30/09/2024
Laboratorio Palestina
di Nico Maccentelli
Laboratorio Palestina di Antony Loewenstein, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00
Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo
Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi la formula è in perfetta malafede. Se l’hasbara, ossia quella rete ben organizzata dal sionismo per screditare e buttare fango su tali realtà solidali con il popolo palestinese e che è ramificata in ogni partito istituzionale, in ogni redazione mediatica, insomma ovunque viene prodotta informazione e politica, è così potente una ragione c’è.
E qui passiamo alla seconda premessa: la ragione sta nel fatto che senza Israele, l’Occidente collettivo, ossia quella parte di mondo dominata dall’unipolarismo atlantista a trazione USA, avrebbe seri problemi di tenuta davanti all’avanzare di quell’altra parte di mondo che si sta affermando sul piano economico e geopolitico e con i conflitti in corso anche sul piano militare. La questione palestinese non è qualcosa di a sé stante ma è parte di quella guerra mondiale a pezzi, per parafrasare il Papa, che rischia ogni giorno di più di diventare mondiale e nucleare. Per questa ragione, al di là degli appelli pelosi e ipocriti di tale Occidente a una tregua in Palestina e in Libano, la potenza militare di questo cane da guardia che non conosce limiti e regole, serve eccome.
Fatte queste premesse, ora posso iniziare a parlare di questo libro fondamentale per chi voglia non solo comprendere cosa sia diventato lungo tutti questi decenni Israele, ma anche la forte correlazione con il militarismo bellicista occidentale e le sue tecnologie di guerra, come di controllo e sorveglianza sulle popolazioni in funzione di prevenzione controrivoluzionaria.
Di quest’opera, scrive su Haaretz Gideon Levy (che abbiamo a commento in retrocopertina), giornalista e massimo oppositore della politica d’apartheid dei governi sionisti di estrema destra del suo stesso paese: “Un libro ammirevole, documentato e basato su prove sul lato meno conosciuto dell’occupazione. Fornisce un ritratto di Israele, uno dei dieci maggiori esportatori di armi al mondo, che commercia in morte e sofferenza e le vende a chiunque voglia comprarle”.
Qui le specifiche del libro e una spiegazione sintetica data dalla casa editrice.
La prefazione è di Moni Ovadia, nella quale osserva: “Oggi l’opera di Antony Loewenstein (…) illumina un aspetto parallelo consustanziale della pratica sionista: la ripulsa dei grandi valori etici, spirituali e universalistici dell’ebraismo, per imboccare il cammino idolatrico della forza, della prepotenza, di un nazionalismo fanatico, dell’idolatria della terra”. E definisce il sionismo: “un progetto colonialista di impianto etnonazionalista che ha sempre mirato a cancellare l’identità palestinese”.
E tornando alla prima premessa della mia recensione, chi si batte per il popolo palestinese è ben conscio che ci sono nel mondo associazioni ebraiche e intellettuali ebrei che si oppongono in vari modi al sionismo razzista delle classi dirigenti estremiste israeliane. E questo ci porta a iniziare inquadrando l’autore, che sicuramente appartiene a questa opposizione ebraica.
Antony Loewenstein è un ebreo cresciuto a Melbourne, in Australia, “...dove il sostegno a Israele”, scrive, “senza essere una religione
imposta, era dato per scontato” (1). I suoi nonni erano arrivati in
Australia fuggendo dalla Germania e Austria naziste nel 1939.
Ha preso coscienza di cosa fosse Israele andando in Palestina. E la sua
ricerca ha preso corpo con analisi e dovizia di dettagli sulla macchina
bellica e tecnologica sulle armi e i dispositivi repressivi dell’entità
sionista. Ne fa anzitutto la storia, partendo dall’ideologia sionista
che non va confusa con l’ebraismo, anche se la prima falsifica la
seconda in modo strumentale. È lo stesso padre del sionismo, Theodore
Hertzl, menzionato da Loewenstein, a dare la spiegazione più esauriente
della funzione politica di Israele: “...scrisse ne Lo Stato ebraico, il
suo influente pamphlet del 1896: «Lì [in Palestina] saremo un settore del
muro dell’Europa contro l’Asia, fungeremo da avamposto della civiltà
contro la barbarie» (2).
Non ricorda forse, a distanza di 130 anni la definizione data da Borrell sul giardino europeo e la giungla che lo circonda? La logica è la medesima ed è esattamente il suprematismo di cui si nutrono le élite dominanti in Occidente e spiega in parte la mia seconda premessa sul piano ideologico.
La tecnologia militare israeliana ha supportato e supporta con la vendita di armi e istruttori militari i peggiori regimi totalitari: il Guatemala di Rios Montt, El Salvador, Colombia, Haiti dei Doc padre e figlio, Birmania dei militari, Paraguay (che aveva dato per altro rifugio a Mengele! pecunia non olet), il Cile di Pinochet, il Nicaragua di Somoza e altri, la lista è lunga, tanto che Loewenstein scrive: “Il “Sud globale” è stato controllato e pacificato con le armi (principalmente) israeliane e statunitensi. Né l’antisemitismo né l’estremismo hanno impedito la collaborazione con Stati che depredano le risorse o le persone. A distanza di decenni dalla sua creazione, questo sistema di collusione è ancora in piedi e opera senza problemi. Niente ha mai ostacolato seriamente lo sviluppo, né durante la guerra fredda né nel contesto dopo l’11 settembre 2001”. (3)
Scrive Loewenstein: “Chiaramente Israele desiderava essere un complice compiacente negli obiettivi di dominio di Washington nell’America Centrale degli anni Ottanta. Un ministro israeliano dell’Economia, Yaakov Meridor, nei primi anni del decennio disse che Israele voleva essere un mandatario degli interessi statunitensi laddove la superpotenza globale non poteva o era restia a vendere armi direttamente. «Noi diremo agli americani: non fateci concorrenza nei Caraibi o in altri posti dove non potete vendere armi direttamente. Lasciate che lo facciamo noi. [...] Israele sarà il vostro intermediario”. (4)
L’attività di ricerca e produzione riguarda le armi in senso classico, sempre più sofisticate, ma anche la cybersicurezza e tutte quelle tecniche del controllo sociale e sulle persone. Lascio ai lettori la copiosa documentazione di quest’opera. Mi limito a fare un paio di considerazioni che non possono sfuggire o essere sottovalutate in chi intende contrastare la guerra interna ed esterna che USA-UE-NATO-Israele stanno conducendo nei vari quadranti e al proprio interno.
Israele si vanta in campo pubblicitario vero e proprio dell’efficacia dei suoi prodotti, avendoli sperimentati sui campi di battaglia, come sosteneva David Ivri, che è stato direttore generale del ministero della difesa israeliano (5). Questo aspetto non è secondario: la migliore promozione delle tecnologie belliche e cyber israeliane è la sperimentazione sul campo sulle popolazioni, le persone in genere, in una sorta di mengelismo a fini di profitto e di sostegno al dominio Occidentale.
La prima considerazione è nella “sorveglianza di massa israeliana”, ossia nel trattare in particolare e con un certo piglio scientifico da laboratorio-lager il popolo palestinese in Cisgiordania. Infatti lo spezzettamento del territorio che dovrebbe essere secondo risoluzioni ONU di pertinenza dell’Autorità Palestinese, non è solo al servizio di un’inarrestabile colonizzazione da insediamento, ma è funzionale alla sperimentazione e applicazione di tecnologie del controllo e della sorveglianza, molte delle quali in modalità soft e molto meno invasiva, ci ritroviamo anche nei nostri territori. Colonizzazione, controllo in loco ed export di metodologie, applicativi cyber, dispositivi d’ogni tipo integrati tra loro trasudano sangue e sofferenza palestinesi.
La cyber “sicurezza” israeliana, di cui Pegasus della NSO Group, società di cybersorveglianza è emblematica di come le aziende high tech israeliane siano alla base sia della sorveglianza nell’apartheid in Palestina, ma anche nell’export verso altri stati alleati di queste tecnologie del controllo a fini di spionaggio, e terrorismo, come si è visto nell’attacco ai dispositivi cerca persone in Libano a metà settembre. Uno stato canaglia come Israele che disprezza ogni risoluzione ONU, che compie massacri indiscriminati sui civili, da Gaza al sud del Libano, ha in mano e su questo collabora con gli USA, con MOSSAD e CIA insieme (6), il potere di condizionare le politiche per esempio di stati africani che acquistano i sistemi di sorveglianza israeliani e in cambio assicurano il loro voto in sede ONU (7).
Lowenstein scrive (8): “Il whistleblower dell’NSA Edward Snowden definisce NSO e altre aziende simili «l’industria dell’insicurezza». Ci va giù duro: «Il telefono nelle vostre mani esiste in uno stato di perpetua insicurezza, aperto a infezioni a opera di chiunque sia disposto a investire in questa nuova “industria dell’insicurezza”. I suoi affari consistono nell’inventare nuovi tipi di infezioni capaci di aggirare i più recenti vaccini digitali – noti anche come aggiornamenti di sicurezza – per poi venderli a paesi che occupano l’intersezione incandescente di un diagramma di Venn tra «desidera disperatamente gli strumenti dell’oppressione» e «Gli manca totalmente la capacità avanzata di produrli al proprio interno». Un’industria così , il cui unico obiettivo è la produzione di vulnerabilità, andrebbe smantellata»”.
E infatti Pegasus, scrive Lowenstein lo ritroviamo anche nell’intreccio tra stato messicano e organizzazioni criminali, come accaduto a Griselda Triana, giornalista, attivista dei diritti umani e moglie di Javier Valdes Cardenas, assassinato dal cartello di Sinaloa per l’attività del suo settimanale che indagava su corruzione e criminalità legata al traffico di droga (9). Triana dopo la morte del marito è stata spiata attraverso Pegasus e lo stato messicano non ha mai voluto dare spiegazioni in merito, del perché queste attenzioni nei confronti di una cittadina non certo pericolosa per le autorità messicane. O forse sì...
Nel capitolo 7, “le società dei social media non amano i palestinesi”, diviene chiaro come Meta (Facebook, ecc.), censurando tutto ciò che proviene dalla Palestina e che sia critico verso Israele, faccia emerge la collaborazione tra colossi social e l’Unità Cyber sionista, che ha carta bianca dalla Corte Suprema israeliana per operare dietro le quinte, occultando i rapporti segreti con società come Meta (10). La scusa “di prevenire atti di violenza” suona piuttosto ironica, se consideriamo la sproporzione in termini di violenza tra uno stato genocida e avvezzo alla pulizia etnica e una Resistenza esistenziale da parte di un popolo. Dunque non solo gli stati in capo al dominio USA, ma anche le multinazionali dei vari settori (in questo caso i tecnologici della comunicazione) cooperano attivamente con Israele, secondo il fine posto nella mia seconda premessa.
