola la libertà d’opinione): un interdetto che non ha lo scopo di difendere la memoria dei milioni di vittime dei lager bensì quello di legittimare un nuovo regime mondiale di dominio. Inchiodando l’Europa a un complesso di colpa inespiabile, l’élite statunitense ne ha infatti sancito la subordinazione alla propria egemonia culturale prima ancora che economico-militare.

Un’egemonia talmente schiacciante che ha rimosso ogni traccia di opposizione ai valori dell’ordine liberal-liberista, mettendo all’indice la memoria stessa delle ideologie anticapitaliste novecentesche (vedi la delibera del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo); un'egemonia che silenzia qualsiasi critica nei confronti del genocidio del popolo palestinese; un’egemonia che ha trascinato l’Europa in una guerra contro la Russia contraria ai propri interessi e che, ora che gli Stati Uniti escono dal conflitto dopo averlo provocato, induce le élite europee a proseguirlo per inerzia, svenandosi economicamente e aggravando ulteriormente la propria marginalità geopolitica.

III.

Veniamo all’altra “unicità” costruita dalle “democrazie” occidentali per nascondere sotto il tappeto la polvere dei propri crimini. Mi riferisco alla mostrificazione di Hitler e del nazismo come un’aberrazione irripetibile estranea alla storia e ai valori della “civile” Europa.

“Varrebbe la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”.

Quelle appena citate sono le famose – ancorché sistematicamente ignorate – parole di Aimé Césaire nel suo Discorso sul colonialismo (7). Si tratta della più appassionata e veemente denuncia sia dei secoli di genocidi occidentali perpetrati contro i popoli del Sud del Mondo (e tuttora in corso), sia del tentativo di liquidare il nazismo come un “unicum” storico che nulla ha a che fare con le liberal democrazie euroatlantiche, le quali credono di essersi ripulite di ogni sospetto di complicità celebrando il processo-farsa di Norimberga.

Poco sopra ricordavo l’ammirazione di Hitler per i metodi del colonialismo inglese (“nessun popolo, scriveva il Furher in Mein Kampf, ha saputo preparare le sue conquiste economiche meglio che con la precisa brutalità della spada, né le ha sapute difendere con più spregiudicatezza degli inglesi”). Di questa affinità elettiva fra Hitler e il colonialismo inglese (ma anche spagnolo, portoghese, francese, olandese, americano e italiano) erano lucidamente consapevoli gli intellettuali neri appartenenti all’ambiente dell’anticolonialismo militante fra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra, come – oltre a Césaire – i vari Du Bois, Williams, Fanon, Padmore, Carmichael e Robinson (8) tutti concordi con l’affermazione di Padmore secondo cui “quando il popolo britannico parla di fascismo dovrebbe guardare all’interno del proprio impero”.

Alla storica Caroline Elkins, che cita questi autori a proposito del concetto di fascismo coloniale (sinonimo, per molti di essi, di liberal fascismo) dobbiamo la più dettagliata e documentata denuncia (9) di due secoli di crimini imperiali britannici. Sulla scia di Cedric Robinson (10), la Elkins ricorda come il capitalismo razziale britannico, che aveva alimentato la propria accumulazione primitiva con il sacrificio di milioni di schiavi nelle colonie antillane e del Nord America (11), si sia rivolto, dopo la perdita degli Stati Uniti, verso l’Oriente e l’Africa, senza trascurare la vicina Irlanda.

In India la Compagnia delle Indie, prima che il Paese venisse sottoposto al governo della Corona, affamò il Bengala provocando trenta milioni di morti. Ma anche dopo il passaggio di consegne, gli eccidi e le repressioni condotte con metodi che nulla hanno da invidiare ai lager nazisti proseguirono fino all’indipendenza raggiunta nel secondo dopoguerra. Queste oscenità furono legittimate, fra gli altri, da un distinto intellettuale liberale come John Stuart Mill, il quale scrisse che gli Indiani erano un “popolo senza storia” (ignorando che India e Cina erano già civiltà millenarie quando la Gran Bretagna era un’isola popolata da selvaggi) caratterizzato da una cultura primitiva, e aggiunse che il dispotismo è giustificato quando si ha che fare con i barbari (nota bene: la Elkins riferisce che nessuno degli alti burocrati finiti sotto inchiesta per le atrocità commesse in India fu mai condannato, anzi vennero tutti assolti ed elogiati da governanti, media e opinione pubblica come meritevoli paladini dell’Impero).

