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08/02/2024

Senegal: il colpo di Stato istituzionale della Françafrique

Sabato 3 febbraio, a tre settimane dal primo turno delle elezioni presidenziali, alle quali non si sarebbe potuto neanche presentare, il capo di Stato senegalese Macky Sall ha rinviato lo scrutino sine die. Il 4 febbraio doveva iniziare la campagna elettorale.

Le motivazioni del presidente sono state, all’apparenza, alquanto bizzarre: «le opinioni contrastanti tra l’Assemblea nazionale ed il Consiglio costituzionale, in aperto conflitto rispetto ad un supposto affare di corruzione di giudici».

Lunedì 5, differenti fonti riferivano di un probabile rinvio di sei mesi, con ipotetico vuoto di potere che si sarebbe concretizzato dal 2 aprile, giorno della fine del mandato di Sall; ma erano previsioni “per difetto”, essendo state rimandate a dicembre le consultazioni.

Si è aperta così una inedita crisi istituzionale, e bisogna andare al 1962, due anni dopo l’indipendenza del paese, con lo scontro tra l’allora presidente Léopold Sédar Senghor ed il presidente del consiglio dei ministri, Mamadou Dia, per trovarne una simile.

La decisione presa da Sall non ha alcune base giuridica valida; siamo di fronte ad un vero e proprio “colpo di Stato istituzionale”, visto il suo carattere unilaterale ed anti-costituzionale.

Facciamo un breve sintesi del modo in cui si è giunti a questa forzatura.

Il 3 luglio scorso Sall scioglie i dubbi, dichiarando che non si presenterà per il terzo mandato, dopo la prima elezione nel 2012 e poi nel 2019, decidendo di non appoggiarsi ad una interpretazione capziosa secondo cui la revisione costituzionale del 2016 gli avrebbe concesso la possibilità di candidarsi, azzerando il conto dei suoi mandati.

Una decisione presa anche per placare gli animi rispetto alla seconda ondata di manifestazioni soffocate nel sangue nel giro di pochi anni: 56 morti, secondo Amnesty International, dal 2021 ad oggi.

La scelta di un successore è tutt’altro che scontata e lineare, e la decisione presa a settembre da Sall in favore di Amadou Ba – un tecnocrate senza base elettorale nel paese, già ministro dell’economia (2013-2019), poi fino al 2020 degli Affari Esteri e successivamente Primo Ministro – non ha un consenso unanime neanche all’interno del partito presidenziale, Alliance pour la République (APR), né nella coalizione di cui fa parte.

Ba è un successore gradito agli occhi della cosiddetta “comunità internazionale” (la parte occidentale, ovvio), ma non è detto possa essere effettivamente eletto, specie se si dovesse andare al ballottaggio, visto il precedente dello stesso Sall che, allora nella versione di “outsider”, nel 2012 riuscì a battere il presidente uscente Abdoulaye Wade (2000-2012) solo al secondo turno.

L’opposizione disponeva di una figura carismatica che gode di un consenso crescente, come il giovane Ousmane Sonko.

Ex ispettore fiscale, Sonko appare sulla scena politica nel 2014 come “lanceur d’allerte” denunciando delle irregolarità nelle attribuzioni di permessi di esplorazione petrolifera, affermando il proprio profilo di “incorruttibile”; sviluppa nel tempo un discorso “anti-sistema” che seduce una buona parte della popolazione senegalese, tra cui, in particolare, le nuove generazioni sempre più inclini alla ritrovata sensibilità panafricanista.

È alla testa del PASTEF (Patriotes africains du Sénégal pour le travail, l’éthique e la fraternité), la maggiore coalizione politica d’opposizione.

Nel 2022 è eletto sindaco della propria città, Ziguinchor, e alcuni a lui vicini si impongono nei comuni della periferia di Dakar, la capitale.

Per Sall, così come per l’establishment economico – tra cui le multinazionali francesi – prosperato grazie all’attuale modalità della gestione della “cosa pubblica”, Sonko diviene una minaccia.

Così come era successo con i due principali rivali di Sall nelle elezioni del 2019 (Karim Wade, figlio del vecchio presidente e Khalifa Sall), lo strumento giudiziario è stato attivato producendo delle condanne che impediscono a Sonko di presentarsi alle elezioni.

In questo caso però non solo vengono colpiti ripetutamente Sonko o i dirigenti di spicco del PASTEF, ma tutta l’opposizione, in una torsione autoritaria evidente ma completamente ignorata dalla cosiddetta “comunità internazionale”.

Non proprio casualmente Sonko, nel 2023, viene condannato due volte.

La sua seconda condanna, a giugno, fa da detonatore per una serie di mobilitazioni che vengono violentemente represse e portano alla “dissoluzione” per via amministrativa del PASTEF, reso nei fatti illegale.

Queste condanne hanno portato alla dichiarazione di ineleggibilità di Sonko per 5 anni, nel gennaio scorso, e il Consiglio Costituzionale ha così rigettato la sua candidatura.

Ma la vittoria per il candidato prescelto da Sall non sarebbe stata comunque scontata.

Il piano B del PASTEF si è concretizzato con la candidatura di Bassirou Diomaye Faye, autorizzato a presentarsi nonostante sia imprigionato da aprile con l’accusa di «attentato alla sicurezza dello Stato, appello all’insurrezione e associazione a delinquere».