Sappiamo benissimo come la censura su Facebook operi in modo sistematico anche sui nostri account. Su questo tema non sono riuscito a spiegare a un “compagno”, tra l’altro con la professione legata alla comunicazione (illustratore, ma tant’è...), che infestando la mia bacheca sosteneva che se non voglio essere censurato basta solo che non usi Facebook (sic!), che il fatto di censurare e filtrare a milioni di persone le notizie spacciando le critiche per fake news, significa che dei grandi privati per conto dei governi imperialisti controllano l’opinione pubblica mondiale. A questo punto è arrivata certa inconsapevolezza.
Ma possiamo dire con una certa e documentata da Loewenstein ragione,
che gli apparati scientifici e di ricerca (quelli che vedono la
collaborazione delle nostre università con quelle israeliane), quelli
militari e industriali sono parte di una enorme e ramificata rete di
controllo e gestione nel mondo di ogni ambito con cui la sovrastruttura
di potere dell’imperialismo si regge: delle tecnologie di guerra alla
produzione di armi, alla produzione di sistemi di sorveglianza e
spionaggio, alle comunicazioni e al controllo selettivo della rete, in
una sorta di marketing totalizzante e goebbelsiano sulla pubblica
opinione occidentale.
E qui arriviamo alla questione finale, che dà il sottotitolo a questo
libro: Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il
mondo. Non mi soffermerò sulla parte che riguarda il controllo e la
sorveglianza sionista sul popolo palestinese: dai tornelli alla
biometria, dalle banche dati alle attività di spionaggio elettronico,
alla selettività discriminatoria su milioni di cittadini che ogni giorno
devo attraversare i check point israeliani per andare a lavorare o
all’ospedale, con restrizioni nei movimenti nel territorio. Un incubo.
Tanto che lo stesso Ovadia, sempre nella sua prefazione inquadra questo
aspetto ben documentato da Loewenstein: “I governi sionisti scelgono la cultura delle armi più distruttive,
delle più sofisticate tecnologie militari e di spionaggio sperimentate
nel laboratorio Palestina per dominare, opprimere e terrorizzare il
popolo più solo del mondo e sterminare migliaia di donne e bambini...”.
Voglio solo osservare come queste tecnologie si estendono anche nei nostri territori. Il periodo pandemico ha ben dimostrato di essere terreno di sperimentazione sul controllo e la sorveglianza di un’intera popolazione. L’Italia è stato forse il laboratorio più avanzato di queste tecniche.
Premialità e discriminazione anche solo per verificare la virtù in un condominio o nel fare la differenziata, sono solo un piccolo assaggio delle potenzialità che il sistema di potere capitalistico, i suoi apparati possono mettere in opera quando e come vogliono, oltre ogni immaginazione distopica. Gran parte di queste metodologie e tecnologie portano il simbolo della Stella di David e sono state sperimentate sulla pelle del popolo palestinese.
Qualcuno per esempio può vedere l’agenda 2030 “per lo sviluppo sostenibile” messo in cantiere dall’ONU(11) come un programma virtuoso, così come la città dei 15 minuti. Ma se ben lo guardiamo, il 1984 di Orwell è dietro l’angolo. Le limitazioni di movimento nello spazio urbano, l’obbligatorietà di azioni da compiere nella vita quotidiana sono l’ultima frontiera di un capitalismo che ci riduce a palestinesi che devono solo lavorare, consumare e crepare.
Il saggio di Loewenstein aggiunge un importante tassello nel darci il quadro di questa proiezione autoritaria globale, perché il tassello sionista è parte integrante e imprescindibile di tutte le pratiche totalitarie che l’Occidente (e non solo) sta mettendo in opera per contrastare l’altra parte del mondo, quella dell’80% che si sta affermando con il multipolarismo. Ma i rischi non sono solo nell'Occidente unipolare: ogni classe dominante, anche nel nome di nobili ideali collettivistici nasconde sul piano della più neutra tecnologia una volontà di dominio sulla popolazione. E questo potrà accadere finché esisteranno classi al potere (che siano composte da grandi privati, o burocrazie di stato, o un loro mix) e classi subalterne nel sistema mondo della riproduzione sociale capitalistica.
Note:
1. Laboratorio Palestina, pag. 7
2. Ibidem pag. 44
3. Ibidem pag. 43
4. Ibidem pag. 54
5. Ibidem pag. 40
6. Ibidem pag. 185
7. Ibidem pag. 186
8. Ibidem pag. 187
9. Ibidem pag. 184
10. Ibidem pag 234
Inoltre:
Per approfondire l’Agenda 2030, due contributi di Enzo Pennetta, docente di scienze naturali:
https://www.youtube.com/watch?v=LL3e6vHbLxI
https://www.youtube.com/watch?v=eSD3tc5UGyc
Infine, qui un’analisi di Manlio Dinucci sulla strategia del terrore israeliano, dove la copiosa documentazione di Loewenstein trova riscontro a partire dal prima citato episodio dell’attacco esplosivo a Hezbollah per mezzo dei cercapersone: una preparazione di anni (che quindi nulla c’entra con l’attuale escalation, ma molto con la vocazione terroristica dell’entità sionista) con sofisticate tecnologie, con l’uso di aziende fittizie create apposta e di prestanome, con un lavoro dei servizi di intelligence che facciamo fatica a pensare che siano limitati al solo Mossad.
(Apprendo in questo momento, in cui sto predisponendo questo articolo alla pubblicazione, dell’assassinio di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah insieme a svariati comandanti della resistenza libanese in riunione nel quartier generale a seguito di un attacco terroristico di Israele che, neanche a dirlo, ancora una volta viola ogni regola riconosciuta a livello internazionale.)
Sergej Lavrov, ministro degli affari esteri della Federazione Russa ha definito “disumano l’attacco di Israele al Libano mediante l’uso di dispositivi mobili esplosivi” e ha sollecitato un’indagine. Inoltre ha dichiarato che “Gli Stati Uniti erano a conoscenza dei preparativi di Israele per l’attacco con dispositivi mobili esplosivi in Libano” (fonte: l’Antidiplomatico).
Israele, con il suo governo di terroristi assassini e genocidi, e con il pieno appoggio degli USA e dei suoi ignobili vassalli, tra cui il protettorato, come definirlo, il bantustan italiano, ci sta portando dritti alla terza guerra mondiale.
Paderno Dugnano
di Marco Sommariva
Quando, nell’estate del 1980, misi sul piatto del giradischi Closer, il secondo album in studio dei Joy Division, mia madre mi chiese se potevo ascoltarlo con le cuffie invece che dagli altoparlanti dell’impianto stereo così che a lei, indaffarata in cucina, non arrivasse neppure una nota di quel disco. Negli anni precedenti aveva apprezzato qualsiasi vinile entrasse in casa, da Bruce Springsteen a Jackson Browne a Edoardo Bennato, da Patti Smith alla Premiata Forneria Marconi ai Pink Floyd, da Bob Marley a Eugenio Finardi ai Genesis alla colonna sonora del film Jesus Christ Superstar, e stiamo parlando di una donna credente che da ragazza, trent’anni prima, ascoltava Nilla Pizzi e Achille Togliani. In quegli anni arrivò a chiedermi come mai non avevo ancora acceso il giradischi e, persino, se potevo mettere un long playing piuttosto che un altro, ma coi Joy Division alzò subito bandiera bianca, disse proprio: “Non riesco ad ascoltare queste canzoni: sono tristi”.
Dopo più di quarant’anni ascolto ancora i Joy Division e vi garantisco che, al momento, non ho ancora preso in considerazione l’idea di ammazzare nessuno; scrivo così perché, poco dopo la tragedia di Paderno Dugnano, ho letto su Il Messaggero che il ragazzo che ha ucciso fratello e genitori, fra le altre cose, avrebbe detto: “Ascoltavo tanta musica triste. Soprattutto i Beatles. Sentivo in continuazione una loro canzone, The Long and Winding Road”, frase che ho sentito riportata anche in più di un programma televisivo. Come spesso accade, di fronte a certi drammi s’inizia a costruire castelli sul niente o poco più: “L’interrogatorio di R. non è solo la ricostruzione della dinamica del triplice omicidio, ma un viaggio nella mente del diciassettenne: il suo immaginario, i suoi pensieri, cosa abbia trasformato un ragazzo studioso e sportivo in un triplice omicida. E agli inquirenti racconta di quel brano che parla di una lunga e tortuosa strada fatta di solitudine, la stessa che stava percorrendo.”
Qualche corto circuito mentale mi riporta ai tempi in cui se ne scrivevano di tutti i colori sui fumetti di Dylan Dog, comprese considerazioni dove si affermava che i ragazzi che leggevano certi episodi del personaggio creato da Tiziano Sclavi, rischiavano di rimanere avvolti da una sensazione di impotenza di fronte a un mondo fatto di orrori, di violenza e sopraffazione, e che per loro era facile cadere nella trappola del pessimismo, che nelle pagine dell’Indagatore dell’incubo non si comprendeva dove finiva l’ironia e dove cominciava l’intenzione seria di proporre ai lettori un approccio con il mondo dell’occultismo e che alla fine, ridendo e scherzando, i ragazzi sembravano avvicinarsi a certi pericolosi argomenti e, soprattutto le menti più fragili, finivano davvero per interessarsi al satanismo, e così dallo scherzo si rischiava di passare alla pratica reale. E via cantando.
E chissà mai che, per difendere i nostri ragazzi, prima o poi non si arrivi a una proposta di legge in cui si chieda di vietare musica, fumetti e, perché no, cinema, teatri e quant’altro, magari sulla base dell’esperienza afghana che dimostra gli ottimi risultati raccolti dai talebani da iniziative quali bruciare strumenti musicali, perché – come l’ascolto della musica e il ballo, vietati pure questi – sono in grado di corrompere i giovani.
Sulla tragedia di Paderno Dugnano, lo scorso 3 settembre ho letto sul quotidiano Avvenire un interessante articolo di Nicoletta Martinelli Il pezzo inizia con un’affermazione di Simone Feder, psicologo presso la Casa del Giovane a Pavia, il quale ricorda che in Italia, sino al 1986, i canarini erano usati nelle miniere per segnalare la presenza di gas tossici che, se respirati, avrebbero ucciso i minatori; per i lavoratori, gli uccellini in questione erano sia un allarme visivo quando morivano, sia un allarme uditivo quando smettevano di cantare. Lo psicologo ricorda quanto sopra per dire che, oggi, i nostri canarini sono gli adolescenti, ma che il problema non va cercato nella morte del canarino, fuor di metafora nei gesti estremi in cui vediamo coinvolti i ragazzi, ma nell’aria che è tossica e, quindi, nella società.