Sempre ispirandosi al concetto di capitalismo razziale, la Elkins dimostra inoltre come l’uso del razzismo come fattore legittimante dei peggiori crimini colonialisti non abbia seguito esclusivamente la “linea del colore”: per giustificare i metodi disumani adottati nella guerra anglo-boera di fine Ottocento e nella successiva guerra civile irlandese, la Gran Bretagna discriminò razzialmente irlandesi e afrikaner, paragonandone le culture a quelle dei neri e usando immagini e metafore disumanizzanti per descriverne l’aspetto e gli stili di vita.

In tutte queste circostanze, lo stato di diritto della patria imperiale, sbandierato come fiore all’occhiello della civiltà anglosassone, era sistematicamente sospeso, mentre venivano adottate leggi ad hoc che garantivano il ricorso pressoché illimitato a violenza e coercizione. La giustificazione era sempre quella coniata dal cantore dell’epopea imperiale britannica, Rudyard Kipling, cioè quel “fardello dell’uomo bianco” che spettava alla superiore cultura europea per “civilizzare” i popoli barbari. In poche parole: non è vero che violenza e liberalismo sono elementi che non possono convivere o che convivono solo episodicamente e in condizioni eccezionali; al contrario: la prima è connaturata alla seconda nella misura in cui è il frutto delle sue ambizioni di modernizzazione/civilizzazione del mondo, di un concetto di libertà modulato sull’individualismo proprietario e dei principi classisti/razzisti incorporati nel suo sistema giuridico.

Qual è dunque la differenza fra i crimini coloniali dell’imperialismo britannico (americano, francese, spagnolo, portoghese, olandese, italiano, giapponese, ecc.) e i crimini nazisti? Non il numero delle vittime: i milioni di neri, arabi, indiani, amerindi, cinesi, vietnamiti, irlandesi, ecc. massacrati dalle liberal democrazie, superano di decine di volte quelli della Shoah. Non la ferocia: i metodi usati da tutti gli imperialismi occidentali per stroncare la resistenza degli altri popoli, descritti con agghiaccianti particolari nel libro della Elkins, non hanno nulla da invidiare a quelli praticati nei lager del Terzo Reich.

La vera differenza, come scrive Césaire (vedi sopra), è l'ipocrisia. È il ricorso a giustificazioni moraleggianti (il fardello dell’uomo bianco) al posto delle brutali rivendicazioni di dominio naziste. È la farsa di Norimberga, dove si è celebrata la giustizia dei vincitori ignorando i crimini di guerra anglo-americani (come il terrorismo aereo sulle città tedesche ormai indifese e le atomiche di Hiroshima e Nagasaki) mentre nelle celle dei detenuti tedeschi (come documenta la Elkins) si conducevano interrogatori con metodi da Gestapo. È, infine, l’elevazione al rango di eroe nazionale e mondiale di Winston Churchill, feroce reazionario che simpatizzò per il nazismo finché sperò di poterlo usare contro l’URSS (non a caso aveva sostenuto la guerra civile dei Bianchi contro il giovane regime sovietico), fautore dei lager per i prigionieri afrikaner durante la guerra boera, difensore dei crimini britannici in India, teorico ante-litteram del terrorismo aereo nella guerra coloniale irachena (poi applicato dagli Usa in Vietnam e da Israele a Gaza), complice della spietata repressione della resistenza irlandese, ecc. ecc. Insomma, una sorta di Goehring britannico con sigari e bombetta, rispetto al quale la Tatcher fa la figura di una dolce vecchietta.

IV.

A mò di postilla all’analisi dell’apporto della Elkins alla ricostruzione della storia dei crimini dell’imperialismo inglese, vale la pena di segnalarne la denuncia delle responsabilità dei governi inglesi succedutisi dal primo al secondo dopoguerra, i quali, con le loro scelte, hanno creato i presupposti dell’apparentemente irrisolvibile conflitto arabo-israeliano e del conseguente carnaio palestinese che funesta il Vicino Oriente da più di mezzo secolo.

La tragedia inizia con la celebre Dichiarazione di Balfour (1917) con cui l’omonimo segretario agli esteri auspicava – in vista della spartizione dell’Impero Ottomano, destinato a scontare la propria alleanza con gli Imperi Centrali – la “costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Secondo Balfour, ricorda la Elkins, il sionismo, giusto o sbagliato, buono o cattivo che fosse, era più meritevole di ottenere attenzione rispetto ai “pregiudizi dei settecentomila arabi che ora abitano quella terra antica”. Come si vede, fin d’allora il razzismo anglosassone, assai più profondo (e condito di islamofobia) nei confronti degli arabi piuttosto che degli ebrei, assieme a quella che Elkins definisce una “interazione fra romanticismo biblico e più ampie considerazioni geopolitiche”, lasciavano ampiamente prevedere da quale parte l'imperialismo occidentale si sarebbe schierato rispetto ai conflitti regionali.