Un prigioniero politico co-fondatore del PASTEF che gli analisti davano come possibile vincitore scelto da Sonko, che ha annunciato la sua decisione in un video.

Un incubo per Sall nonché per la sua maggiore “tutrice”, la Francia, parecchio preoccupata per i discorsi antimperialisti di Sonko e del suo “sostituto”, visto che è già stata cacciata dal Sahel e può ormai appoggiarsi solo su Ciad e Costa d’Avorio, oltre al Senegal.

Per evitare questo scenario, Sall ha pensato di “cooptare” il suo vecchio avversario, figlio del precedente presidente – Abdoulaye Wade – che viveva in esilio in Qatar ma che è potuto rientrare, senza scontare la pena cui era stato anche lui condannato, nel giugno scorso.

Sarebbe stato libero di presentarsi alle elezioni a nome del Parti démocratique sénégalais (PDS), partecipando in caso di ballottaggio ad una alleanza con Ba contro il PASTEF, ma il 20 gennaio scorso il Consiglio Costituzionale ha deciso diversamente: ha dovuto infatti invalidarne la candidatura per la sua doppia nazionalità, franco-senegalese.

Una decisione formalmente ineccepibile, considerato che chi ha una doppia nazionalità non può presentarsi per dirigere il paese, e che la sua rinuncia alla “nazionalità straniera” – controfirmata dal Primo ministro francese Attal – è solo del 16 gennaio, ossia tre settimane dopo la sua candidatura ufficiale.

Un piano teoricamente “ben congegnato”, ma che si è rivelato un pasticcio politico-legale su cui era impossibile sorvolare.

Un vero e proprio rompicapo politico che Sall ha voluto risolvere con una forzatura senza precedenti, di cui si “vociferava” da giorni, aprendo così una crisi istituzionale per mano del PDS, i cui deputati hanno chiesto una Commissione d’Inchiesta sul Consiglio Istituzionale, sostenuta anche da una parte della maggioranza, cioè dai deputati della coalizione che ha eletto l’attuale presidente.

Sall, tre giorni dopo, ha preso la palla al balzo dichiarando che tali ‘supposizioni’ potrebbero «nuocere gravemente alla credibilità dello scrutinio installando i germi di un contenzioso pre e post-elettorale».

Paradossalmente per risolvere una crisi istituzionale, Sall ha deciso così di aprirne un’altra, probabilmente più grave se si considera la reattività della piazza contro la decisione e l’ulteriore livello di delegittimazione per una leadership politica arroccata al potere.

Domenica a Dakar, una manifestazione è stata dispersa solo con l’uso di gas lacrimogeni.

Ma la repressione non si è limitata alle strade, con internet “oscurato” – come è avvenuto a giugno – e l’università di Dakar che rimane chiusa da allora. Studenti e organizzazioni sindacali rimangono però ‘vigili e critici’ rispetto al corso “bonapartista” scelto da Sall.

La cinquantina di deputati dell’opposizione che, cantando ripetutamente l’inno nazionale, facevano ostruzionismo all’approvazione della legge che posticipava le elezioni al 15 dicembre, sono stati evacuati manu militari dai reparti speciali della gendarmerie a viso coperto.

Non certo una immagine di “rispetto delle istituzioni rappresentative”. Per la cronaca, la legge è stata poi votata con 105 voti a favore contro uno solo contrario.

Lo stesso dispositivo legislativo dà a Sall la possibilità di restare in carica fino all’insediamento del successore. Una sorta di “stato d’eccezione permanente” che liquida le residuali garanzie istituzionali.

È una “rottura storica” con la prassi per cui, dal 1963, le elezioni si sono tenute sempre nella data prevista e con l’istituzione del multipartitismo integrale – nel 1981 sotto la presidenza di Abdou Diouf.

Come è stato scritto, riferendosi a Sall, nel preoccupato editoriale di lunedì su Le Monde: «Nel mentre il paese ha i nervi a fior di pelle, a causa delle sue manovre e di una opposizione sempre più radicale, in un contesto di povertà endemica dove la gioventù è lasciata senza altre prospettive che l’emigrazione, rischia di mettere fuoco alle polveri».

Gli fa eco il giudizio di Francis Laloupo, analista geopolitico, che afferma: «c’è una grande rabbia oggi in Senegal. Il popolo si sente tradito. La democrazia senegalese è considerata come un patrimonio collettivo e a questo riguardo ogni cittadino si sente ferito. Oggi, nulla garantisce che i senegalesi si rassegneranno alla decisione del posticipo delle elezioni al 15 dicembre, come è stato votato all’Assemblea Nazionale».

Siamo convinti che quest’atto di forza si rivelerà un boomerang non solo per il presidente uscente ed il suo entourage, corrotto fino al midollo e pronto a sacrificare le più banali garanzie democratiche per godere di una rendita politica che la popolazione vuole legittimamente sottrargli.

Sarà l’ennesimo passo falso per uno dei residui perni dell’“Africa Francese” nella regione.

Come afferma una delle figure più in vista del nuovo panafricanismo: “finiranno per comprendere”.

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