Probabilmente, è stato questo richiamo alle miniere a farmi tornare in mente certi passaggi del Germinal di Emile Zola, che sembrano adattarsi a una disgrazia, apparentemente, molto distante dalle vicende narrate dallo scrittore francese, nel romanzo del 1885.
L’articolo della Martinelli prosegue citando Caetano Veloso che cantava Da vicino nessuno è normale – frase che, se non erro, è stata attribuita anche a Franco Basaglia –, facendo notare che il cantautore brasiliano è smentito dal diciassettenne di Paderno Dugnano il quale, pur avendo ucciso genitori e fratellino, è sempre stato ritenuto normale anche da vicino, se si dà credito alle descrizioni che amici e parenti fanno del ragazzo; amici e parenti tra i quali, come pare abbia confessato agli inquirenti, il ragazzo si sentiva un “corpo estraneo”, “oppresso”. Dato che sembra che queste sensazioni non siano nate il giorno della strage ma prima, mi è venuta in mente questa frase di Germinal: “…non era una vita possibile quella d’aspettare inerti delle cose che si sarebbero realizzate forse fra cento anni.”
E quando lo psicologo Feder spiega che il disagio di un ragazzo può essere invisibile, spesso celato e gestito dal giovane con una sofferenza dentro le mura, privata, silenziosa, mi viene in mente che questo celare potrebbe essere il necessario angolo di menzogna citato da Zola: “Quando si vive come bestie, a capo chino, è pur necessario un angolo di menzogna, dove uno si diverta a regalarsi quelle cose che non potrà mai possedere.”
Nel pezzo di Avvenire leggo anche che, nel caso in oggetto, la premeditazione ha convissuto con l’agito impulsivo; pescando ancora da Germinal, a mio modesto parere potrebbero aver fatto la loro parte anche il coraggio, magari frutto della certezza di essere nel giusto “quando si è dalla parte della ragione si sa essere anche coraggiosi” e la casualità “spesso non si fa il male solo perché mancano le occasioni”.
L’articolo sposta, poi, il discorso sui genitori ponendo la domanda, come spesso si fa in queste situazioni, dov’erano e cosa facevano mentre i loro figli sbarellavano, ricordando che quando un adolescente lancia una sfida deve esserci un adulto pronto ad accoglierla, ma che ci manca la capacità o la voglia di aiutare i giovani a gestire anche le frustrazioni e che, di fronte alla fatica dell’essere genitori, si passa la responsabilità agli specialisti. E così, quando leggo su Il Fatto Quotidiano che lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet, interpellato da Il Messaggero, provando ad analizzare i motivi e le circostanze che possono favorire il quadro di un delitto di questo genere, afferma che “Non c’è una regola. Ed è avvenuto perché non parliamo più. Abbiamo scambiato i soldi con le parole. Una volta si parlava e non c’erano soldi”, ripenso a un passaggio di Germinal in cui “la folla” citata richiama alla mia mente il ragazzo diciassettenne: “…erano il suo vestito di seta, il suo mantello di pelliccia, perfino la piuma bianca del suo cappellino, che esasperavano la folla. Era profumata, aveva un orologio, la pelle fine, da fannullona, che non aveva mai toccato il carbone.”
E quando leggo che il mondo giovanile ha rotto gli argini e la comunità educante è ancora in cerca di un modo per assistere, accompagnare e intervenire sulle fragilità e le vulnerabilità dei giovani, rivedo questi due passaggi del buon’Émile: “Quel che mi dà fastidio sono i vili che guardano senza far niente, mentre noi rischiamo la nostra vita” e “il piacere di vivere se ne va quando se n’è andata la speranza…”
Leggo anche che il malessere che descrive R. che ha ucciso la famiglia, è lo stesso di molti altri ragazzi ed è l’incapacità di saper dare il nome alle cose, di saper definire con parole, concetti, idee e immagini quello che si sta provando, un’incapacità di analisi che diventa un malessere insuperabile perché non saper descrivere un problema ha come conseguenza non saper chiedere aiuto per risolverlo. È a questo punto che mi viene in mente un romanzo di Mario Vargas Llosa, Chi ha ucciso Palomino Molero?, dove un personaggio, facendo riferimento alla figlia, dice: “Per portare Alicita a New York ho venduto la casa dei miei genitori. Ho dato fondo a tutti i miei risparmi. Ho persino impegnato la mia pensione di vecchiaia. Negli Stati Uniti guariscono tutte le malattie del mondo, fanno ogni sorta di miracoli scientifici. Non è quanto dicono tutti? Be’, se è così, qualsiasi sacrificio è giustificato. Salvare quella bambina. E salvare anche me. Non l’hanno guarita. Ma, almeno, hanno scoperto cos’aveva. Delusions. Non guarirà mai perché non se ne guarisce. Aumenta, semmai. Prolifera col tempo, come un cancro finché la causa è lì, a provocarlo.” Parlando di parole utili a identificare i problemi ma che purtroppo spesso non si trovano, penso al divario sempre più ampio che quotidianamente riscontro tra le parole che vengono pronunciate e il pensiero che si aveva intenzione di esprimere, distanza che rende ormai approssimativa ogni tipo di comunicazione, anche la più semplice.
Ungaretti scriveva nell’Allegria di naufragi: “Si sa che tra le parole e ciò che si vuol dire c’è sempre un divario enorme, anche quando magari sembri piccolissimo… Dirò dunque che cercavo l’approssimazione meno imprecisa, la riduzione di quanto possibile di quel divario ineliminabile che c’è tra le cose da dire e il modo di dirle.”
Credo, però, sia venuto il momento di chiedersi se, per caso, questa mancanza di parole non sia frutto di un lavorio iniziato diverso tempo fa che voleva proprio ottenere questo, zittirci, silenziarci perché non ci si lamentasse, non si protestasse; sintetizzava Umberto Galimberti in un’intervista: “Se hai poche parole non puoi avere tanti pensieri, perché i pensieri sono proporzionali alle parole che possiedi: io non posso pensare qualcosa di cui non ho la parola. Quando ho poche parole, penso poco.”
A questo punto, mi verrebbe da ipotizzare questo… il Sistema per difendersi dagli attacchi e garantirsi la sopravvivenza, fa in modo di ridurre il più possibile il numero di parole a disposizione delle persone che governa, queste accettano di buon grado il tutto perché, in fondo, mica vengono tolti loro i social o i campionati di calcio e, così, mentre ci si rende conto di non conoscere più parole a sufficienza per contestare chi ci usa, i nostri figli si uccidono o ci ammazzano perché ammutoliti da quello stesso Sistema contro cui non siamo più capaci di lottare.
Il Giacomo Leopardi che, se non cambieremo strada, un giorno verrà vietato nelle scuole perché non politically correct, nello Zibaldone scriveva: “Un’idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita o mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.”
Anche il linguista Tullio De Mauro ci aveva avvertito che la distruzione del linguaggio è la premessa a ogni futura distruzione eppure, nonostante i numerosi ammonimenti, leggevo in questi giorni su Rolling Stone che sempre più artisti si autocensurano come, per esempio, Patti Smith che ha tolto il brano Rock ‘n’ Roll Nigger – galeotto fu il nigger, ergo negro – da tutte le edizioni in streaming del suo album Easter del 1978.
Eppure, tutto ciò che oggi ci fa vergognare del nostro passato ha generato in noi degli anticorpi utili per non commettere errori simili: sarà mica proprio qui, nel desiderio di cancellare le nostre vergogne l’origine dei nostri problemi?
Biografie “democratiche”: Lia Quartapelle
Nelle elezioni di marzo 2013, viene eletta alla Camera dei deputati. Da quell’anno fa parte della Direzione del Partito Democratico.
Nella XVII legislatura (2013-2018) è membro della Commissione Esteri. Nel 2015 accompagna Matteo Renzi alla “Conferenza per il finanziamento dello sviluppo di Addis Abeba”.
Grazie a una sua proposta di legge approvata all’unanimità, la Brigata Ebraica ha ricevuto la medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza.
A marzo 2021, diventa responsabile esteri e portavoce internazionale e del Partito Democratico nella segreteria di Enrico Letta, tra i fautori più accesi dello scontro militare con la Russia e l’invio di armi all’Ucraina.
Nella XIX legislatura (quella attuale), diventa vice-presidente della Commissione parlamentare esteri, e coordina gli intergruppi parlamentari di lavoro United Ukraine-Italia, Cooperazione Internazionale, e “Amici del Popolo Bielorusso”. In questa veste conduce la prima delegazione parlamentare italiana in visita in Ucraina, con cui visita la cattedrale di Odessa poco dopo il bombardamento del 22 luglio 2023.
Tuttavia, nella sua decennale carriera politica, sempre ai vertici della politica estera del PD, non hai mai speso una parola sul massacro della Casa dei Sindacati ad Odessa del 2 maggio 2014. Una strage terribile ad opera di sostenitori del governo golpista guidati da squadre di neonazisti ucraini che ufficialmente provocò 48 vittime ma che, secondo stime non ufficiali, potrebbero essere state anche 150, cui vanno aggiunti diversi centinaia di feriti scampati per poco all’eccidio. Le autorità ucraine non effettuarono alcuna indagine approfondita come accertato da un rapporto delle Nazioni Unite. In 10 anni, la Quartapelle non ha mai chiesto conto di ciò alle autorità ucraine.
A marzo del 2024 è tra i promotori del manifesto “Dal 7 ottobre alla pace” con Giuliano Amato, Gennaro Migliore e Ivan Scalfarotto, promosso da ‘Sinistra per Israele‘ sulla crisi in Medio Oriente. Una iniziativa totalmente incentrata sui fatti del “7 Ottobre”, sul “terrorismo di Hamas” e sulla rimozione della drammatica condizione in cui è costretto il popolo palestinese da 76 anni a questa parte. Ovviamente, non una parola sul genocidio in atto a Gaza e – men che meno – sulle politiche israeliane “espansive” in Cisgiordania come sui terrificanti bombardamenti in Libano degli ultimi giorni.
Da sempre ultra-atlantista, pasdaran della guerra totale alla Russia e sinofoba estrema, la ex renziana Quartapelle, ora è personaggio di punta dell’area interna al PD dei “riformisti” guidati da Alessandro Alfieri che si ritrovano sulle posizioni di Paolo Gentiloni e di Lorenzo Guerini.
I due (uno commissario europeo all’economia uscente, l’altro presidente del Copasir), insieme a Giorgio Gori, Filippo Sensi e Pina Picierno, hanno fatto sapere di essere nettamente contrari alla (pilatesca) linea del “pacifismo pragmatico” promossa dalla segreteria Schlein. E di non aver affatto gradito l’astensione (mica il voto contrario) al Parlamento europeo di giovedì scorso sull’autorizzazione all’uso delle armi in territorio russo per Zelenski.
Tutti insieme appassionatamente hanno annunciato una “dura battaglia sui social” contro l’attuale segreteria.
