Tutti hanno provato a convincerci che lo schema era questo:
a) i migranti arrivano qui portati dai trafficanti (ed è l’unica cosa vera);
b) abbiamo – come Stato italiano – fatto un accordo con il “governo legittimo di Al Serrai” (che è poco meno del sindaco di Tripoli) per gestire “campi” non meglio precisati in territorio libico;
c) abbiamo – come Stato italiano – fornito motovedette ed armato una “guardia costiera” libica legale;
d) se i migranti continuano ad arrivare è colpa degli scafisti, ovviamente illegali;
e) ma è anche colpa delle “navi Ong”, che d’accordo con questi scafisti, aspettano i barconi “su appuntamento” e ci portano qui “clandestini” che andrebbero solo rispediti indietro.
Fin qui la narrazione è identica per tutti. Poi Salvini ci aggiunge la valanga di scemenze razziste di cui è prodigo; la Meloni ci aggiunge “l’affondamento delle navi”: Di Maio “adesso facciamo i rimpatri sul serio”; Zingaretti una serie di frasi di cui nessuno si ricorda perché dicono poco.
Fin qui tutto chiaro?
Bene. È vero tutto il contrario.
L’Italia – tutti i governi degli ultimi anni, e l’attuale continua sulla stessa strada – ha fatto accordi diretti con il capo degli scafisti, finanziando e armando quella fazione (che fa parte del “governo legittimo” di Al Serraj), al punto che questi comanda una parte della cosiddetta “guardia costiera libica”, quella con base a Zawyah. Con le navi che gli ha dato lo Stato italiano.
Un ingenuo potrebbe pensare che tutto ciò sia avvenuto in Libia, all’interno dell’infinita litigiosità delle varie fazioni tribali. Ossia che, sì, l’Italia ha dato finanziamenti e navi al “governo legittimo” e poi parte di quella dotazione è finita per vie traverse alle “persone sbagliate”.
ERRORE!!!
Il capo degli scafisti – Abd al-Rahman al-Milad, chiamato Bija – è stato accolto come autorevole membro di una delegazione ufficiale libica per un incontro avvenuto nel Cara di Mineo (quello per cui ha passato qualche guaio anche l’ex ministro dell’interno Alfano – do you remember Alfano?).
Ci sono persino le foto...
L’ingenuo impenitente potrebbe obiettare che magari, in quel momento, il capo degli scafisti non fosse ancora stato smascherato come tale...
ERRORE!!!
Diversi rapporti dell’Onu lo avevano già individuato come tale, arrivando – com’è ovvio – ad allertare le polizie mondiali in modo da impedire che potesse circolare, se non altro, al di fuori della Libia.
Divertente, se non fosse tragica, questa storia dei ministri dell’interno che hanno fatto carriera e consenso gridando sulla “sicurezza” e la necessità di “combattere gli scafisti”, ma che nel frattempo si accordano, finanziano e armano proprio quelli che dicono di voler combattere...
Basterebbe questo per classificarli tra i peggiori degli uomini.
Ma nella loro ebbrezza da “potenti a tempo determinato” hanno voluto esagerare, indicando un “nemico alternativo” in chi – invece – salva in mare quanti riescono a sfuggire (o a pagare) ai massacratori foraggiati dalla “classe politica italiana”.
Dove abbiamo avuto questa notizia? Non da fonti oscure. Appare oggi in prima pagina su L’Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. E il Vaticano, come si sa, ha ottime fonti. Di provata fede...
Prima dell’inchiesta di Nello Scavo, una nostra breve ricostruzione della successione temporale degli eventi, che aiuta a comprendere ancora meglio come tutta questa classe politica di truffatori fosse perfettamente al corrente della situazione. Mentendo pubblicamente per “guadagnare voti”.
Ed è solo la prima puntata...
*****
Il 21 aprile del 2017, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio aveva accusato pubblicamente le ONG di essere “taxi del mare”, riprendendo un post di Beppe Grillo sul loro “oscuro ruolo”.
Il 28 giugno del 2017, il governo italiano d’intesa con il commissario europeo Dimitri Avramopulos, annunciava che avrebbe chiuso i porti alle ONG che soccorrevano i migranti dai gommoni alla deriva al largo delle coste libiche per sbarcarli nei porti italiani.
Infine, nel marzo del 2018, il procuratore della repubblica di Catania Zuccaro sequestrava la nave dell’organizzazione non governativa spagnola “Proactiva Open Arms” rea di non aver consegnato alla guardia costiera libica 218 esseri umani, che stavano scappando proprio dall’inferno libico.
Il ministro Marco Minniti, era il 7 agosto 2017, imponeva alle Ong di firmare un codice di condotta per continuare a salvare vite, come se fino ad allora avessero violato chissà quale norma.
