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06/09/2019

Turchia, l’emergenza rifugiati e la UE

“Noi non apriamo i nostri confini a duecento rifugiati, come i Paesi occidentali” ha affermato ieri Erdoğan in un intervento fra le fila del suo partito riunito ad Ankara. Il riferimento risuona come monito per il presente e futuro, ma anche per le promesse che in passato i vicini europei non hanno mantenuto. Promesse pecuniarie, innanzitutto. A metà del 2016, quando l’emergenza migranti via terra e via mare angosciava il vecchio continente, la cancelliera Merkel a nome dell’Unione Europea accordò 6 miliardi di euro per finanziare i campi profughi che Ong turche organizzavano oltre i propri confini sud-orientali. Della cifra fu promessa nell’immediato la metà, dopo tre anni non solo mancano i restanti tre miliardi, ma pure una buona fetta di quelli che dovevano giungere dopo alcuni mesi dall’accordo. Gran parte del flusso migratorio di chi cercava riparo dallo spettro dello Stato Islamico erano siriani (circa 4 milioni risiedono attualmente in Turchia), ma fuggivano, e tuttora fuggono, tanti afghani dai disastri della propria terra marchiati dai talebani e da quei dissidenti che ora s’etichettano jihadisti del Khorasan. E poi iracheni, pakistani e altri popoli. Le migrazioni create dai conflitti e dall’instabilità economica sono la contraddizione con cui la politica globale s’interfaccia, e un uomo di mondo come il presidente turco lo utilizza e lo pone come merce di scambio.

Non che a Bruxelles abbiano fatto diversamente e meglio. Anzi. Così il sultano, che ha ingoiato pesanti sconfitte interne alle amministrative di marzo perdendo tutte le maggiori municipalità, con lo smacco ripetuto a giugno a Istanbul, cerca di gestire la questione che produce criticità su vari fronti. La linea dell’accoglienza scelta dall’Akp non ha pagato. Diversi analisti sottolineano come proprio nella ripetuta elezione sul Bosforo la posizione populista di İmamoğlu sui siriani che “devono tornare a casa loro” abbia trovato seguito e voti fra tanti istanbulioti, compreso l’elettorato islamista di Fatih dove i siriani accolti dalla Mezzaluna Rossa sfiorano il milione. Erdoğan sulla questione non cambia posizione né faccia, ma chiede quel sostegno economico e politico che l’Europa ha promesso e non ha dato. Peraltro nel discorso di ieri ha ricordato come finora lo Stato turco abbia elargito più che incassato. Il denaro dedicato ai siriani ha superato i 40 miliardi di dollari e poiché negli intenti umanitari del governo di Ankara c’è il desiderio di offrire una condizione dignitosa ai profughi che vivono nelle aree di confine, tuttora nelle tendopoli, il suo progetto prevede di costruire e adibire per loro case in zone di sicurezza. Per questo piano servirà accordarsi oltreché con Germania e Gran Bretagna, anche con Stati Uniti e Russia.

Trattandosi di territori sensibili, dov’è ancora in atto il conflitto, come a Idlib, e anche di aree che vedono la presenza organizzata di forze quali le unità combattenti kurde del Rojava, il tutto risulta un tema delicatissimo di geopolitica mondiale. Il presidente turco, diversamente da omologhi occidentali, non mette la testa sotto la sabbia. Al contrario, le sfide più complesse ne stimolano le mai celate manìe di grandezza. In aggiunta il cinismo tipico dei giocatori d’azzardo lo conduce a rilanciare, tendendo la mano e minacciando. Dice alla Ue di poter continuare a tenere tanti profughi, ma vuole nuove condizioni per evitare il malcontento dei turchi più bisognosi che si sentono trascurati del governo. Perciò occorrono denaro per le case d’accoglienza e territori su cui costruirle. Lui suggerisce chi dovranno essere i pagatori e in quali punti collocare il rimpatrio di milioni di siriani. L’Unione Europea, vissuta per anni fra necessità ed emergenze, egoismi e spaccature interne, viltà e indecisioni, non sembra attenta alla gravità della situazione. Eppure una nuova rotta balcanica è già in atto da due anni, coi profughi sempre delle stesse nazionalità, bloccati e parcheggiati prevalentemente in Bosnia, in condizioni di abbandono ed emergenza. I volontari e le Ong marginali che s’occupano di costoro spesso sono privi di quei fondi che i politici di Bruxelles maneggiano con una cura rivolta solo ai propri confini, tranne angosciarsi se vengono “violati”. La neo commissaria europea e pupilla della Merkel, Ursula von der Leyen, e i suoi retribuitissimi colleghi dovrebbero operare col pragmatismo richiesto da un simile dramma.

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