Dopo che la Società delle Nazioni (nel 1922) ebbe affidato alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina, iniziò il calvario della popolazione araba che lottò a più riprese, e sempre inutilmente, per ottenere la revoca della Dichiarazione Balfour e il contenimento dell’emigrazione ebraica, favorita dalle illimitate concessioni di acquisto delle terre (quasi un terzo dei contadini arabi in miseria era già stato espropriato nel 1930, e la pur limitata espansione industriale garantiva posti di lavoro quasi esclusivamente agli operai ebrei).

Le ripetute rivolte contro le autorità britanniche furono puntualmente soffocate nel sangue, e la repressione toccò il vertice con l’arrivo dell’ufficiale dei servizi inglesi Onde Wingate. Costui, già distintosi come macellaio in alcune guerre coloniali, appena sbarcato in Palestina (nella seconda metà degli anni Trenta) fu colto da una crisi mistica e si legò con gli ambienti sionisti radicali ( fu anche amico di Ben Gurion, che si sarebbe distinto nelle pulizie etniche contro gli arabi nel secondo dopoguerra). Devoto alla causa sionista e pieno di disprezzo per la razza araba, Wingate (tuttora celebrato come un eroe in Israele) organizzò le Squadre Speciali Notturne (formazioni miste anglo-ebraiche) che praticarono il terrorismo sistematico contro i ribelli arabi.

Oggi la propaganda sionista (e angloamericana) ricorre spesso all’argomento dell’appoggio che gli arabi ricevettero dai nazisti prima e durante la Seconda Guerra mondiale, ma questo argomento (al pari di quello usato contro l’indiano Bose e i suoi seguaci, che si arruolarono nell'esercito giapponese per combattere contro gli Inglesi) può funzionare solo rimuovendo tutte le ragioni di odio che un popolo aveva accumulato in decenni di oppressione, sottoposto alla stretta della doppia tenaglia dell’imperialismo inglese e del terrorismo sionista. Torna insomma il motivo della ipocrisia e della doppia morale che l‘Occidente ha sempre adottato nei confronti dei crimini propri e altrui.

V.

L’ultima tappa di questo percorso dedicato ai crimini dell’Occidente riguarda un curioso libro – Barbarie Numérique (Barbarie digitale) – di Fabien Lebrun (12). Curioso perché si tratta di un saggio a dir poco ambizioso, ancorché monumentale, in cui l’autore, oltre ad offrire una documentatissima e agghiacciante descrizione delle sofferenze che secoli di oppressione coloniale hanno imposto al popolo congolese (e questa è la parte di gran lunga più utile e interessante del lavoro), propone una critica (condivisibile ma non originalissima) dell’utopia digitale e dei suoi miti (a partire dalla presunta smaterializzazione e virtualizzazione dell’economia e delle relazioni sociali); ripropone la tesi (anche questa già ampiamente condivisa in campo marxista) dell’accumulazione primitiva come condizione permanente del capitalismo dalle origine ai giorni nostri; abbozza infine una discutibilissima teoria generale del capitalismo globale in cui manca qualsiasi riferimento a controtendenze oggettive e resistenze soggettive.

Parto dalla critica del digitale. La retorica dell’immateriale che ha accompagnato fin dalle origini la narrazione della cosiddetta rivoluzione digitale, argomenta Lebrun, si inscrive in quella “cultura del post” (post moderno, post industriale, ecc.) inaugurata dal celebre saggio di Jean-François Lyotard (13) e adottata da una certa sinistra postmoderna infatuata del presunto ruolo progressivo delle nuove tecnologie, la quale ha contribuito, assieme al culto mediatico dei guru della Silicon Valley, a squalificare e condannare come retrograda qualsiasi critica dello sviluppo tecnologico (Lebrun cita quanto già aveva scritto in merito Gunther Anders (14)). Tema e argomenti tutt’altro che nuovi (15) come già detto, ma Lebrun li integra con una corposa mole di dati: i 34 miliardi di device digitali che esistono oggi sulla terra pesano più di 220 milioni di tonnellate; uno smartphone contiene una cinquantina di metalli diversi e per essere prodotto richiede una quantità smisurata di energia, risorse naturali e acqua, per cui, se si aggiungono le infrastrutture necessarie a far funzionare reti e terminali è evidente quanto sia falso il concetto di “dematerializzazione”.

La verità, scrive Lebrun, è che il digitale è un macro-sistema tecnico che divora sempre più elettricità (carbone, petrolio, gas, nucleare). L’industria digitale è inseparabile da quella mineraria e dunque dall’estrattivismo: estrattivismo per il digitale (cioè per produrlo) e dal digitale (vedi la sua proprietà di affinare i metodi di ricerca delle risorse da estrarre), infine estrattivismo “virtuale” dei Big Data che, nella misura in cui promuovono la fusione fra vita privata e vita pubblica, riescono a estrarre valore dalla vita stessa, cioè dalle informazioni che ognuno di noi regala al macro-sistema per il solo fatto di connettersi alla rete, una inedita forma di lavoro produttivo che miliardi di persone svolgono gratuitamente, sedotti dalla cultura dell'illimitato generata dai social (16).

L’estrattivismo, come vedremo fra poco, è all’origine delle attuali sventure del Congo (con questo nome Lebrun connota un’area più ampia della nazione che condivide il nome del bacino del fiume omonimo: praticamente l’intera Africa dei Grandi Laghi e parte dell’Africa Centrale) un’area perseguitata della “maledizione delle risorse naturali”. Ma le disgrazie della regione risalgono assai indietro nel tempo nella misura in cui si tratta del territorio più martoriato dalla tratta atlantica, dal 1500 al 1800, a partire dall'insediamento portoghese nell’isola di Sao Tomé, al centro delle prime rotte negriere fra Portogallo Congo e Brasile, cui faranno seguito quelle tracciate da Inglesi e Francesi per le Antille e il Nord America.

Dopo avere ricordato la lezione di Eric Williams sul contributo del commercio triangolare fra Europa, Africa e America all’accumulazione primitiva in Inghilterra e in Francia, Lebrun arriva all’era moderna e alla conferenza di Berlino del 1885 che spartì l’Africa fra le grandi potenze coloniali e assunse l’incredibile decisione di riconoscere il Congo come possedimento personale del re belga Leopoldo. Costui passerà alla storia come il più efferato assassino della storia del colonialismo occidentale. Per alimentare i profitti generati dal commercio di avorio e caucciù costui imporrà ai neri ritmi di lavoro estenuanti, punendo i riottosi e i “pigri” con il taglio della mano, con le decapitazioni e con la distruzione di interi villaggi e i massacri di donne e bambini perpetrati con metodi orribili da mercenari europei di varie nazionalità. Ancora più morti costò la costruzione di alcune ferrovie, al punto che, dal 1880 al 1930, si calcola vi siano state dieci milioni vittime (a proposito di genocidi...). I crimini del sovrano belga erano ben noti e furono denunciati da molti intellettuali, come lo scrittore americano Mark Twain, ma le nazioni occidentali si guardarono bene dall’intervenire perché il Congo di Leopoldo funzionava da paradiso fiscale ante litteram, attirando investimenti finanziari e industriali da tutto il mondo.

Con l’assassinio di Lumumba, che dopo l’indipendenza aveva osato parlare di nazionalizzazione delle risorse minerarie, si è passati, scrive Lebrun, dal colonialismo al neocolonialismo. E con la caduta di Mobutu negli anni Novanta, si intrecciano inestricabilmente i destini del Congo con quelli della rivoluzione digitale. I sistemi patrimoniali – le cleptocrazie – nati dal fallimento delle guerre d’indipendenza devono lasciare il posto alle politiche neocoloniali del Washington Consensus imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale. E il Congo, che ha la disgrazia di ospitare le più grandi concentrazioni di coltan, terre rare e altri minerali indispensabili allo sviluppo dell’industria digitale, diventa il teatro di una guerra di tutti contro tutti cui partecipano stati, multinazionali, mafie, bande armate di ribelli e mercenari, tutti impegnati ad assumere il controllo delle risorse vitali per lo sviluppo delle nuove tecnologie (fra le vittime di queste guerre civili che coinvolgono anche il Ruanda, l’Uganda e il Burundi vanno annoverati anche il milione di Tutsi trucidati dall’etnia Hutu e l'incalcolabile numero di profughi provocati dalle guerre civili in Sudan, Angola e Congo Brazzaville, mentre a spartirsi il bottino sono Francia e Belgio da un lato Stati Uniti e Gran Bretagna dall’altro). Fin qui la cronaca degli orrori. Quanto al tentativo di Lebrun di inquadrarla in un’analisi più complessiva delle dinamiche della globalizzazione capitalistica, vanno distinti due livelli.