Ora, si viene a sapere che a maggio 2017,ovvero, un mese prima la chiusura dei porti alle ONG decisa da UE e dal duo Gentiloni-Minniti, a Mineo (sede del CARA più grande d’Italia) si svolse un incredibile incontro tra il numero uno dei trafficanti di esseri umani, Bija, ed alcuni delegati inviati dal governo italiano.
Il 24 luglio del 2019 è il turno di Matteo Salvini, da poco ministro dell’interno, a proporre ai libici di Al Serraj di costruire altri “Centri di accoglienza” nel sud della Libia e aiuti “tecnici ed economici” per mettere Tripoli nelle condizioni di controllare il flussi migratori. Il ministro dell’Interno ha incontrato a Tripoli l’omologo Abdulsalam Ashour e il vicepresidente del Consiglio presidenziale Ahmed Maitig. Aveva però anticipato via twitter, come al solito, il succo della sua proposta: “Hotspots dell’accoglienza in Italia? Sarebbe problema per noi e per la Libia stessa perché i flussi della morte non verrebbero interrotti. Noi abbiamo proposto centri di accoglienza posti ai confini a Sud della Libia per evitare che anche Tripoli diventi un imbuto, come Italia”.
Un durissimo rapporto del Consiglio di sicurezza aveva però già da anni denunciato che: «Abd al-Rahman Milad (alias Bija) e altri membri della Guardia costiera sono direttamente coinvolti nell’affondamento di imbarcazioni migranti utilizzando armi da fuoco».
Le foto dell’incontro nel maggio 2017 (Governo Gentiloni, ministro dell’interno Minniti) tra il numero uno dei trafficanti di esseri umani, Bija, e delegati inviati dal governo italiano sono nell’incredibile inchiesta di Nello Scavo su l’Avvenire.
*****
Nello Scavo, venerdì 4 ottobre 2019 – L’Avvenire
Le foto dell’incontro nel 2017 tra il numero uno dei trafficanti di esseri umani, Bija, e delegati inviati dal governo.
Quando il minibus coi vetri oscurati entra nel Cara di Mineo, solo in pochi conoscono la composizione della misteriosa delegazione da Tripoli. È l’11 maggio 2017. L’Italia sta negoziando con le autorità libiche il blocco delle partenze di profughi e migranti. Oggi sappiamo che quel giorno, senza lasciare traccia nei registri d’ingresso, alla riunione partecipò anche Abd al-Rahman al-Milad, il famigerato Bija.
Le numerose immagini ottenute da Avvenire attraverso una fonte ufficiale, documentano quella mattinata rimasta nel segreto. Accusato dall’Onu di essere uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawyah, aveva ottenuto un lasciapassare per entrare nel nostro Paese e venire accompagnato dalle autorità italiane a studiare «il modello Mineo», da dove in questi anni sono passati oltre 30mila migranti. Accordi indicibili che proseguono anche adesso, nonostante le reiterate denunce delle Nazioni Unite.
All’incontro, partecipavano anche delegati nordafricani di alcune agenzie umanitarie internazionali, probabilmente ignari di trovarsi seduti a fianco di un signore della guerra dedito alle peggiori violazioni dei diritti umani. Non deve essere un caso se, pochi giorni dopo, le Nazioni Unite in un durissimo rapporto del Consiglio di sicurezza denunciavano: «Abd al-Rahman Milad (alias Bija) e altri membri della Guardia costiera sono direttamente coinvolti nell’affondamento di imbarcazioni migranti utilizzando armi da fuoco». Si chiede il congelamento dei beni e il divieto di viaggio di Bija al di fuori della Libia.
Nel dossier quel nome viene citato per sei volte: «È il capo del ramo di Zawiyah della Guardia costiera. Ha ottenuto questa posizione grazie al supporto di Mohammad Koshlaf e Walid Koshlaf». Questi erano a capo della “Petroleum Facilities Guard”, controllavano la locale raffineria disponendo di una milizia di almeno duemila uomini.
Sembra impossibile che le autorità italiane non sapessero chi era l’uomo seduto al tavolo dello strano convegno.
Diversi mesi prima del suo arrivo in Italia, Bija era finito nel mirino di una raffica di inchieste giornalistiche e investigazioni internazionali. Il 14 febbraio 2017 The Times diffonde un video nel quale si vede un uomo in divisa mimetica picchiare selvaggiamente un gruppo di migranti su un gommone. Ripreso di spalle, il miliziano appare con una menomazione alla mano destra. Proprio come Bija, che durante i combattimenti anti Gheddafi del 2011 aveva perso alcune dita.
