di Michele Giorgio – il Manifesto
Ahmad Abdelhaqi,
responsabile dei servizi egiziani dei rapporti con i palestinesi, si è
precipitato ieri a Gaza per colloqui urgenti con i leader di Hamas. Un’altra
offensiva militare israeliana è alle porte e gli egiziani, almeno in
apparenza, tentano di evitarla con la loro mediazione.
L’obiettivo è portare il movimento islamico e il governo Netanyahu a
quell’accordo di tregua a lungo termine di cui si parla ormai da mesi e
del quale si sono perdute le tracce. Abdelhaliq è stato accolto da
Tawfik Abu Naim, il capo delle forze di sicurezza di Hamas. Insieme
prepareranno l’arrivo a Gaza, pare già domani, del capo
dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, visita ad alto livello che
conferma come Gaza sia giunta al bivio tra guerra e tregua permanente.
Le parole pronunciate ieri dal ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieberman, non lasciano spazio ad interpretazioni. Ha detto che solo «un serio colpo» al movimento islamico potrà mettere fine alle proteste palestinesi –
la “Marcia del Ritorno” contro il blocco israeliano di Gaza cominciata
il 30 marzo a ridosso delle linee di demarcazione – e al lancio di
palloncini incendiari verso il territorio israeliano. «La goccia che ha
fatto traboccare il vaso», ha aggiunto sono state le manifestazioni di
venerdì scorso, con circa 15mila palestinesi, che Israele pensava di
aver scongiurato autorizzando il rifornimento della centrale elettrica
di Gaza con carburante acquistato e donato dal Qatar. «Abbiamo
esaurito tutte le altre opzioni a Gaza. Ora è il momento di prendere
decisioni. Dobbiamo colpire seriamente, questo è l’unico modo per
riportare la quiete», ha avvertito il ministro esortando i suoi
colleghi di governo a sostenere la sua richiesta per una nuova
offensiva militare contro Gaza, più ampia di quella del 2014.
Sull’altro versante la pazienza e la sopportazione sono finite da un pezzo.
L’aggravarsi delle condizioni di vita per il blocco di Gaza si
accompagna alla delusione mista a rabbia della popolazione per le
notizie che un giorno danno per fatto l’accordo di tregua e il giorno
dopo riferiscono del fallimento delle trattative indirette in corso tra
Hamas e Israele. Le manifestazioni pacifiche dei primi mesi
della Marcia del Ritorno sono diventate nelle ultime settimane
relativamente più aggressive, con il lancio di ordigni
artigianali e bottiglie incendiare contro le postazioni militari
israeliane lungo le linee tra Gaza e Israele. Questo sviluppo è figlio anche della risposta durissima che Israele ha dato alle proteste
impiegando centinaia di tiratori scelti che hanno fatto strage di
manifestanti. Secondo i dati diffusi dal centro per i diritti umani
B’Tselem, dal 30 marzo all’8 ottobre sono stati uccisi almeno 166
palestinesi (altre fonti danno un bilancio più alto) e tra questi ci
sono 31 ragazzini. Senza dimenticare 5300 feriti da colpi d’arma da
fuoco. B’Tselem sottolinea che gran parte degli uccisi erano civili che
non avevano messo in pericolo in alcun modo i soldati israeliani. Sino
ad oggi è stato ucciso solo un militare, da un colpo sparato da grande
distanza da un cecchino palestinese.
Si attende venerdì, quando sono previste nuove manifestazioni palestinesi a ridosso delle linee con Israele,
per capire se il governo israeliano darà seguito concreto alle parole
di Lieberman scatenando l’offensiva militare. L’attacco
contro Gaza peraltro diventa sempre più la bandiera che sventolano i
ministri più estremisti, in vista anche delle elezioni politiche in
Israele che più parti, anche per i dissidi interni alla maggioranza,
prevedono anticipate rispetto alla scadenza della legislatura il
prossimo anno.
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