Fonte
Israele bombarda anche lo Yemen. Ancora decine di civili uccisi in Libano e Gaza
La televisione israeliana IBC ha riferito che decine di aerei israeliani hanno preso parte all’attacco, prendendo di mira il porto, la centrale elettrica e gli impianti di stoccaggio del petrolio.
Il Jerusalem Post ha citato fonti secondo cui l’esercito israeliano ha effettuato il più forte attacco contro gli Houthi nello Yemen dall’inizio della guerra, e le fonti hanno indicato che l’attacco ha superato quello contro Hodeidah dello scorso luglio.
Il ministero della Salute yemenita ha comunicato che ci sono 4 morti e 29 feriti in un primo bilancio di vittime dell’aggressione israeliana al governatorato di Hodeidah.
L’autorità dei media Houthi hanno detto di aver preso precauzioni svuotando preventivamente i serbatoi di petrolio nei porti di Ras Issa e Hodeidah.
Come rappresaglia per l’assassinio del leader libanese Nasrallah, il movimento politico yemenita Ansarallah ha sparato un missile contro l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
In una dichiarazione trasmessa da Al-Masirah TV, il portavoce militare del gruppo, Yahya Saree, ha annunciato che un “missile balistico” era stato lanciato contro l’aeroporto “all’arrivo” del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che tornava sabato in Israele dopo essere intervenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il giorno prima. I resti del missile intercettato dalla contraerea israeliana sono caduti vicino alla comunità di Tzur Hadassah, nell’area di Gerusalemme, causando alcuni danni ma non vittime.
Sugli altri fronti è stata ancora una giornata pesante di vittime causate dai bombardamenti israeliani.
In Libano, secondo i dati del ministero della Sanità libanese, almeno 49 persone sono state uccise ieri nei violenti attacchi israeliani nella parte meridionale e orientale del Paese.
“I raid del nemico israeliano a Baalbek-Hermel hanno provocato 21 morti e 47 feriti”, ha precisato il ministero in un rapporto provvisorio. L’agenzia di stampa libanese Ani ha riferito che i quartieri della città di Baalbeck, la principale città della Beqaa, e i villaggi circostanti nell’est sono stati sottoposti domenica a “una quindicina di raid”. Sempre nella valle della Beqaa, altre quattro persone sono state uccise durante un raid israeliano contro Joub Jenin, ha aggiunto il ministero. Sempre secondo la stessa fonte, 24 persone sono state uccise in un attacco israeliano vicino a Sidone, la principale città del sud del Libano.
A Gaza Fonti mediche hanno riferito ad Al Jazeera che almeno 28 palestinesi sono morti in tutta la Striscia di Gaza nella sola giornata di ieri.
Fonte
Cina - Prosegue la lotta per l’indipendenza tecnologica nel digitale
Tale campagna è stata denominata Xinchuang ed è spinta dai massimi livelli decisionali del partito e dello stato. “Dobbiamo incrementare gli sforzi di R&S nei semiconduttori, nelle macchine utensili e nei software fondamentali”, ha esortato il Presidente Xi Jinping ai massimi scienziati e decisori politici quest’estate. “Essi forniscono la spina dorsale tecnologica per catene di fornitura indipendenti, sicure e controllabili”.
Il 24 settembre il Financial Times ha parlato della direttiva dello scorso mese di marzo che ordina a tutti gli enti pubblici di escludere da tre quarti dei nuovi ordinativi di laptop quelli equipaggiati con processori Intel e AMD, sui quali potrebbe scattare un embargo da un momento all’altro (o potrebbero addirittura esplodere nelle mani di chi li utilizza, si è appreso recentemente), per sostituirli con dispositivi recanti chip di aziende cinesi.
A ricevere maggiori ordinativi è stato il Qingyun L540 della Huawei. Questo dispositivo è stato esaminato da TechInsight, azienda che si occupa proprio di fornire consulenze alle industrie di semiconduttori, la quale ha fornito diversi particolari sui suoi componenti hardware
Il processore HiSilicon 9006C è di produzione taiwanese, da parte della TSMC, con tecnologia chip a 5 nanometri ed è stato ricavato dalle considerevoli scorte fatte da Huawei prima che scattasse l’embargo.
Il disco SSD è di produzione della sudcoreana SK Hynix, probabilmente nelle sue fabbriche in Cina, e reca una data d’impacchettamento successiva rispetto a quando le sanzioni ne avrebbero dovuto impedire la fornitura.
Le schede Wi-Fi e Bluetooth sono interamente a produzione Huawei.
La scheda audio sono a produzione Godix, azienda cinese.
I controllori USB sono forniti dalla statunitense Microchip.
Per quanto riguarda il software, invece, il sistema operativo è Unity, una distribuzione GNU Linux sviluppata interamente in Cina, che fornisce fogli di calcolo, documenti, software per gestire e modificare foto, ecc., in modo da risultare equivalente a Microsoft Windows.
Ne viene fuori un quadro in cui, pur essendo ancora presenti dei componenti di produzione straniera, si evidenziano forti progressi rispetto alla dipendenza tecnologica dagli USA che fino a pochi anni fa era sostanziale.
Alcune fonti indiane forniscono qualche dettaglio in più rispetto a come viene organizzata e pianificata la campagna Xinchuang. Alla base, vi è un comitato governativo, le cui attività ed i cui membri non sono pubblici per motivi strategici (e anche di sicurezza, se si pensa alla fine che hanno fatto gli scienziati iraniani addetti al programma nucleare), incaricato, appunto, di fissare gli obiettivi, verificarne il raggiungimento e scegliere con quali aziende collaborare per raggiungerli, ammettendone anche dei dirigenti al proprio interno. Ne farebbero parte, ad esempio, personale di Loongson, produttore di CPU con sede a Pechino, Inspur, produttore di server e Standard Software, sviluppatore di sistemi operativi.
Sarebbero escluse le aziende con una proprietà straniera superiore al 25%. Tuttavia, Alibaba e Tencent Holdings, i maggiori providers di servizi cloud del paese, che non rispettano questo criterio, sarebbero riuscite ad entrarvi tramite aziende controllate.
Frutto dell’azione del comitato Xinghuang sono, ad esempio, i provvedimenti governativi che hanno costretto i provider di servizi cloud stranieri come Amazon Web Services e Microsoft a stabilire joint venture per poter operare in Cina. Inoltre, Apple ha trasferito la sua attività di archiviazione dei dati utenti a un operatore sostenuto dal governo a Guizhou.
Uno dei prossimi obiettivi fissati riguarderebbe le case automobilistiche, che sarebbero state “sollecitate” ad utilizzare i chip cinesi per il 25% del loro fabbisogno entro il prossimo anno; non sono ovviamente note le conseguenze per chi non si atterrà a tale standard.
Il comitato Xinchuang sostiene di aver generato 25 miliardi di dollari di attività indigene nel 2023, cifra che supererà i 100 miliardi di dollari entro il 2025, per giungere ad un risultato di sostanziale indipendenza digitale nel 2027.
Come si vede, il disaccoppiamento tecnologico viene attivamente perseguito dalla Repubblica Popolare Cinese attraverso gli strumenti della pianificazione; non viene solamente “subito”, come in maniera autoconsolatoria si raccontano politici e giornalisti in Occidente.
Fonte
29/09/2024
Israele non ferma i bombardamenti in Libano
Il premier libanese Najib Mikati ha dichiarato che gli sfollati causati dagli attacchi israeliani potrebbe raggiungere un milione di persone. In molti stanno fuggendo verso la Siria, sperando di trovare riparo nel Paese devastato da più di un decennio di guerra civile. La situazione all’interno delle scuole-rifugio sta diventando sempre più critica con il passare delle ore a causa dell’elevato numero di persone. Intere famiglie vivono e dormono all’interno delle aule e centinaia di sfollati condividono pochi bagni e spazi stretti. Almeno 1.640 persone sono state uccise in Libano dall’8 ottobre, tra cui 104 bambini e 194 donne.
Fonte
Armi egiziane alla Somalia, nel Corno d’Africa sale la tensione
È di nuovo tornata a salire la tensione nel Corno d’Africa, regione già scossa nel corso degli ultimi anni da una sanguinosa guerra civile che ha sconvolto l’Etiopia e dagli scontri in Somalia tra le forze governative – sostenute da contingenti militari di altri paesi africani – e le organizzazioni jihadiste.
Ad alimentare la tensione sono soprattutto lo scontro tra Mogadiscio e Addis Abeba e la guerra dell’acqua tra Egitto ed Etiopia. In questo quadro si inseriscono la storica inimicizia tra Eritrea ed Etiopia e le mire espansionistiche turche.
Armi egiziane alla Somalia
Nei giorni scorsi il regime di Al Sisi ha consegnato alla Somalia un carico di armi pesanti
così come previsto dal recente accordo di cooperazione militare siglato
dal Cairo con Mogadiscio. I militari egiziani avrebbero scaricato nel
porto della capitale somala, nel frattempo chiuso al traffico
commerciale, un carico che comprende obici, missili anticarro, munizioni
e altri materiali bellici.
Poco prima il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, nel corso di un incontro con il segretario di Stato americano Antony Blinken, aveva ribadito il proprio sostegno «all’indipendenza e all’integrità territoriale della Somalia», imitato dal suo omologo statunitense.
Nel tentativo di isolare l’Etiopia, sua rivale storica nella regione, l’Egitto ha deciso di sostenere Mogadiscio dopo la firma da parte di Addis Abeba di un’intesa con l’autoproclamata repubblica del Somaliland, una regione settentrionale della Somalia che nel 1991 ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza.
In base all’accordo, l’ex colonia britannica concederebbe ad Addis Abeba venti chilometri di costa per realizzare un porto commerciale a Berbera, sul Mar Rosso. In cambio di uno strategico accesso al mare e alle rotte marittime internazionali, che l’Etiopia ha perso dopo l’indipendenza dell’Eritrea all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, Addis Abeba si impegna – anche se in maniera abbastanza vaga – a sostenere l’indipendenza della regione separatista.
Dopo la firma dell’accordo, la Somalia ha interrotto i rapporti diplomatici con l’Etiopia e ne ha espulso l’ambasciatore, e la tensione è rapidamente salita. Già ad agosto l’Egitto aveva inviato un primo carico di armi alla Somalia.
I militari egiziani in Somalia
L’accordo militare prevede inoltre che un contingente militare
egiziano forte di cinquemila soldati si unisca alla terza missione
dell’Unione Africana che verrà dispiegata in Somalia a fine anno per
contrastare le milizie islamiste di al-Shabaab.
Da questa missione, invece, saranno esclusi i tremila militari etiopi finora dispiegati con lo stesso compito nel paese, mentre altri cinquemila uomini provenienti dal Cairo saranno stanziati in Somalia grazie ad un accordo bilaterale.
Secondo voci non confermate, il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, eletto nel 2022, potrebbe addirittura concedere ai soldati egiziani una base nel centro-sud del paese dopo aver concesso ben cinque installazioni militari agli Stati Uniti.
La reazione dell’Etiopia
La reazione etiope agli accordi raggiunti tra Egitto e Somalia non si è
fatta attendere. Dopo l’annuncio del dispiegamento di soldati egiziani
negli stati regionali somali di Hirshabelle e di Galmudug, l’Etiopia ha
schierato centinaia di militari e di veicoli blindati alla frontiera con
il suo vicino. In seguito, i militari di Addis Abeba hanno occupato
alcuni aeroporti nella regione somala di Ghedo, dove una parte della
popolazione e delle autorità locali sostiene Addis Abeba, per impedire o
quantomeno ritardare il dispiegamento delle truppe egiziane in un
territorio in cui la maggior parte delle vie di comunicazione terrestre è
controllata da al-Shabaab.
Nel tentativo di destabilizzare la Somalia, l’Etiopia ha inoltre rafforzato le proprie relazioni con il Puntland, un altro stato regionale somalo da decenni in conflitto con il governo federale. Secondo il presidente Mohamud, l’Etiopia avrebbe inviato in Puntland un carico di armi destinato alle milizie locali.
«Questa azione costituisce una grave violazione della sovranità della Somalia e pone serie implicazioni per la sicurezza nazionale e regionale» ha denunciato in un comunicato il ministero degli Esteri somalo, secondo il quale Addis Abeba avrebbe rifornito di armi anche le milizie della regione somala di Galmudug e di Baidoa, anch’esse in rotta con il governo federale.
A causa dell’aumento della tensione, l’Egitto ha chiesto ai propri cittadini di lasciare il Somaliland, mentre le autorità dell’autoproclamata repubblica hanno chiuso la Biblioteca culturale egiziana di Hargheisa, invitando il personale a lasciare la regione entro 72 ore.
La guerra dell’acqua
Ad opporre l’Egitto all’Etiopia, ormai da tempo, è la scelta di Addis Abeba di completare i lavori per la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd),
un’enorme diga sul corso del Nilo Blu. La “diga della Rinascita”, la
cui costruzione è iniziata nel 2011 e il cui riempimento è quasi
completo, serve ad alimentare due grandi centrali idroelettriche che a
regime dovrebbero produrre 15700 Gwh annui, energia sufficiente a
permettere l’elettrificazione di molte regioni dell’Etiopia e a
trasformare il paese in un esportatore di elettricità.
Nonostante le rimostranze dell’Egitto e del Sudan, secondo i quali la deviazione del fiume causerà la siccità nei loro paesi e un crollo dei raccolti agricoli, il premier etiope Abiy Ahmed Ali ha imposto il completamento della grande opera, realizzata dal Webuild Group, azienda amministrata dall’italiano Pietro Salini.
Nella disputa creata dall’accordo tra Etiopia e Somaliland si sono infilate poi anche la Turchia (che proprio recentemente si è riavvicinata dall’Egitto dopo anni di inimicizia) e l’Eritrea. Entrambi i paesi si sono schierati con la Somalia.
L’Eritrea si avvicina all’Egitto
L’Egitto ha intenzione di siglare con l’Eritrea un’intesa
militare simile a quella raggiunta con la Somalia, allo scopo formale di
“proteggere” la navigazione nel Mar Rosso dagli attacchi dei pirati e
di altre entità non meglio precisate.
Secondo il quotidiano emiratino “The National”, inoltre, l’Egitto starebbe offrendo ad Asmara la propria mediazione nel conflitto in corso ormai da decenni fra il governo eritreo e il Fronte di liberazione popolare del Tigrè (Tplf), protagonista della guerra conclusa due anni fa che l’ha contrapposto all’esercito etiope. Allo scopo, la scorsa settimana il capo dell’intelligence egiziana Kamal Abbas e il ministro degli Esteri del Cairo Abdelatty hanno incontrato ad Asmara il dittatore eritreo Isaias Afewerky.
La Turchia allunga i tentacoli nel Corno d’Africa
Da parte sua la Turchia ha deciso di inviare navi da guerra per
sorvegliare le operazioni di estrazione del petrolio, che il governo di
Mogadiscio ha di fatto affidato ad Ankara in molti tratti al largo
della costa della Somalia. Secondo le stime del dipartimento del
commercio di Washington, la Somalia avrebbe riserve di petrolio e gas
per un totale di 30 miliardi di barili.
La società Turkish Petroleum possiede la licenza di estrazione in tre aree delle coste territoriali somale, ognuna delle quali con una superficie di 5 mila km quadrati, e ora Erdogan ne sta approfittando per proiettare la propria presenza militare nel quadrante, giustificata dall’esigenza di proteggere le attività dai pirati.
D’altronde nel febbraio scorso la Turchia ha già siglato un accordo di difesa navale con la Somalia che autorizza le forze armate di Ankara a pattugliare le coste somale per i prossimi dieci anni. Sul fronte terrestre, i militari turchi sono già presenti in Somalia da dieci anni, impegnati ad addestrare e sostenere le truppe locali.
I paesi coinvolti dalla crisi sono molti e gli interessi in ballo enormi. Il Corno d’Africa è sempre più una polveriera sul punto di esplodere.
L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea
Qualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.
Il rapporto consta di due parti – parte A e parte B – e contiene 170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sottoproposte di vario tipo.
La prima parte è un’analisi riguardante la strategia di competitività per l’UE che vede condensate in circa 60 pagine i punti chiave del rapporto Draghi.
La seconda parte approfondisce in 328 pagine i vari punti individuando dieci principali settori di intervento (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) e cinque policy orizzontali, rispettivamente accelerazione dell’innovazione, riduzione del gap delle competenze, sostegno agli investimenti, ripresa della competitività e rafforzamento della governance. Nella parte B sono contenute le proposte dettagliate corredate da grafici, dati e tabelle che spiegano in particolare i costi della sovranità nazionale e le potenzialità della sovranità europea.
Diverse sono state le reazioni politiche in Italia. Mentre partiti come il Partito Democratico, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione e Italia Viva hanno ampiamente concordato – anche se con sfumature diverse – che le proposte di Draghi sono un passo nella giusta direzione, la Lega, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi Sinistra, dall’altro, con motivazioni antitetiche, hanno manifestato forti perplessità critiche.
Posizioni analoghe si sono riscontrate in diversi paesi d’Europa. Le forze moderate e liberiste del centro sinistra hanno manifestato apprezzamento, a differenza dei partiti populisti e sovranisti. Fortemente critica, per i motivi che ora vedremo, risultano le posizioni della sinistra radicale.
Sorprende l’endorsement al piano Draghi dell’economista Thomas Piketty, che ha affermato: “Il rapporto sulla competitività e il futuro dell’Europa, presentato alla Commissione europea dall’ex presidente della BCE, è un passo nella giusta direzione”, scrive l’economista nella sua rubrica e ”Il rapporto Draghi ha l’immenso merito di sfidare il dogma dell’austerità fiscale”. Come cercheremo di argomentare, ci permettiamo di dubitarne.
1. La prima osservazione da fare è che il piano Draghi si muove all’interno di una logica “supply-side”, quindi sul lato dell’offerta produttiva. Ora è vero che il rapporto si focalizza sul tema della produttività, ma l’assunto di partenza, non messo in discussione, è ancora una volta il mito della crescita:
“Se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare contemporaneamente leader nelle nuove tecnologie, faro della responsabilità climatica e attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. È una sfida esistenziale”[1]
A tal fine, secondo il rapporto, L’Europa deve affrontare tre grandi trasformazioni:
a. La prima è la necessità di accelerare l’innovazione e di trovare nuovi motori di crescita.
“La competitività dell’UE è attualmente compressa da due lati. Da un lato, le imprese dell’UE devono far fronte a una domanda estera più debole, soprattutto da parte della Cina, e a crescenti pressioni competitive da parte delle imprese cinesi. La BCE rileva che la quota di settori in cui la Cina è in concorrenza diretta con gli esportatori dell’area dell’euro è ora vicina al 40% rispetto al 25% del 2002, con un aumento della pressione competitiva da parte delle imprese cinesi. La quota dell’UE nel commercio mondiale è in calo, con una notevole diminuzione dall’inizio della pandemia. Dall’altro lato, la posizione dell’Europa nelle tecnologie avanzate che guideranno la crescita futura sta diminuendo. Solo quattro delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee e la posizione dell’UE nel settore tecnologico si sta deteriorando: dal 2013 al 2023, la sua quota di ricavi tecnologici globali è scesa dal 22% al 18%, mentre la quota degli Stati Uniti è salita dal 30% al 38%. L’Europa ha urgentemente bisogno di accelerare il proprio tasso di innovazione sia per mantenere la propria leadership produttiva, sia per sviluppare nuove tecnologie all’avanguardia”.[2]
b. L’Europa deve ridurre i prezzi elevati dell’energia, continuando a decarbonizzare e a passare a un’economia circolare.
“Il panorama energetico è cambiato in maniera irreversibile con l’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente perdita di gas naturale da gasdotto. Sebbene i prezzi dell’energia siano notevolmente diminuiti rispetto ai picchi massimi, le aziende dell’UE devono ancora affrontare prezzi dell’elettricità che sono 2-3 volte quelli degli Stati Uniti e i prezzi del gas naturale pagati sono 4-5 volte più alti. La decarbonizzazione potrebbe essere un’opportunità per l’Europa, sia per assumere un ruolo guida nelle nuove tecnologie pulite, sia per spostare la produzione di energia verso fonti energetiche pulite sicure e a basso costo, di cui l’UE ha una generosa dotazione naturale”[3].
c. In terzo luogo, l’Europa deve reagire a una governance geopolitica meno stabile, in cui le dipendenze stanno diventando vulnerabili e non può più contare su altri per la sua sicurezza.
In altre parole, Draghi afferma che l’Europa deve acquisire un maggior grado di autonomia economica e politica, affrancandosi dalla eccessiva dipendenza dagli Usa, se vuole riprendere un sentiero di crescita economica.
Si tratta di un’analisi che è suffragata dalla constatazione che l’economia Usa è cresciuta negli ultimi anni molto più di quella europea, grazie proprio alla dipendenza tecnologica e al ruolo di bacino di consumo dei cittadini europei. Un tempo si sarebbe parlato di imperialismo economico! Al quale è seguito anche un imperialismo militare, alla luce della dipendenza di molti paesi (Italia inclusa) ai diktat della Nato nella crociata anti-russa, per ribadire ancora una volta l’egemonia nord-americana.
Si tratta di un’analisi che non fa che registrar la realtà di oggi ma che nessuno ha mai esplicitamente dichiarato (con l’eccezione di parte della sinistra radicale). Per questo, il rapporto Draghi piace a sinistra e sconfessa le pretese di sovranismo della destra.
Tuttavia, due sono le possibili criticità in questa premessa, da cui dipende tutto il ragionamento successivo.
La prima riguarda il postulato della crescita economica come unico strumento per generare ricchezza. Tale idea, che accomuna destra e sinistra riformista, si fonda sull’idea che solo un processo di accumulazione fondato sul libero mercato e sull’iniziativa privata sia in grado di realizzarla. Alternative non sono ammesse. L’idea che solo il libero mercato sia efficiente conferma, almeno teoricamente, che il neoliberismo è ancora un punto di riferimento. Ma, come vedremo, non è proprio così.
Questa premessa, tuttavia, contraddice le buone parole sulla transizione energetica, parole che smascherano il marketing ideologico del “green-washing”, come ampiamente dimostrato dalle recenti scelte europee in materia che hanno allungato i tempi per la decarbonizzazione e il passaggio alle energie rinnovabili. L’accumulazione capitalistica privata, orientata, come è oggi, al profitto a breve-medio termine a causa della finanziarizzazione dell’economia, risulta incompatibile con la sostenibilità ecologica. Perché si possa seriamente pensare a una effettiva transizione ecologica è necessario uscire dalla logica di accumulazione dell’attuale capitalismo delle piattaforme. È questo il nodo e la contraddizione delle politiche ambientali istituzionali. A meno che non si consideri come unica fonte energetica pulita il nucleare di nuova generazione (rimanendo, però, del tutta insoluto il problema dello stoccaggio delle scorte radioattive)[4].
La seconda criticità riguardo la governance dell’Europa[5]. Veramente si ritiene possibile che l’Europa possa acquisire maggiori gradi di autonomia economica e politica con la presente tecnocrazia al potere, rappresentata dalla Commissione Europea a guida Von der Leyen? Persino il politologo della Liuss Sergio Fabbrini su Il Sole 24ore coglie questa carenza di capacità governativa. Non si discutono qui gli obiettivi:
“il Rapporto è tanto coraggioso sul piano delle politiche da promuovere (ampiamente analizzate da questo giornale), quanto è timido sul piano della governance necessaria per realizzarle. Forse, ciò è dovuto al bias tecnocratico-funzionalista di Draghi e del suo staff (in base al quale, le policies determinano la politics) o, più probabilmente, alla loro decisione di non attraversare il campo minato di quest’ultima. Qui risiede, però, il tallone d’Achille del Rapporto. Senza una governance adeguata, infatti, quelle politiche non potranno essere promosse. …Insomma, il Rapporto Draghi, insieme al Rapporto Letta sul mercato singolo, hanno alzato la riflessione sul futuro dell’Ue al livello delle sfide che essa deve affrontare. (…) Tali sfide richiederebbero però un cambiamento di paradigma relativamente al governo dell’Ue. Non si va lontani, senza un’automobile adeguata”.
Un esempio eclatante della incapacità politica dell’Europa di avere una propria autonoma governance è fornita dalle scelte di politica monetaria della Bce, che hanno seguito in modo supino i diktat provenienti dalla Federal Reserve Usa. L’inflazione europea è stata causata esclusivamente dall’aumento del prezzo del gas e dalla collaterale speculazione finanziaria ed è stata poi alimentata dal mantenimento di elevati profitti (inflazione da profitti[6]). Venuta meno l’impennata dei prezzi energetici più di un anno fa con un dimezzamento del tasso d’inflazione già a partire da metà 2023, invece di ridurre i tassi d’interessi in linea con il calo della stessa inflazione, la Bce ha continuato con una politica di elevati tassi, fortemente incoraggiata dalla Federal Reserve. Il vero obiettivo della politica monetaria non era tanto comprimere un’inflazione solo parzialmente imputabile alla crescita della domanda ma mantenere elevato il corso del dollaro per rendere sostenibile il crescente debito interno e lo strutturale debito estero dell’economia Usa. In tal modo la Bce ha favorito la stabilità e l’egemonia finanziaria nord-americana e il relativo moltiplicatore ma penalizzando le economie europee strette tra crisi della produzione manifatturiera e stagnazione della domanda interna a causa del calo dei redditi reali di lavoro. Altro che capacità di autonomia. Qui siamo di fronte ad un vero e proprio servilismo.
2. Il rapporto Draghi sulla competitività propone una serie di interventi in quei settori che vengono considerati strategici non solo perché si collocano sulla frontiera dell’innovazione e dell’accumulazione ma anche perché sono quelli che più possono garantire un’autonomia del processo produttivo. I già ricordati settori citati dal rapporto (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) dovrebbero essere a trazione esclusivamente europea. Ciò non significa che le relative filiere produttive si debbano collocare esclusivamente nello spazio economico europeo (come vorrebbe una certa vulgata sovranista e nazionalista – il ministero del “made in Italy”, ad esempio, ne è la beota esemplificazione). Si tratta infatti di filiere già ampiamente internazionalizzate ed è impensabile un ritorno indietro verso una dimensione nazionale. La questione posta da Draghi è che l’Europa deve dotarsi degli strumenti per arrivare a comandare queste filiere. E oggi il comando economico si gioca su due livelli: la proprietà intellettuale con il conseguente controllo della tecnologia e dei processi di diffusione tecnologica e la gestione dei flussi finanziari, ovvero la capacità di generare bolle speculative a proprio vantaggio, in grado di indirizzare i finanziamenti laddove sono strategicamente necessari.
A tal fine il piano Draghi propone due possibili soluzioni
2.1. Politica di investimenti
La prima linea di intervento è promuovere un grande piano di investimenti nei settori della difesa, della transizione ecologica, dell’innovazione tecnologica (big data, biotecnologie, IA, logistica informatica) per un ammontare stimato in 750-780 miliardi di euro all’anno. Può sembrare una cifra ragguardevole ma in realtà è solo il 4,7% del Pil Europeo, una cifra quindi compatibile con la struttura dell’economia del vecchio continente. L’obiettivo è un incremento della produttività con interventi più mirati all’aumento della produttività del capitale. Occorre però affrontare due nodi: il primo è la creazione di poli produttivi multinazionali a guida europea in grado di favorire forti economie dinamiche (di apprendimento e di rete) in posizione oligopolistica. L’Europa deve entrare nel capitalismo delle piattaforme a gamba tesa, erodendo il monopolio della Silicon Valley a Ovest e della Cina a est. Il terreno di scontro è il continente africano, al cui interno sono in atti, non a caso, strategie di penetrazione assai influenti, soprattutto da parte cinese. Le corporation della Silicon Valley, oltre alla depredazione dei minerali strategici per l’IA e gli algoritmi di II generazione (come bismuto, cobalto, rame, gallio, germanio, litio, manganese, metalli del gruppo del platino, elementi delle terre rare per magneti, ecc.), stanno facendo forti investimenti per controllare la reti di connessione in Africa. Google ha ultimato il terzo cavo internazionale che collega il Portogallo con Città del Capo, attraversando tutto il continente. Realizzato da Alcatel Submarine Networks, è un’infrastruttura all’avanguardia con 12 coppie di fibre e una capacità di 144 Tbps che garantisce circa 20 volte più capacità di rete rispetto all’ultimo cavo posato in Africa. Nel primo trimestre del 2025 è prevista l’entrata in funzione del cavo 2Africa, finanziato da un consorzio nel quale è presente Meta di Mark Zuckerberg. Con i suoi 45mila chilometri, sarà il cavo sottomarino più lungo del mondo, collegando 33 paesi con 46 punti di connessione in Africa, Europa e Asia.
A inizio settembre 2024 si è svolto a Pechino il 9° Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC), a cui hanno partecipato 53 leader di stati africani (su un totale di 54: l’unico assente era il piccolissimo stato dell’Africa Australe, eSwatini). Il primo si era svolto nell’ottobre del 2000 sempre a Pechino. In questo quarto di secolo, la Cina è diventata il partner commerciale e tecnologico più importante del continente africano, favorendo ingenti investimenti nel controllo del settore minerario, della logistica e delle comunicazioni. Ora la Cina guarda all’Africa come un territorio a cui puntare per esportare quei prodotti (auto elettriche in primis, ma anche tecnologia green) che possono incontrare qualche difficoltà in Usa e in Europa in seguito all’introduzione di dazi.
In entrambi i casi, si tratta di strategie che richiedono la presenza di grandi oligopoli e autonomia finanziaria. Se le prime cinque corporation americane per capitalizzazione di borsa (Microsoft, Apple, nVidia, Alphabet, società madre di Google e Amazon). raggiungono valori pari alla somma del Pil di Italia, Francia de Spagna, le strategie cinesi sono supportato dallo stato.
Draghi pensa di destinare 750-800 miliardi di investimenti esclusivamente al settore privato in modo tale da creare quegli oligopoli in grado di competere con Usa e Cina.
Due veloci considerazioni. In primo luogo Draghi cade in contraddizione con sé stesso. Durante il suo operare politico, prima come governatore della Bce, poi come premier in Italia, ha sempre sostenuto che solo la concorrenza poteva creare le condizioni per migliorare la competitività europea. E infatti l’unica politica economica europea che è stata perseguita a livello comunitario è stata quella a favore della concorrenza, con l’obbligo per ogni paese membro di promulgare un disegno di legge annuale al riguardo. Oggi, ritiene, – a nostro parere correttamente – che nella competizione globali nei settori tecnologicamente avanzati sia necessaria la presenza di grandi imprese in grado di imporre la loro strategia (bye, bye libero mercato).
In secondo luogo – e qui ritroviamo il Draghi tradizionale –, ancora una volta per favorire la crescita si vogliono adottare politiche di offerta, come se dare soldi alle imprese (perché poi di questo si tratta) favorisca automaticamente la crescita della produttività. Il caso italiano è al riguardo emblematico.
Come è noto negli ultimi due decenni l’economia italiana ha registrato un drammatico rallentamento della crescita economica, accompagnato da una sostanziale stagnazione della produttività del lavoro. La recente letteratura economica mainstream ha attribuito il rallentamento della produttività a fattori tipicamente di offerta (quali la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, l’eccessiva regolamentazione, le rigidità del mercato del lavoro (!) e l’eccessivo intervento statale) oltre che al ruolo negativo del cambiamento strutturale inteso come spostamento verso i servizi.
Raramente si è affrontato il problema dal lato dell’eccesiva precarietà del lavoro, che impedisce il pieno utilizzo dei processi di apprendimento e di rete, oggi le determinanti principali della dinamica della produttività. La sola prospettiva supply-side non è sufficiente a spiegare il rallentamento della produttività. Per queste ragioni, occorre anche tenere conto dei fattori di domanda, fornendo supporto econometrico alla legge di Kaldor-Verdoorn. Per il periodo 1970-2016 si riscontra che anche la crescita della domanda aggregata ha un ruolo significativo nel determinare la dinamica della produttività, specialmente nel settore manifatturiero. La principale implicazione di politica economica per affrontare la stagnazione riguarda l’attuazione di politiche espansive e di stabilizzazione di reddito, garatendone la continuità, che farebbero da stimolo alla produttività, e che allo stesso tempo contribuirebbero a sostenere la ripresa occupazionale[7].
2.2. Un unico mercato europeo dei capitali
Il piano di investimenti annuali per 750 – 800 miliardi di euro richiede un finanziamento. Draghi propone, come già in parte successo per il PNRR e per il fondo europeo contro la disoccupazione ai tempi del Covid (programma SURE), di emettere titoli comuni europei. Si tratta cioè di creare un debito pubblico europeo. La proposta ha subito trovato un entusiastico supporto da parte del centro-sinistra e dei critici delle politiche di austerity ma un netto diniego dai cd. falchi europei, Germania in testa.
Se tale debito pubblico fosse il primo passo, insieme a quello che finanzia il PNRR (ma dalla durata triennale), verso l’attuazione di una politica fiscale comune, con un unico bilancio pubblico europeo che incorpora gradualmente i bilanci dei singoli stati nazionali, si tratterebbe effettivamente di un cambio di passo radicale, rispetto all’attuale inesistenza di una reale politica economica e, soprattutto, fiscale, europea.
Ma le cose non stanno così. Nel rapporto la costruzione di un debito pubblico europeo, in grado di attirare gli investimenti finanziari degli speculatori istituzionali e dei risparmiatori nazionali, deve essere infatti accompagnata dalla costruzione di un mercato europeo dei capitali in grado di competere con quello statunitense.
Come afferma Alessandro Volpi:
“La soluzione proposta da Draghi è netta e si costruisce sulla finanziarizzazione. In altre parole, occorre creare nel più breve tempo possibile un mercato unico dei capitali in Europa dove far confluire il risparmio dei cittadini dei vari Stati evitando che tali risorse siano drenate dai grandi fondi americani, un tratto questo già presente nel “Rapporto Letta” sulla competitività”.
Ammesso e non concesso che nel 2024, dopo quasi 50 anni di egemonia finanziaria Usa e del dollaro, nonostante il suo costante ridimensionamento come valuta di riserva internazionale (ma non a vantaggio dell’Euro), sia possibile creare un mercato europeo dei capitali indipendente e autonomo in grado di garantire costanti risorse al finanziamento del debito pubblico europeo, occorre considerare che tale debito si somma e non incorpora i debiti sovrani nazionali. Tale concorrenza obbligherà gli stati nazionali a pagare interessi più alti sul proprio debito nazionale proprio per la presenza del più solido debito comune.
Quindi, suggerisce Draghi, in presenza di un debito comune, i singoli Stati saranno costretti a ridurre il proprio debito pubblico con una severa politica di austerity anche perché non è possibile nessuna monetizzazione del debito: in altre parole, non è più praticabile l’acquisto da parte della Bce di quote di debito nazionale e ciò obbligherà gli stati con il maggior debito pubblico (ma non con il più alto debito complessivo, come l’Italia) a contrarre la propria spesa pubblica, facendo affidamento solo sulla spesa pubblica europea[8]. Una politica di quantitative easing come quelle effettuata dallo stesso Draghi, quando era governatore della Bce, oggi non viene proposta.
3. In conclusione possiamo affermare che le proposte contenute nel rapporto Draghi rivelano che la teoria del neoliberismo non è applicabile. Non è una novità. È da tempo che il neoliberismo come dottrina economica è in difficoltà. La crisi del 2007-08 ne ha accelerato il declino. Ma ciò che è interessante è che tale conclusione venga ora riconosciuto anche da chi in passato ne è stato uno dei più strenui sostenitori e che, di fatto, siamo in presenza di ciò possiamo definire autoritarismo di mercato.
La soluzione che viene prospettata, tuttavia, non va in una direzione di recupero di una strategia di ammodernamento del sistema economico europeo in senso progressivo. Non si tratta di essere rivoluzionari, ma nulla viene detto sulla necessità di una politica fiscale, sociale, industriale e del lavoro comune.
Siamo ancora alla necessità dell’austerity. Se negli anni successivi della crisi finanziaria globale del 2007-08 si parlava di “austerità espansiva”, oggi si parla di “finanziarizzazione austera”. Ma sempre lì, siamo
In più, ci si limita a individuare i settori del grande capitale privato come leva su cui imbastire un nuovo spazio economico e capitalistico europeo. E tale leva fa perno sull’apparato militare-industriale-algoritmico, di fatto una sorta di resurrezione di quell’apparato militare-industriale che era la punta di diamante dell’imperialismo Usa negli anni della guerra del Vietnam. Nell’attuale economia di guerra, non è un caso che la necessità di dotare l’Europa di un sistema di difesa comune sia una delle priorità politiche ed economiche più importanti, all’interno comunque del contesto Nato (per qualche tempo si era ventilata l’ipotesi di una candidatura di Draghi alla guida dell’Alleanza Atlantica).
Tutto ciò avviene all’interno e compatibilmente con il processo di “platformization” dell’accumulazione capitalistica, nel tentativo, in ogni caso, di ribadire l’egemonia del capitalismo occidentale a discapito del Sud Globale.
Si guarda così al passato con strumenti altrettanto del passato (supply side economics)[9] senza rendersi conto che il mondo sta andando verso un multipolarismo oramai irreversibile.
Mala tempora currunt.
Note
[1] Il testo del rapporto Draghi, nella versione italiana, è reperibile qui.
[2] Ibidem, p. 10
[3] Ibidem, p. 10
[4] Sebbene il rapporto Draghi si riferisca all’energia nucleare come a una “fonte energetica pulita” al pari delle energie rinnovabili, non è presente un riferimento specifico a una strategia per il nucleare. Le cinque volte che viene usata la parola “nucleare”, essa è sistematicamente associata e preceduta da “energie rinnovabili”.
[5] Sul tema, si veda anche Roberto Romano: “Perché il rapporto Draghi non è il piano Delors”, in Sbilanciamoci, 13 settembre 2024:
[6] Si rimanda a: Andrea Fumagalli, “L’’accordicchio’ sul gas di Bruxelles e l’inflazione da profitti”, Effimera, 2 novembre 2022: e Christian Marazzi, “Chi paga l’inflazione da profitti?”, Effimera, 27 dicembre 2022
[7] Matteo Deleidi, Walter Paternesi Meloni, “Produttività e domanda aggregata: una verifica empirica della legge di Kaldor-Verdoorn per l’economia italiana”, in Economia & Lavoro 2019(2):25-44, November 2019(2):25-44
[8] Oggi costituita dal PNRR. Domani?
[9] Al riguardo, si veda l’intervista di Mario Pianta: “«Draghi guarda al passato. Finanziare le imprese non cambia lo sviluppo», in Valori.it, 20 settembre 2024
Scuola, motori e lavoro a tutti i costi
di Paolo Lago
Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.
Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di insegnamento svolto dall’autore, docente di Italiano, in un Istituto Professionale della zona. La scrittura alterna l’immediatezza della presa diretta sugli avvenimenti legati all’universo scolastico (in cui protagoniste sono classi ‘difficili’, composte spesso di soli alunni maschi) a inserti dal taglio più saggistico, dove si infittiscono osservazioni e riflessioni su un tessuto sociale irretito dal produttivismo capitalista che si ingrandisce e si sviluppa sempre di più a scapito della vita delle persone. Il tutto scandito da capitoli che portano nei titoli formati dal verso di una canzone sempre diversa l’ispirazione musicale che li ha mossi.
Il lavoro è un dogma, da quelle parti, e gli stessi alunni del Professionale odiano la scuola e non vedono l’ora di finirla o interromperla per mettersi a lavorare nel settore automotive e cioè per quelle fabbriche e per quelle aziende che si estendono a macchia d’olio provocando un abnorme consumo di suolo e per tutto il grande circo spettacolare che si erge dietro questo apparato, in primis il Motor Show di Bologna che nel 2018 ha visto la sua ultima edizione. Se, come nota l’autore, nel 1976, ai suoi albori, il Motor Show occupava un’area di 5mila metri quadrati, nel 2004 “si arriva a 230 mila facendo da volano all’aumento di consumo di suolo in un territorio che oggi con la sua Zona Fiera raggiunge i 375 mila metri quadrati e ospita iniziative di ogni tipo, grazie al protagonismo del Gruppo BolognaFiere, in grado di allestire settantacinque eventi all’anno tra Bologna, Modena e Ferrara” (p. 34). Lo stesso Motor Show ha rappresentato l’aspetto più spettacolare dell’ideologia che gli esponenti del capitale pretendono di inculcare nei giovani che gravitano attorno al settore, e la progressione dei suoi chilometri quadrati equivale all’aumento esponenziale della densità di auto in Italia, che provoca un ulteriore aumento di suolo nella costruzione di sempre nuove strade (come il progetto del cosiddetto Passante di Bologna), di sempre nuovi svincoli e rotatorie realizzati asfaltando e cementificando innumerevoli aree verdi. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se a ogni nuova pioggia violenta (eventi che ormai non si possono più considerare ‘eccezionali’ nella realtà del cambiamento climatico che ci troviamo a vivere) quel territorio dell’Emilia Romagna (che è terza in Italia per consumo di suolo) viene devastato e allagato: è cronaca, purtroppo, anche di questi giorni.
Il lavoro è un dogma e risuona come un vero e proprio mantra, fin dalla scuola, irretendo gli adolescenti e le adolescenti. Laura, ad esempio, che adesso ha trentadue anni, ha lavorato al Motor Show come ragazza immagine fin da quando stava per compiere diciotto anni e andava ancora a scuola, in un contesto in cui gli atteggiamenti sessisti risultano assolutamente normali e si esplicitano in continui apprezzamenti volgari e viscidi (e il racconto di Laura e di altre ragazze si materializza all’interno di un capitolo intitolato Quante belle figlie da sposar, verso tratto da Ottocento di Fabrizio De André, in un momento in cui la canzone accelera musicalmente commentando in forma iperbolica l’iperproduzione spettacolare dei primi anni Novanta). Certo, è questa l’altra faccia del capitale, è il suo truce spettacolo che ‘macchinizza’ e capitalizza gli stessi corpi, come vediamo nelle sequenze iniziali del film Titane (2021) di Julia Ducurnau, in cui alcune ballerine sexi si esibiscono sui cofani delle automobili in un autosalone di fronte a maschi per i quali non c’è alcuna differenza – sembra – fra l’estetica delle auto e quella delle ragazze.
L’ideologia del lavoro a tutti i costi, come già notato, si insinua anche tra i banchi di scuola, dove si trovano, fra gli altri, gli studenti El J, Cucciolotto, Pablo, Thomas, e allora la scrittura diaristica erompe in volute sintattiche e lessicali che esondano da qualsiasi schema, in un sinuoso pastiche che ricalca il parlato ma soprattutto i gerghi giovanili mentre sullo sfondo, come un magico folletto portatore di pace all’interno di una quotidiana guerra, si aggira fantasmaticamente la Chica, la compianta canina del narratore e professore che scambia con lei uno sguardo nei momenti più difficili, in momenti in cui bisogna dare forse un conforto o una pacca sulle spalle a chi è inserito nella macina di un sistema più grande di lui, come succede a molti di questi giovani, cresciuti fra vita non facile e motori. Il lavoro si fa breccia anche attraverso la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, oggi rappresa nell’acronimo Pcto, largamente diffusa nell’Istituto Professionale in questione. Un percorso che dovrebbe essere formativo ma che ha al suo attivo una scia di morti, giovani studenti vittime di incidenti sul lavoro. E, come scrive La Valle, un’ideologia di questo tipo nella sua classe è introiettata a tal punto che si tende a dare la colpa alla persona incidentata che avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle misure di sicurezza e non, magari, alla quasi totale mancanza di queste ultime o a un sistema che non fa in modo che siano sufficienti e all’altezza.
I messaggi che dall’alto vengono fatti passare, infatti, sono quelli di una contrapposizione muro contro muro fra scuola e mondo del lavoro:
da una parte c’è il mondo della scuola, con le sue materie inutili e le sue fissazioni, mentre dall’altra c’è il mondo che conta, quello del lavoro, quello da cui arrivano i soldi. Il primo mondo impone regole per te incomprensibili, il secondo le ammorbidisce. Quale scegli?
Se nel primo ti inseguono perché stai fumando e nel secondo fingono di non accorgersene? Se nel primo si arrabbiano per un commento che hai fatto a una ragazza, mentre nel secondo scherzi a voce alta su culi e tette? Se nel primo insegnano cose che per te sono inutili e nel secondo ti dicono che l’importante è guadagnare? Con queste opzioni, a sedici anni, le scelte sono facili (p. 201).
Oggi anche la scuola è stata raggiunta dalla longa manus del capitale e si sta trasformando in un’azienda “che vive secondo i criteri delle temporalità formalizzate, della competitività e delle mille categorizzazioni che comprimono le attività spingendole verso l’individualismo. È una modalità repellente e se a questa roba non abbiamo dato il nome di fascismo è perché ancora non gli abbiamo fatto la guerra” (p. 208). Assieme al lavoro, si fanno strada anche la competitività e il meccanismo della valutazione sempre e comunque con l’intento di disciplinare gli individui in una forma mentis economica fin dai banchi di scuola. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, rispetto a quanto aveva scritto nel 1995 Raoul Vaneigem nel suo Avviso agli studenti: “Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo opera per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere fino alla nausea il leitmotiv dei suoi anni giovanili: vinca il migliore!” (R. Vaneigem, Avviso agli studenti – Terrorismo o rivoluzione, trad. it. di S. Ghirardi, piano b edizioni, Prato 2010, p. 34).
L’adolescenza è fatta anche per perdere tempo, per bighellonare, per sbagliare e prendersela con calma, non solo per diventare efficienti e produttivi al più presto. Ecco perché, alla fine, bisognerebbe – citando Gilles Clement insieme all’autore – “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica” (Gilles Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2005, p. 61). Infatti, il capitale che impone produttività, efficienza e competitività nella scuola è lo stesso che costruisce sempre più strade perché ci siano sempre più auto in circolazione, a scapito delle aree naturali, cementificate e distrutte ed è lo stesso che devasta montagne e boschi per creare i tunnel dell’alta velocità; allora sarebbe meglio “pensare alla cura e alla riparazione dei suoli, andando nella direzione opposta rispetto all’asfalto, al cemento e alle camicie di forza con cui ci ostiniamo a perimetrare ogni forma di vita” (p. 224). E anche la produzione dei nuovi veicoli elettrici (che necessitano di onerose materie prime e di un complesso smaltimento), verso cui si lancia la corsa del capitale, rappresenta soltanto un’altra faccia della devastazione di sempre nuovi territori. Infatti, come riflette amaramente Paolo La Valle nella pagina finale del suo libro, l’impressione è “che la progressiva scomparsa del fumo dei gas di scarico stia contribuendo a rinnovare una speranza che potrà pure comportare la fine del motore a scoppio, ma nella logica del sacrificio messianico” (p. 244).
Cambiamento climatico, mancata manutenzione e cementificazione: le responsabilità di PD e destre nell’alluvione
Da subito siamo partiti da tutta la regione per andare a portare solidarietà attiva alle persone colpite, rimanendo colpiti ovviamente dalle condizioni di Traversara, in cui i muri delle case sono stati spaccati dalla forza dell’acqua, così come a vedere di nuovo sott’acqua le stesse zone e quartieri già alluvionati l’anno scorso, e che dopo 16 mesi devono ricominciare tutto da capo.
La forza e l’orgoglio che abbiamo visto l’anno scorso, in questi giorni le abbiamo viste sostituite da tanta rabbia emersa da praticamente tutte le persone: in 16 mesi nessuno ha fatto niente. Sabato si è formato un presidio a Budrio, domenica c’è stata una manifestazione spontanea a Faenza, per sabato prossimo ne è stata chiamata una dagli alluvionati della Val di Zena.
La rabbia è diretta a tutte le istituzioni: Governo e Regione per 16 mesi hanno condotto un balletto politico sui nostri territori, ma le responsabilità sono di entrambi. Da una parte, il governo Meloni, negazionista del cambiamento climatico nonostante le evidenze sempre più palesi, che ha messo su una struttura commissariale assolutamente fallimentare per fare arrivare i fondi dei ristori alle famiglie e alla ricostruzione.
Dall’altra, una Regione da sempre a guida PD, che nemmeno l’alluvione dell’anno scorso ha fatto ricredere sulle sue politiche di totale cementificazione: che il consumo di suolo fosse uno dei maggiori responsabili di queste alluvioni sta emergendo sempre di più da parte sia di urbanisti e geologi, sia della stessa classe politica.
La timida critica di Lepore alla legge regionale cosiddetta “contro il consumo di suolo” è però non solo tardiva, perché sono cinque anni che insieme alle associazioni ambientaliste denunciamo come quella legge abbia favorito il consumo di suolo, ma anche falsa e ipocrita, perché è grazie a quella legge che il sindaco di Bologna ha potuto varare piani di urbanizzazione estremi, così come De Pascale, ora candidato PD alla presidenza della regione, nel suo mandato e mezzo da sindaco di Ravenna ha reso la sua città quella con il maggior consumo di suolo in Italia, seconda solo a Roma.
Nel giro di qualche settimana uscirà il nuovo rapporto Ispra sul consumo di suolo nell’anno 2023, e potremo così vedere come anche nei territori maggiormente colpiti dell’alluvione si è continuato a cementificare, proprio grazie alle ulteriori deroghe che vennero fatte alla legge regionale. Pronta è stata comunque la risposta del capo Bonaccini: provate voi a fare di meglio.
Dobbiamo rompere con il partito unico del cemento. La nostra proposta è di un completo cambio di rotta sulla gestione ambientale e la messa in sicurezza del territorio. Da una parte, l’abolizione immediata della legge regionale 24/2017 per una vera legge di consumo zero (e non 3%) del territorio senza deroghe, da affiancare a una moratoria su tutte le nuove costruzioni sia edilizie che di infrastrutture, le grandi opere inutili e inquinanti.
Dall’altra, un piano di lungo termine di gestione del territorio, che significa non soltanto riparare i danni esistenti, ma allargare gli alvei dei fiumi, insieme e non alternativamente alla creazione di casse di espansione.
Cambiamento climatico e cementificazione stanno condannando l’Emilia-Romagna a un’emergenza perenne, dobbiamo cambiare rotta, che vuol dire anche impedire a chi ci governa di continuare su una strada che ci porta verso la distruzione.
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Austria al voto. Vento di destra ma anche aspettative per il partito comunista
Più di sei milioni di elettori sono chiamati alle urne per rinnovare i 183 seggi del Nationalrat, la camera bassa del Parlamento di Vienna.
Il favorito, nelle intenzioni di voto, è appunto il Partito della Libertà (FPOe, formazione di estrema destra) al 27%, seguito dal Partito Popolare Austriaco (OeVP), del cancelliere Karl Nehammer, al 25%. Il Partito Socialdemocratico (SPOe) potrebbe ottenere il 21% dei consensi e i Verdi, come in Germania parte della coalizione del governo uscente nei sondaggi hanno il 9% .
L’immigrazione è stato un tema centrale della campagna elettorale dove il FPOe di Herbert Kickl intende dare un giro di vite accelerando il rimpatrio degli immigrati nei loro Paesi d’origine.
L’OeVP (Partito Popolare) potrebbe però prendere in considerazione la possibilità di entrare in coalizione con il partito di estrema destra se Kickl fosse disposto a lasciare a un altro l’incarico di primo ministro.
Nel caso di una vittoria dell’OeVP, una coalizione con l’FPOe potrebbe essere più probabile: i due partiti hanno già governato insieme in passato, e le loro posizioni – soprattutto in materia di economia e immigrazione – non sono molto distanti.
Se il quadro generale, negativo, è quello di uno spostamento dell’asse politico verso destra, in Austria c’è anche una novità importante.
Il Partito Comunista Austriaco (KPO), è assente dal Parlamento dal 1959, ma è dato nei sondaggi sopra la soglia di sbarramento del 4%, e potrebbe quindi ritornare a pesare nel sistema politico austriaco, in controtendenza rispetto allo spostamento a destra.
Negli ultimi anni il KPO è cresciuto tanto da conquistare la città di Graz nel 2021 e da crescere in diversi Land, in particolare in Stiria e nel Salisburghese, dove ha ottenuto oltre l’11% nelle elezioni del 23 aprile 2023, pescando principalmente dall’astensione e riavvicinando le classi popolari alla partecipazione politica.
Il suo programma per le elezioni parlamentari di domani si basa su 4 punti chiari:
- Tetto massimo agli affitti, un moderno equo canone
- Ritorno integrale alla sanità pubblica, contro le privatizzazioni
- Neutralità dell’Austria e rifiuto delle politiche belliciste di Nato e Unione Europea
- Attacco ai privilegi dei politici stabilendo un tetto massimo ai loro stipendi
Il KPO ha indicato quindi una strategia e un programma sottoscrivibile da chiunque abbia chiaro che per battere le destre non è utile legarsi al centro sinistra, co-responsabile delle politiche antipopolari e dell’escalation bellica, ma che un’altra strada c’è e, come nel caso della Germania, sembra funzionare.
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