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03/10/2019

Che guerra dei dazi sia, dice il WTO

Toh, Il Wto esiste ancora... Viviamo in tempi di forti contraddizioni, e quindi i paradossi escono fuori da tutte le parti.

Come altro possiamo definire la “sentenza” emessa ieri dai “giudici” del World Trade Organization? L’organizzazione che una volta – ai tempi della “globalizzazione” – dettava legge sulle regole del commercio mondiale per garantire la massima permeabilità delle economie ha stabilito, dopo lungo processo, che effettivamente gli aiuti pubblici europei al consorzio Airbus hanno provocato un danno commerciale alla statunitense Boeing e quindi “distorto la libera concorrenza” nel settore degli aerei da trasporto civile.

Il danno è stato quantificato in 7,5 miliardi di dollari e pertanto vengono autorizzati gli Stati Uniti ad applicare dazi punitivi sulle merci europee per un valore equivalente.

Formalmente la sentenza rispetta le antiche regole fissate quando il mondo era saldamente sotto l’egemonia degli Stati Uniti (dopo la “caduta del Muro”, insomma). Perché effettivamente Airbus è riuscita a diventare un concorrente pericolosissimo di Boeing e Lockheed grazie a finanziamenti diretti, agevolazioni fiscali e contrattuali decise dall’Unione Europea in barba ai princìpi che pure sbandierava ed applicava nei confronti dei paesi membri più deboli. Ma Airbus era il consorzio con la golden share di Francia e Germania, quindi tutto era “legittimato”.

Non che i costruttori aerei statunitensi siano davvero “concorrenti perfetti”. Fanno parte, con molte delle loro controllate o anche direttamente, del “complesso militare-industriale yankee, e sugli aiuti pubblici (e di prezzi gonfiati) potrebbero dar lezioni a tutto il mondo.

Gli stessi giudici del Wto, difatti, hanno dovuto lavorare a lungo su decine di migliaia di pagine per riuscire a stabilire la differenza quantitativa tra aiuti europei ad Airbus e aiuti della Casa Bianca a Boeing. Risultato, quei 7,5 miliardi.

Il paradosso sta nel fatto che questa sentenza “liberista e globalista” arriva – dopo anni di istruttoria – nel pieno della “guerra dei dazi” scatenata da Donal Trump. Prima verso la Cina e ora, più esplicitamente, contro i paesi europei. Quindi arriva a confermare e aggravare una tendenza già in atto: quella alla guerra (commerciale, tariffaria, monetaria, ecc.) tra macroaree continentali.

Ossia rafforza proprio l’opposto di quel che doveva favorire.

Come sempre, la piccineria dei media mainstream si è concentrata sui “danni per l’Italia”, con grandi lacrime per le sorti di formaggio e prosciutto, mentre dovrebbero restar fuori i vini e altre eccellenze del made in Italy.

Meno attenzione invece viene riservata alla reazione europea, preannunciata da tutti i principali esponenti dell’establishment di Bruxelles (dalla commissario Verstager al ministro francese LeMaire), e che si tradurrà in dazi sulle merci USA. Che dovranno essere anche questi formalmente “autorizzati” dal Wto.

Il quale, in definitiva, si va trasformando in pallido arbitro delle risse commerciali crescenti, abbandonando definitivamente l’obbiettivo dell’abbattimento completo delle barriere tariffarie tra Stati.

Politicamente la decisione esplicita che Stati Uniti e Unione Europea viaggiano ormai su binari differenti e divergenti, al punto che il segretario di stato Mike Pompeo è dovuto arrivare in Europa per un lungo tour teso a “rassicurare” i partner sul fatto che questa guerra commerciale non dovrà guastare i “buoni rapporti” stabiliti al tempo del Piano Marshall, grazie al quale l’Europa distrutta dalla guerra poteva ricostruirsi economicamente, trasformandosi in fedele vassallo all’ombra dell’imperialismo Usa.

Un tour con risvolti geostrategici molto rilevanti, perché i colloqui con i vari governi del Vecchio Continente investono le relazioni con Russia e soprattutto Cina.

Merci ordinarie a parte, il cuore della questione riguarda le tecnologie. E l’Italia – nello sforzo di intercettare almeno in parte i benefici della Via della Seta – ha aperto parzialmente le porte alla sperimentazione del 5G prodotto da Huawei, ormai sulla lista nera di Washington.

È stato lo stesso Pompeo a ricordarlo in diverse interviste (e, pensiamo, in maniera più esplicita nei colloqui riservati): “La nostra sicurezza nazionale agisce in modo molto diretto ogni volta che prendiamo delle informazioni di sicurezza, facciamo in modo di garantire la privacy dei nostri cittadini e che queste informazioni attraversino reti sicure. Dobbiamo capire i rischi. Se un’azienda italiana decide di investire o fornire attrezzature che hanno una rete che i nostri team di sicurezza nazionale ritengono metta a rischio la nostra privacy, allora dovremo prendere decisioni difficili”.

Della privacy dei cittadini, gli Stati Uniti se ne sono sempre bellamente fregati (basti pensare all’obbligo per le grandi società informatiche di passare i profili dei loro clienti – yankee e non – alle “agenzie di sicurezza”), ma sono invece assolutamente interessati a mantenere il monopolio delle tecnologie di controllo di massa.

E ci sembra chiarificatore l’evidente mismatch, quasi “fisico”, tra i due ministri degli esteri. Da un lato l’ex capo della Cia, riverniciato in diplomatico con la pistola sotto l’ascella, e dall’altra il giovine democristian-grillino. Che, per quanto pronto a giocare su tutti i tavoli senza alcun principio “intangibile”, proprio non può essere un mostro di esperienza...

Si possono vincere elezioni una volta promettendo favole, ma la “prova del governare” rimette la realtà al centro dello scontro geopolitico. Che riguarda ormai il futuro assetto del mondo, il conflitto per l’egemonia globale e la “stretta” su alleanze e tolleranze (con buona pace della “democrazia” e dei “diritti delle opposizioni”).

Su questo piano, non c’è furbizia che tenga. Ci vogliono generali esperti, con battaglie vere alle spalle, visioni chiare dei propri interessi e “divisioni” da muovere.

In Italia, insegna la Storia del Novecento, abbiamo avuto quasi soltanto quelli che ordinano di sparare sulle proprie truppe e sul proprio popolo.

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