Il primo livello si riferisce alla tesi della sostanziale analogia, se non identità, fra queste forme neocoloniali e gli orrori dell’accumulazione primitiva tramite enclosure descritti da Marx nel Primo Libro del Capitale (17). L’estrattivismo praticato nel Congo e in molti altri Paesi del Sud del mondo, argomenta Lebrun, è una riproposizione su scala planetaria della separazione violenta fra lavoratori (in questo caso fra popoli e nazioni intere) e mezzi di produzione (in questo caso materie prime, territori e altre risorse), un processo che Harvey definisce accumulazione per espropriazione (18), e che Samir Amin propone di contrastare adottando strategie di delinking dal mercato capitalistico globale (19). Tesi del tutto condivisibile anche se non originale, come anticipato in precedenza.

Il secondo livello, cioè il tentativo di Lebrun di tracciare uno schema complessivo del processo di mondializzazione capitalista, mi lascia invece francamente perplesso. Sintetizzo i principali motivi di tale perplessità:
1) il potere di seduzione, nonché di corruzione civile, culturale, se non addirittura antropologica, della tecnologia digitale viene descritto come irresistibile (non a caso Lebrun cita Gunther Anders, il filosofo della obsolescenza umana di fronte al soverchiante potere della tecnica);
2) il processo di globalizzazione/mercificazione dell’economia e della società mondiali viene a sua volta descritto come in grado di omologare senza residui nazioni, popoli, civiltà, culture, ignorando le controtendenze, le resistenze e le resilienze di ogni tipo che lo frenano e contrastano;
3) questa cornice astratta e immaginaria esclude di fatto ogni capacità di resistenza e di lotta: nell’analisi di Lebrun esistono solo vittime ridotte a oggetto, subordinate al processo di valorizzazione oppure ridotte esse stesse a merce: le lotte di liberazione nazionale sono fallite, degenerate in regimi locali al servizio dell’imperialismo; ugualmente fallite le rivoluzioni socialiste, le quali hanno dato vita a forme di capitalismo di stato (per Lebrun capitale privato e di stato pari sono, né è prevista alcuna autonomia del politico).
In parole povere: il capitale e la tecnologia, che con il digitale sono giunti a fondersi in un poderoso mega sistema, appaiono in questo modo onnipotenti e invincibili. Tutto ciò nulla toglie al contributo di Lebrun alla descrizione dei crimini dell’Occidente capitalista, “democratico” e liberale, che è l’obiettivo di questo articolo. Con buona pace del trio europeista Serra, Vecchioni, Scurati.

Note

(1) Cfr. I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma 2008; vedi anche Brevissima storia del conflitto fra Israele e Palestina, Fazi, Roma 2024.

(2) Cfr. L. Pegoraro, I dannati senza terra, Meltemi.

(3) Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.

(4) Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005; vedi anche Il peccato originale del Novecento, Laterza.

(5) Vedi , in particolare, C. Preve, Opere, Vol. II, Manifesto filosofico del comunismo comunitario, Schibboleth, Roma 2022.

(6) Cfr. S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000.

(7) A. Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020.

(8) Vedi la serie di post sul pensiero radicale nero e sugli autori citati che ho pubblicato su questo blog.

(9) Cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza, Einaudi, Torino 2024.

(10) Cfr. C. Robinson, Black Marxism, Alegre, Roma 2023.

(11) Sul rapporto fra schiavismo e accumulazione primitiva cfr. K. Marx, il Capitale, vol. I, cap. XXIV.

(12) Cfr. F. Lebrun, Barbarie Numérique, L’Échappée 2024.

(13) Cfr. J-F Lyotard, La condizione postmoderna, (tr. Di C. Formenti), Feltrinelli, Milano 1980.

(14) Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

(15) Gli argomenti critici di Lebrun sono stati anticipati, fra gli altri, da chi scrive il quale, a partire da Incantati dalla Rete (Cortina 2000), ha pubblicato numerosi saggi sull’argomento: vedi, fra gli altri, Mercanti di futuro (Einaudi 2002); Cybersoviet (Cortina 2008); Felici e sfruttati (EGEA 2011); Utopie letali (Jaka Book 2013).

(16) Cfr. C. Formenti, Felici e sfruttati, cit.

(17) Cfr Nota 11.

(18) Vedi in particolare, fra le opere di D. Harvey, La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo (il Saggiatore 2006) e L’enigma del capitale (Feltrinelli 2011).

(19) Cfr. Samir Amin, La déconnextion, La Découvert, Paris 1986.

Fonte