Il 20 febbraio la giornalista italiana Nancy Porsia pubblica un approfondito reportage in inglese per Trt World, proseguendo un’inchiesta apparsa già il 6 gennaio in italiano su The Post Internazionale, nel quale spiega che «Bija lavora sotto la protezione di Al Qasseb, nom de guerre di Mohamed Khushlaf, che è a capo del dipartimento di sicurezza della raffineria di Zawiyah. Supportato da suo cugino e avvocato Walid Khushlaf, Al Qasseb esercita il controllo totale sulla raffineria e sul porto di Zawiyah. I cugini Khushlaf fanno parte della potente tribù Abu Hamyra, così come Al Bija».
Poi arriveranno articoli pubblicati da Il Messaggero, Il Mattino, la Repubblica e l’Espresso. L’anno prima, siamo nel 2016, erano stati anche Panorama e Il Giornale a indicare Abdou Rahman quale uomo chiave del traffico di esseri umani. Numerose e ininterrotte da anni sono le inchieste di Francesca Mannocchi per l’Espresso e svariati altri media, di Sergio Scandura per Radio Radicale, oltre che di alcune tra le principali testate del mondo.
Nonostante la grande mole di informazioni, Bija viene accompagnato in Italia e presentato come «uno dei comandanti della Guardia costiera della Libia», racconta una fonte ufficiale presente al meeting di Mineo.
Quel giorno però accade un imprevisto. Un migrante libico ospitato nel Cara finisce per errore nei pressi del prefabbricato dove erano attesi Bija, alcuni delegati del premier Serraj e del Ministero dell’Interno tripolino. Quando dal minibus di una azienda di servizi turistici della provincia di Catania sbarcano i libici (almeno sei), l’immigrato si allontana spaventato: «Mafia Libia, Mafia Libia», dice in italiano.
Le immagini che oggi pubblichiamo parzialmente per proteggere l’identità di diversi funzionari italiani presenti a vario titolo, mostrano Abdou Rahman seduto accanto a due suoi connazionali, un uomo e una donna. Ascolta senza mai proferire parola. Prende nota e ogni tanto fa cenno all’emissario del ministro dell’Interno del governo riconosciuto di intervenire. I libici fanno domande precise: «Quanto vi paga il governo italiano per ospitare ogni migrante qui? Quanto costa annualmente il Cara di Mineo».
Poi, racconta la fonte di Avvenire, in modo neanche troppo diplomatico «fanno capire che in fondo il “modello Mineo” si può esportare in Libia e che l’Italia potrebbe finanziare la realizzazione di strutture per migranti in tutto il Paese, risparmiandosi denaro e problemi». Da lì a poco parte l’assedio alle Ong e vengono annunciati interventi dell’Italia e dell’Europa per aprire campi di raccolta nel Paese nordafricano.
In realtà, ha spiegato l’inviato del Tg1 Amedeo Ricucci nel corso di uno speciale mandato in onda dopo essersi recato di persona a Zawyah per intervistare proprio Bija appena dopo il viaggio in Sicilia, «è come se giocassero a guardie e ladri, ma in salsa libica: con i ruoli degli uni e degli altri che si invertono di continuo a seconda delle convenienze».
La trattativa deve essere andata a vantaggio dei trafficanti, se Bija è ancora in servizio. E anche i governi che si sono susseguiti hanno continuato a sostenere indirettamente ma consapevolmente le attività dei boss libici. Diversi testimoni in indagini penali «hanno dichiarato – si legge nei report dell’Onu – di essere stati prelevati in mare da uomini armati su una nave della Guardia costiera chiamata Tallil (usata da Bija, ndr) e portati al centro di detenzione di al-Nasr, dove secondo quanto riferito sarebbero stati detenuti in condizioni brutali e sottoposti a torture».
Queste informazioni hanno avuto un inatteso riscontro proprio nei giorni scorsi. Mentre gli investigatori di Agrigento e Palermo indagavano per arrestate i tre presunti torturatori camuffati tra i migranti dell’hotspot di Messina, alcune delle vittime hanno raccontato che a decidere chi imbarcare sui gommoni era «un uomo libico, forse di nome “Bingi” (fonetico), al quale mancavano due falangi della mano destra».
Secondo un altro migrante l’uomo era soprannominato “Bengi”, e «si occupava di trasferire i migranti sulla spiaggia; era lui, che alla fine, decideva chi doveva imbarcarsi; egli era uno violento ed era armato; tutti avevamo timore di lui». Quando gli chiedono se qualche volta avesse sentito il suo vero nome, il migrante risponde con sicurezza: «Lo chiamavano Abdou Rahman».
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento