Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

15/09/2024

Alta società (1956) di Charles Walters - Minirece

La guerra tra capitali nel sistema finanziario euroatlantico

Sono tre le notizie principali che stanno agitando il sistema finanziario euroatlantico.

La prima, ampiamente preannunciata, è la scelta della Fed in materia di regolamentazione bancaria di dimezzare il capitale aggiuntivo che gli otto maggiori istituti statunitensi sono obbligati a detenere nelle proprie casse.

Queste banche, tra cui Citigroup, Bank of America e JP Morgan, dovranno aumentare il capitale, secondo le modifiche, del 9% anziché del 19% come in origine previsto dall'accordo Basilea III.

Secondo Michael Barr, vicepresidente della Fed, le modifiche apportate “dovrebbero alleviare le preoccupazioni delle banche, scaturite dalla presentazione delle proposte iniziali, avvenuta nel luglio 2023”.

In soldoni, è il caso di dire, alle banche statunitensi è concesso disporre di maggiore liquidità per aggredire il mercato e di presentare minori garanzie a copertura di quest’aggressione rispetto a quanto stabilito in fase negoziale internazionale dell’accordo.

Vale la pena ricordare che Basilea III è il terzo round di accordi di regolamentazione bancaria internazionale stipulato per affrontare le ricadute della crisi finanziaria del 2007/08 e che dovrebbe garantire le norme tramite cui gli istituti di credito possano mantenere un livello di capitale e liquidità sufficiente per adempire ai loro obblighi e non fallire in caso di perdite inattese.

La sua implementazione è stata prima rimandata dalla Commissione europea al gennaio 2026 e ora disattesa dal partner a stelle e strisce, manifestando una certa “inquietudine concorrenziale” tra le due sponde dell’Atlantico.

La seconda notizia, che ha colto invece di sorpresa gli addetti ai lavori, è il blitz con cui Unicredit, banca italiana più importante assieme a Intesa San Paolo, ha acquisito il 9% di Commerzbank, secondo istituto tedesco dietro solo allo zombie Deutsche Bank.

L’istituto guidato da Andrea Orcel ha dichiarato in una nota che la metà della quota è stata acquisita direttamente dal governo tedesco, che sta cedendo le sue quote di Commerz, mentre l’altra metà è stata rastrellata sul mercato.

La manovra ha provocato l’ira del governo Scholz (ma non quello dei vertici dell’istituto, almeno pubblicamente), preoccupato della scalata operata da un istituto straniero ai vertici di un importante operatore finanziario nazionale.

Nei prossimi 90 giorni infatti il governo metterà sul mercato il restante 12% delle quote ancora detenute di Commerz, con Unicredit pronta a presentare di nuovo l’offerta più alta su piazza per salire al 20% della banca e dare vita così al più grande “campione europeo” del sistema finanziario al pari di BNP Paribas (comunque ben lontani dai colossi statunitensi).

“Draghi ordina e Orcel ubbidisce”, suggerisce l’editoriale di Repubblica, a proposito della partita per il futuro dell’Ue.

La terza notizia riguarda l’attesissima riunione odierna del Consiglio direttivo della Bce che dovrebbe allentare la politica monetaria dopo mesi di strangolamento dell’economia e dei salari nel nome della lotta all’inflazione.

I dubbi aleggiano sull’entità dei tagli (25 o 50 punti base), ossia sul peso della riduzione del costo del denaro che ha effetti a cascata per esempio su mutui e prestiti, su cui a gran voce soprattutto dall’Europa mediterranea si chiede di intervenire per alleviare le sofferenze generate dal lungo ciclo di politica restrittiva imposta da Francoforte.

Ma se “l’esito della lunga attesa dovrebbe deludere”, ammonisce Angelo De Mattia su Milano Finanza, “il disorientamento sarebbe rilevante”, dando ulteriore corda ai miopi falchi europei in rappresentanza anche di “una Germania prossima alla stagnazione” su cui aleggiano dubbi se possa davvero “continuare a non sostenere un mutamento del governo della moneta in chiave meno restrittiva”.

Insomma, nel rimodellamento dell’ordine mondiale su scala multipolare, i maggiori attori del capitale finanziario occidentale portano avanti la loro personale “guerra tra capitali”, manifestando una inquietudine ben maggiore di quanto non farebbe pensare la sbandierata coesione del blocco euroatlantico.

Fonte

[Contributo al dibattito] - Quel peccato originale del documento Draghi

di Pasquale Tridico

Il rapporto Draghi nasce sotto un peccato originale: il suo proponente. Chi lo ha redatto infatti non arriva da quei settori della società, dell’economia, dell’università e della politica che hanno sempre criticato l’attuale governance dell’Ue, quella struttura orientata alla deflazione, ai vincoli di bilancio, fino alla austerità soprattutto nel periodo della gestione della crisi finanziaria iniziata nel 2007.

Mario Draghi è uno dei principali protagonisti di quella governance che perfino nel periodo più recente, dopo il Covid, ha avallato la riforma del Patto di Stabilità e la sua spinta rigorista che costringe il nostro Paese a un rientro dal disavanzo dello 0,6% ogni anno, circa 13 miliardi in meno di spesa pubblica che potrebbero essere orientati alla sanità, alla scuola, alle politiche sociali.

Ex governatore della Banca d’Italia, ex presidente del Consiglio per la stabilità finanziaria, ex presidente della Bce e infine ex primo ministro, Mario Draghi non è la persona più credibile per portare avanti la proposta di un debito comune europeo, di un bilancio comune di almeno 800 miliardi euro di investimenti e di un Next generation Eu permanente (tutte cose che si ritrovano puntualmente nel programma alle elezioni europee del M5S).

Per noi c’è una differenza tra il dire e il fare le cose e questa si chiama coerenza. La mancanza di competitività denunciata nel rapporto Draghi è figlia di politiche neo-liberiste e dell’assenza dello Stato negli investimenti industriali e nei comparti tecnologici dell’economia.

Draghi non è il più titolato a muovere questa critica e soprattutto non l’ha mai affrontata nei tanti ruoli di potere che ha avuto. Anzi, ha fatto esattamente il contrario, fin dal suo ruolo nelle privatizzazioni di Stato negli anni '90 durante la sua permanenza al Tesoro. La mancanza di competitività in Ue nasce dall’assenza di una politica industriale europea surclassata dalla grande vitalità di Cina e Usa (si confronti ad esempio l’Ira americano che mobilità circa 1 trilione di dollari in investimenti pubblici con il nulla dell’Ue) ed è figlia della mancanza di una strategia tecnologica e di una politica sociale per ridurre le povertà, i divari e le diseguaglianze e aumentare il capitale umano investendo in formazione, istruzione e scuola.

Per rispondere a questa sfida abbiamo proposto di trasformare la Banca europea degli investimenti (Bei) in Banca europea per lo sviluppo e la transizione ecologica (Best). Questo istituto, a nostro avviso, dovrebbe sostenere lo sviluppo di filiere strategiche per la transizione e finanziare l’innovazione tecnologica nei settori dell’efficienza energetica, dei trasporti e della produzione di energia da fonti rinnovabili. Oggi questi settori sono abbandonati a loro stessi, senza regia e senza capacità di spesa.

Il rapporto Draghi verrà presto archiviato e cestinato per due ragioni. La prima è che la futura Commissione Von der Leyen nasce debole e senza figure di spicco. La seconda risiede nella natura reazionaria della maggioranza in Consiglio dove molte capitali preferiscono gestire l’esistente piuttosto che ambire a riformare i Trattati.

Nel rapporto Draghi, osannato a priori da alcuni politici senza averlo letto, ci sono anche clamorosi buchi: manca la necessità di avviare una seria lotta contro elusione ed evasione fiscale per giganti del web e multinazionali, con politiche in linea con la sentenza della Corte di Giustizia europea sul tax ruling applicato dall’Irlanda ad Apple che permetteva a quest’ultima di non pagare le tasse.

Secondo alcune stime con le risorse recuperate dall’elusione fiscale potremmo coprire un quinto degli 800 miliardi di euro di aumento del bilancio europeo proposti da Draghi. Manca una prospettiva per un fisco equo, con una tassa sui multi-milionari e per una tassa unica sulle società di capitale che si mobilitano liberamente nella Eurozona. Manca infine una seria analisi dell’attuale crisi demografica europea, conseguenza diretta dei tagli al welfare voluti dall’austerity.

Le misure di sostegno al reddito di una Europa sociale, dal reddito minimo europeo al salario minimo, dalla lotta alla precarietà alla settimana corta di quattro giorni che possono contribuire a rallentare la decrescita della popolazione e quindi alla futura crescita europea.

Che futuro vogliamo costruire con gli Eurobond di guerra? Non certo quello a cui ambiscono tutti i cittadini e cioè pace, giustizia sociale e prosperità.

Fonte

C’è chi riesce a mentire anche sui missili...

Ignoranza, approssimazione, malafede, suprematismo idiota… La miscela che sta portando l’Occidente capitalistico oltre tutte le “linee rosse” che separano dalla guerra nucleare è così tossica che forse neanche i diretti responsabili se ne rendono più conto.

Vale per le classi dirigenti (finanziarie e politiche) come per una parte dei vertici militari (anche se come “tecnici” della guerra dovrebbero essere i più consapevoli dei rischi reali), ma soprattutto per i media, incaricati – istituzionalmente – di “formare l’opinione pubblica” fornendole un quadro edulcorato, ideologizzato, “facilitato” e dunque falso della situazione reale.

Un esempio in fondo innocuo è fornito dalle reazioni al “mandato di cattura” emesso dalle autorità russe contro alcuni giornalisti occidentali che avevano seguito da “embedded” (con divise, elmetti, giubbotti antiproiettile forniti dalle truppe) l’incursione ucraina nel territorio russo del Kursk.

Abituati da oltre 30 anni – prima guerra Usa in Iraq, 1991 – a fare da ufficio stampa alle truppe dell’Impero trovano ormai “normale” entrare in un paese straniero (extra-Shengen, ovviamente) senza “chiedere permesso”. Ossia senza fare richiesta di visto (se previsto da quel paese), attendere che sia concesso, ecc. Per di più al seguito di un “esercito invasore” (per quanto “mini”, come in questo caso).

Se il paese è debole (Iraq, Libia, Somalia, Siria, ecc.) difficilmente c’è una reazione. Certo, c’è pur sempre il rischio di prendersi una pallottola o una scheggia, come per qualsiasi soldato. Ma la “reazione ufficiale” del governo assalito è l’ultimo dei problemi.

Se però “l’offeso” ha lo spessore della Russia è logico attendersi di finire in qualche lista di “indesiderati”. Non si entra a casa di nessuno senza chiedere permesso, giusto? Se no è “effrazione”, oltretutto a mano armata...

La difesa degli inviati Rai – Stefania Battistini e l’operatore Simone Traini – ora perseguibili in Russia è affidata per esempio dal Corriere al pessimo Lorenzo Cremonesi, un abituè del giornalismo embedded Nato, che per l’appunto rivendica tutte le “missioni” cui lui e altri colleghi hanno partecipato al seguito degli americani o di Israele, “dimenticando” che si trattava pur sempre di bullismo bellico contro i più deboli, classiche operazioni neocolonialiste dell’Occidente.

Cade però dal pero della supponenza quando cita “il governo di Kiev [che nel 2014-15] minacciò di sanzioni noi reporter stranieri, che dalle zone del Donbass ucraino entravano in quelle controllate dai filorussi (coadiuvati dai soldati di Mosca)”, dimenticando – anche qui – la radicale differenza: le repubbliche di Donetsk e di Lugansk si erano autonomizzate addirittura con un referendum popolare.

Dunque lì – pur senza un riconoscimento ufficiale da parte della sedicente “comunità internazionale atlantista” – gli inviati occidentali erano di fatto “ospiti graditi” di due repubbliche attaccate da un “esercito invasore”. L’opposto dell’episodio di Kursk...

L’atteggiamento per cui, invece, il solo fatto di essere giornalisti (occidentali, ovvio, quelli palestinesi o arabi possono esser macellati senza problemi...) garantirebbe un diritto a muoversi senza rispettare alcuna regola di un qualsiasi Stato («Andate a quel Paese, questo è semplicemente il nostro mestiere»), è chiaramente una rodomontata da bischeri. Provassero ad entrare negli Stati Uniti senza autorizzazione e poi vediamo se gridano alla “censura americana [che] non può fermare il nostro lavoro”...

Ma questo sono per l’appunto piccolezze corporative, anche se rivelatrici di una mentalità belligerante e servile.

Più grave, e di molto, la menzogna sulle questioni militari e l’escalation che ci sta portando sull’orlo del conflitto nucleare. Come si fa a provare che “il nemico” – Putin, in questo caso, ma il nome può cambiare spesso senza che cambi la tecnica – è un bugiardo da abbattere? Non potendo vantare competenze proprie il “bravo giornalista” va a far testimoniare un generale disponibile. Impresa non impossibile, anche molti altri generali stanno lì da anni a dire tutt’altro.

Tre giorni fa, in una discorso preso molto sul serio anche dalla Casa Bianca – basta riascoltare le dichiarazioni del portavoce Kirby – il presidente russo ha spiegato, anche tecnicamente, perché la consegna all’Ucraina di missili a lungo raggio da parte di paesi Nato sarebbe di fatto una partecipazione diretta dell’Alleanza nella guerra alla Russia.

Rileggiamolo: “Non stiamo parlando di consentire o proibire al regime di Kiev di colpire il territorio russo. Sta già colpendo con l’aiuto di veicoli aerei senza pilota e altri mezzi. Ma quando si tratta di usare armi occidentali ad alta precisione e a lungo raggio, è una storia completamente diversa.

Il fatto è che, come ho già detto, e qualsiasi esperto lo confermerà (sia qui che in Occidente), l’esercito ucraino non è in grado di colpire con moderni sistemi occidentali ad alta precisione e a lungo raggio. Non può farlo. Ciò è possibile solo con l’uso di dati satellitari, di cui l’Ucraina non dispone: si tratta di dati provenienti solo da satelliti dell’Unione Europea o degli Stati Uniti, in generale, dai satelliti della NATO. Questo è il primo.

Il secondo, e molto importante, forse fondamentale, è che le missioni di volo verso questi sistemi missilistici possono, di fatto, essere eseguite solo da personale militare dei paesi della NATO. I militari ucraini non possono farlo. E quindi, non è una questione di consentire al regime ucraino di colpire la Russia con queste armi o di non consentirlo. Si tratta di decidere se i paesi della NATO sono direttamente coinvolti in un conflitto militare o meno.

Se questa decisione viene presa, non significherà altro che la partecipazione diretta dei paesi della NATO, degli Stati Uniti e dei paesi europei alla guerra in Ucraina. Questo è il loro coinvolgimento diretto. E questo, naturalmente, cambia significativamente l’essenza stessa, la natura stessa del conflitto. Ciò significherà che i paesi della NATO, gli Stati Uniti e i paesi europei sono in guerra con la Russia. E se questo è il caso, allora, tenendo presente il cambiamento nell’essenza stessa di questo conflitto, prenderemo decisioni appropriate in base alle minacce che saranno create per noi.”


Cosa fa il Corriere? Chiama il generale Camporini per farsi dire che «Per impostare il piano di volo dei missili non serve un corso universitario né essere occidentale. Bastano degli ucraini con due mesi di addestramento».

Poi scende anche nei dettagli: «I missili a lungo raggio hanno diversi sistemi di navigazione, ma il principale è lo stesso Gps del navigatore sulla nostra auto. Lo usano gli Atacms, gli Storm Shadow così come le armi russe. Quanto ai dati di “intelligence”, è dall’inizio della guerra che gli ucraini dispongono delle informazioni sulle retrovie russe. Non ci sarebbe alcuna novità».

Un non addetto ai lavori può credergli sulla parola. Uno appena un po’ più diffidente, come noi, si informa, anche perché non mancano le fonti per sapere cosa sono, come funzionano e come vengono comandati missili che ormai hanno molti anni di presenza “sul mercato”.

I missili di cui si sta trattando la consegna agli ucraini – e che la Gran Bretagna del sedicente “laburista” Starmer si appresterebbe a dare prima degli Stati Uniti (“va avanti tu e vediamo che succede”) – sono gli Atacms, gli Storm Shadow e gli Jassm.

I primi, costruiti dalla Lockeed Martin, vengono lanciati da terra anche da mezzi di trasporto, e vengono guidati tramite sistema inerziale e gps (“come quello delle nostre automobili”, giustamente). Hanno una gittata massima di 300 chilometri ma, essendo sparati da terra, sono facilmente individuabili dai satelliti spia. Quindi non possono stare troppo vicini al fronte, ma devono essere lanciati dalle retrovie, riducendo di molto la possibilità di colpire bersagli logistici in territorio russo (depositi di armi, aeroporti, ecc).

Gli Storm Shadow sono invece missili di fabbricazione franco-britannica, sono già stati “regalati” all’Ucraina all’inizio della guerra da Italia, Francia e GB, e sono serviti per colpir alcune navi russe nel Mar Nero. La loro gittata è di circa 250 km ma, potendo essere lanciati da aerei, questa varia insieme alla possibilità del velivolo di entrare oppure no nello spazio aereo russo. Vista la storia anche recente dell’aeronautica ucraina (i pochi F-16 ricevuti sono stati subito abbattuti o rimasti nascosti) non sembra possano cambiare l’andamento della guerra.

Ma già nel loro caso i sistemi di navigazione salgono da due a quattro (GPS, INS, IIR e TERPROM), aggiungendo la “termografia a raggi infrarossi” e la profilazione del terreno. Una volta sparato è guidato dalle informazioni inserite al momento del lancio, e non possono essere modificate durante il volo. Anche in questo caso, insomma, la partecipazione di personale Nato all’utilizzo di questi missili sarebbe limitata alla fornitura delle informazioni da inserire nel piano di volo. Cosa, diciamo, fin qui “tollerata” dai russi.

Ma i JASSM-ER – non la versione AGM-158A di cui parla il Corriere – sono decisamente un’altra cosa. Intanto la gittata, estesa fin quasi ai 1.000 km. E soprattutto il sistema di guida.

In pratica, “Il JASSM-ER resta in attesa di un bersaglio specifico da designare e può essere riprogrammato in volo. Il data-link aiuta a trasmettere lo stato del missile e conferma la selezione del bersaglio corretto durante la fase terminale”.

Domanda: cos’è questo “data link” e chi ne dispone? I data link per uso militare, in termini semplici, sono “reti militari di comunicazione digitale, composti di hardware (terminali appositi) e software (protocolli di comunicazione e messaggistica) dedicati”.

Ne esistono di tipi molto diversi, in continua evoluzione con le infinite innovazioni tecnologiche in materia. Ma, come potete leggere da soli nel link che vi abbiamo appena fornito, ne dispongono solo la Nato e la Russia (forse anche la Cina).

Dunque per far sì che uno JASSM-ER possa essere pienamente operativo – ovvero stare in volo in attesa di ricevere le informazioni decisive per raggiungere un bersaglio scelto magari all’ultimo momento “da terra” (dai “guidatori” assistiti dai data link), ci vuole personale Nato con accesso ai sistemi dell’Alleanza. Visto che l’Ucraina non ne fa parte e non può avere personale già formato per sistemi sconosciuti e non trasferibili “in due mesi”.

Da soli neanche questi missili possono cambiare il corso catastrofico della guerra, ma certamente la partecipazione in prima persona di militari della Nato costituisce un salto di qualità politicamente rilevante verso lo scontro diretto con la Russia. Impossibile dire il contrario, se si è seri.

E infatti un giornale iper-atlantista ma non gestito da deficienti, come il Financial Times, ammette che effettivamente ai vertici di Casa Bianca e Nato si rendono conto di essere sul limite di una dichiarazione di guerra, non di un altro “regalo a Kiev”. E quindi frenano. Mentre al Corriere “che problema è? mandiamo qualsiasi arma e vinciamo facile la guerra”...

Ignoranza, approssimazione, malafede, suprematismo idiota... Il giornalismo mainstream è la sentina in cui percolano senza filtri le peggiori sostanze del suprematismo occidentale. Questi corrono verso la fine tenendo d’occhio solo il proprio conto in banca, che cresce obbedendo in tutto e per tutto, senza farsi più domande.

È ora di staccare la spina...

Fonte

Alessandro Barbero - Il delitto Matteotti

“La Russia non è nostra nemica”. I cartelli nelle città italiane finiscono sulla CNN

“La Russia non è nostra nemica!”. Così scrivono dei manifesti che sono comparsi in diverse città italiane e che sono diventati una notizia per media internazionali come la CNN.

La grafica dei cartelli riporta una mano con i colori della bandiera italiana che stringe una mano con i colori del vessillo russo. Sotto, il messaggio: ‘Basta soldi per le armi a Ucraina e Israele. Vogliamo la pace e ripudiamo la guerra (articolo 11 della Costituzione)’, si legge.

Dopo Modena, Verona, Pisa, Parma, Lamezia, anche a Roma sono in fase di affissione alcuni, pochi, cartelloni con questo messaggio.

La CNN dedica ampio spazio ai messaggi. La notizia rimbalza anche in Ucraina e trova spazio tra le news diffuse dall’agenzia Unian.

La CNN osserva, con una certa sorpresa, che il tema non ha alimentato troppe discussioni in Italia. “I poster di propaganda russa”, afferma l’emittente, “hanno cominciato ad apparire durante i mesi estivi, quando la maggior parte degli italiani è in vacanza”. I cartelloni, si fa notare, sono comparsi prima in alcune città del Nord, poi anche a Roma.

L’ambasciata ucraina è andata su tutte le furie ed ha pubblicato un post su X: “Siamo profondamente preoccupati dall’arroganza della propaganda russa nella Città Eterna. Chiediamo al Comune di Roma di di riesaminare la concessione dei permessi per tali manifesti che hanno un chiaro scopo di riabilitare l’immagine dello stato aggressore”.

La giornalista e attivista Agata Iacono precisa su L’Antidiplomatico che “la raccolta delle donazioni per i manifesti si è svolta pubblicamente a Roma alla Città dell’Altra Economia e l’affissione viene pubblicizzata da varie associazioni apartitiche pacifiste che da sempre attivano iniziative contro la guerra e la discriminazione, senza aver avuto alcun contatto con istituzioni russe”.

Nella capitale, i manifesti sono stati rimossi. In altri centri invece i cartelloni sono rimasti al proprio posto fino alla scadenza del periodo di esposizione. “Revocare le concessioni significherebbe, per il Comune della Città eterna, dimostrare inequivocabilmente che le minacce di uno Stato straniero, cui forniamo armi e soldi a discapito dei nostri interessi, sono più forti del diritto costituzionale italiano” denuncia la Iacono.

Fonte

Gli USA vogliono schierare missili a medio raggio in Giappone

La segretaria dell’esercito statunitense, Christine Wormuth, ha espresso l’interesse al posizionamento di un sistema missilistico a medio raggio sul suolo giapponese. A riferirlo è il Japan Times, che ne riporta le parole a un evento tenutosi in Virginia, all’inizio della scorsa settimana.

Il riferimento è al sistema Mid-Range Capability, noto anche semplicemente come Typhon. Esso dovrebbe essere fornito in dotazione a una Multi-Domain Task Force, di cui l’impegno in esercitazioni militari in zona è stato discusso in una visita della Wormuth nel paese del Sol Levante, lo scorso mese.

“Abbiamo chiarito il nostro interesse in merito con le Forze di autodifesa giapponesi”, ha dichiarato la segretaria statunitense, ribadendo anche che qualsiasi dispiegamento “avrebbe seguito i tempi decisi dal governo giapponese”.

Il MRC Typhon è il primo sistema missilistico a medio raggio sviluppato da Washington in pratica dalla fine della Guerra Fredda, e sarebbe stato messo a punto in appena un paio d’anni, tra il 2020 e il 2022. Si tratta di un rimorchio su cui sono installati quattro lanciatori verticali Mk-41.

Due sono i tipi di munizione che possono essere utilizzati: il missile standard supersonico SM-6 e il missile da crociera Tomahawk. Il raggio del primo è di 460 km, il secondo nelle varianti Blocco IV e V con testata non nucleare è invece di ben 1600 km.

400 Tomahawk sono stati acquistati dal Giappone all’inizio di questo anno, metà del primo tipo e metà del secondo. Proprio negli ultimi giorni la marina giapponese ha cominciato i lavori di modifica dei suoi cacciatorpedinieri per ospitare i missili in questione.

Tokyo aveva deciso di anticipare di un anno questo acquisto, del valore totale di 2,35 miliardi di dollari spalmato su tre anni fiscali, dal 2025 al 2027. La decisione è stata presa “in considerazione a un ambiente di sicurezza sempre più minaccioso”.

Tornando al sistema MRC Typhon, ora sono però direttamente gli Stati Uniti che vogliono dispiegare questo tipo di armi sulle isole del Pacifico, ad una distanza che permetterebbe ai missili di arrivare senza problemi in Cina così come in Russia.

Washington si è ritirata il 2 agosto del 2019 dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), e non è perciò più vincolata in alcun modo alle regole mediate con Mosca riguardo i missili a medio raggio che possono ospitare testate nucleari.

Nell’autunno del 2018 il presidente Trump aveva sottolineato, infatti, come questo accordo non solo fosse stato violato più volte, secondo le autorità a-stelle-e-strisce, dalla Russia, ma svantaggiasse il paese anche nei confronti del Dragone. Biden non è poi tornato indietro rispetto ai passi del tycoon.

Proprio in questo 2024 gli USA hanno schierato un MRC Typhon nelle Filippine, durante un’esercitazione congiunta con Manila, iniziata lo scorso aprile che ha coinvolti anche i mari a nord del paese.

Le operazioni dovrebbero concludersi a breve, ma l’intenzione statunitense sembra quella di un posizionamento stabile, o almeno più continuativo, di questo sistema d’arma nell’Indo-Pacifico, lanciando una sfida diretta a Pechino. La Cina ha fatto sapere che si oppone a questo schieramento che “aumenterebbe il rischio di errori di valutazione e di calcolo”.

Le autorità giapponesi hanno smentito a lungo le ipotesi che volevano il posizionamento di armi del genere da parte statunitense sul suolo giapponese, e ancora oggi negano che questa possibilità sia nell’agenda della Difesa.

Ma il fatto che un alto rappresentante dell’esercito USA lo abbia detto in maniera esplicita rende ufficiale il fatto che al Pentagono ci stanno pensando. E anche che gli USA sono pronti ad alzare ulteriormente la tensione nell’Indo-Pacifico.

Fonte

14/09/2024

Wolf Children - Ame e Yuki i bambini lupo (2012) di Mamoru Hosoda - Minirece

Franco Battiato (1981) La voce del padrone

Ormai una decina d’anni fa, spulciando fra i dischi e le cassette dei miei genitori, ricordo il mio stupore nel vedere come, in mezzo a decine di 45 giri degli anni 60, spuntasse una musicassetta del 1981, "La voce del padrone", di Franco Battiato. Perché mai i miei genitori, rimasti a Nico Fidenco e i Dik Dik, l’avevano comprata? La risposta è semplice, anche se ho impiegato qualche anno per scoprirlo: nei primi anni '80 Battiato era diventato qualcosa di imprescindibile, per chiunque ascoltasse un po’ di radio o vedesse un po’ di tv.

Stupore doppio: come fu possibile che un disco di canzoni pop così raffinate e dai testi così cervellotici riuscisse a vendere oltre un milione di copie (primo nella storia della discografia italiana)? La risposta, in questo caso, è ancora più semplice: ci si trova di fronte a sette canzoni praticamente perfette e intelligenti e, cosa non da poco, orecchiabili e persino ballabili. Tutte le carte in regola (qualcuno più colto direbbe "piani di lettura") per piacere a chiunque, insomma.

In verità "La voce del padrone" è il frutto di un percorso che Battiato aveva intrapreso fin dall’inizio degli anni '70: dopo sette dischi elettronici e sperimentali, aveva virato verso il pop nel 1979 con "L’era del cinghiale bianco" e poi, l’anno seguente con "Patriots". Seppur ottimi, questi due dischi non possiedono ancora quella compattezza, semplicità, limpidezza che consentiranno poi a Battiato di sfondare definitivamente.

Musicalmente il disco si presenta come "pop", ma riaggiornato con spruzzate di quello che la scena musicale degli anni precedenti aveva prodotto, dal punk all’elettronica, dalla new wave fino alle trovate "classicheggianti" dovute in gran parte alla collaborazione stretta con il maestro Giusto Pio, autore delle musiche insieme allo stesso Battiato.

I testi sono un geniale pastiche di letteratura, musica, pubblicità, politica, filosofia, religione... e non ci è dato sapere fino a che punto si tratti di puro nonsense o di sapienti accostamenti. Certo è che Battiato non ha paura a mischiare citazionismo alto e basso: dai "Minima moralia" di Adorno (che in "Bandiera bianca" diventano "Immoralia") ai "Figli delle stelle" di Alan Sorrenti, dal "Cantami o diva" a "Il mondo è grigio/ il mondo è blu", di Nicola di Bari.

La critica sociale è spietata e alcuni testi, letti oggi, anticipano lucidamente e clamorosamente gli anni '80, cosiddetti del "riflusso", con il rampantismo, la crisi delle ideologie e la rincorsa al denaro e al benessere ("Siamo figli delle stelle/ pronipoti di sua maestà il denaro"): d’altronde lo sventolio della bandiera bianca dell’omonima canzone (anch’essa una citazione, dall’"Ode a Venezia" di Arnaldo Fusinato, del 1849) non è altro che un segno di resa da parte del cantautore nei confronti della società, qualcosa di simile alla metafora del ritorno del "cinghiale bianco" di un paio di album anteriore. Non mancano nemmeno la denuncia sociale, seppur velata d’ironia ("...quei programmi demenziali/ con tribune elettorali", "Quante squallide figure che attraversano il paese/ Com’è misera la vita negli abusi di potere") e le punzecchiature, anche in questo caso più sarcastiche che convinte, verso la musica ("A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata/ A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie", "...e sommersi soprattutto da immondizie musicali", "Non sopporto i cori russi la musica finto-rock la new wave italiana il free jazz punk inglese/ neanche la nera africana").

È grazie a questo mix che Battiato scala le classifiche, ma convince anche la critica, sebbene nell’album, oltre ai tre brani più celebri e tuttora indimenticati ("Bandiera bianca", "Cuccurucucù" e "Cerco un centro di gravità permanente"), siano presenti alcune canzoni più raffinate e meno giocose, come "Gli uccelli", elegante e poetica descrizione del volo, "Segnali di vita", riflessione sul tempo e sullo spazio che anticipa molto del Battiato che verrà, e "Sentimento nuevo", pezzo atipico del suo repertorio, praticamente un inno all’amore fisico, seppur disseminato di citazioni classiche.

Qualcuno potrà storcere il naso vedendo questo disco inserito nelle pietre miliari, ed effettivamente una precisione va fatta: "La voce del padrone" è un disco che forse non possiederà alcuna importanza storica né sociale per il mondo, ma ne ha indiscutibilmente, e parecchia, per la storia musicale e sociale del nostro paese. Franco Battiato non riuscirà più a replicare un successo simile: già l’album successivo, "L’arca di Noè", sembra una copia sbiadita. Meglio andrà successivamente (ad esempio con "Caffè de la paix" e "L’imboscata"), con dischi però più cervellotici, che piaceranno più alla critica che al pubblico.

"La voce del padrone" resta un esempio quasi unico, nella discografia italiana, di album che è riuscito a mettere d’accordo tutti. Ed è sufficiente un ascolto, anche oggi, per capire immediatamente il perché.

Fonte

L’economia di guerra: concetto e sguardo retrospettivo nel contesto del caso di studio degli Stati Uniti

Negli Stati Uniti, non il “New Deal”, bensì l’economia di guerra del secondo conflitto mondiale portò il Paese fuori dalla decennale Grande Depressione.

Il concetto di economia di guerra

Gli esperti ricorrono a tale terminologia quando uno Stato riorganizza la struttura della propria economia nel corso di un conflitto per garantire che la capacità produttiva venga configurata in modo ottimale per sostenere lo sforzo bellico.

Con l’economia di guerra, i governi devono assicurare che le risorse siano allocate in modo efficiente per far fronte sia all’impegno militare, sia alla domanda proveniente dalla società civile. In sostanza, costituisce, da un lato, una necessità per garantire la difesa e la sicurezza del Paese e, dall’altro, una strategia finalizzata all’ottenimento di un vantaggio economico, tecnologico e produttivo sulla controparte.

In un contesto di economia di guerra i governi riservano priorità alle produzioni di sostegno all’attività militare e in base ai contesti storici e politici possono ricorre a specifici provvedimenti economici quali: l’emissione di appositi strumenti finanziari per reperire risorse aggiuntive, come le obbligazioni di guerra, ridistribuire le risorse fiscali a favore dello sforzo bellico e a detrimento di altre necessità non prioritarie in tempo di guerra, incentivare le imprese private ad ampliare e a spostare la produzione verso il comparto militare, non che, in caso di necessità, stabilire il razionamento dei prodotti alimentari per garantire l’approvvigionamento dell’intera popolazione, come avvenuto nel nostro Paese nel corso dell’ultima guerra mondiale.

L’economia di Guerra durante la Seconda Guerra Mondiale

Nel corso della storia, talvolta, si sono verificati casi di Paesi che a seguito dell’adozione di un’economia di guerra, non avendo riportato gravi distruzioni, al termine del conflitto hanno beneficiato di un ampliamento, un avanzamento tecnologico e un rafforzamento del loro struttura produttiva, come gli Stati Uniti al termine della Seconda Guerra Mondiale.

Sussistono anche situazioni di Stati che dopo aver subito la devastazione bellica dell’apparato produttivo, hanno sfruttato la ricostruzione per dotarsi di infrastrutture e impianti industriali più moderni e tecnologicamente efficienti, come accaduto in Giappone e in Germania dopo l’ultimo conflitto mondiale.

Mentre in Corea del Sud, i militari guidati dal generale Park Chung-hee, saliti al potere con un colpo di stato nel 1961, avviarono un processo di industrializzazione che, grazie al ruolo centrale dello Stato nell’economia, riuscì ad innescare in un Paese ancora sostanzialmente rurale e arretrato, oltre che devastato dall’occupazione militare Giapponese (1910-45) e dalla Guerra di Corea (1950-53), un significativo processo di sviluppo socio-culturale e una forte crescita economica, passata alla storia come “miracolo sul fiume Han”[1].

Gli Stati coinvolti direttamente nella Seconda Guerra Mondiale fecero necessariamente ricorsero ad una economia di guerra durante il conflitto, mentre la Germania nazista aveva già adottato parzialmente tale modello a seguito della politica di riarmo implementata dopo la salita di Adolf Hitler alla Cancelleria nel 1933, spostando risorse dalla produzione di beni di lusso verso armamenti, mezzi ed equipaggiamenti militari, i cui frutti risultarono imponenti sin dal 1935 (tab. 1).

Diverso il caso degli Stati Uniti, i quali inizialmente non coinvolti direttamente nel conflitto mondiale, a partire dal 1 settembre del 1939 hanno dapprima concentrato lo sforzo produttivo verso la produzione di armi, munizioni, merci e alimenti indirizzati agli alleati europei, beneficiando di una significativa ricaduta sul proprio ciclo economico, per poi ricorrere pienamente ad una economia di guerra dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour dell’8 dicembre 1941. Da quel momento, l’economia di guerra registrò un’inevitabile accelerazione con il governo federale che divenne committente e acquirente addirittura di oltre la metà della produzione industriale nazionale, come vedremo in seguito.

Il modello di economia di guerra statunitense, contrariamente agli altri Paesi belligeranti, non risultò caratterizzato da una significativa pianificazione statale centralizzata tant’è che, ispirandosi alle logiche del mercato, il governo preferì agire principalmente sul lato della domanda, cercando di indirizzare l’offerta privata attraverso gli ordinativi, oltre a dotarsi di un apparato produttivo pubblico, fino a quel momento molto limitato. Tale politica economica determinò un considerevole afflusso di capitali verso le imprese, i quali rimasero a disposizione delle produzioni anche al termine della guerra, agevolati dal fatto che il territorio continentale degli Stati Uniti, non avendo subito distruzioni, non necessitava di corposi investimenti nella ricostruzione industriale, infrastrutturale e del patrimonio edilizio.

Infine, il sensibile aumento della presenza delle donne nelle fabbriche per sopperire alla chiamata alle armi di milioni di giovani maschi, la priorità assegnata ad alcuni comparti produttivi a discapito di altri, la conversione di molte produzioni in senso militare e la massimizzazione dello sforzo produttivo, determinarono inevitabilmente una riorganizzazione ed un efficientamento del lavoro che portò significativi benefici all’economia della fase post-bellica.

La fallace narrazione del “New Deal” risolutore della Grande Depressione

Con l’inizio della “Grande Depressione” innescata dal crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre del 1929, il “giovedì nero”, il nuovo presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt (1933-45), adottò fra il 1933 e il 1934 una serie di provvedimenti economici tesi ad aumentare la presenza dello stato nell’economia, a disciplinare settori economici totalmente derelegolamentati (come il Banking Act del 1933) e ad introdurre una riforma fiscale progressiva, passati alla storia come “Primo New Deal” (Nuovo corso).

Una volta conseguiti i primi risultati già dal 1934 (tab. 1), il piano di Roosevelt iniziò ad incontrare crescenti resistenze sia da parte dei potenti trust economici e finanziari nazionali, che ricorsero anche ad una campagna stampa, che dal partito repubblicano e dai democratici conservatori, tutti contrari all’intervento statale nell’economia. Il doppio fuoco di sbarramento finì per imprimere un significativo depotenziamento al “New Deal” a causa di una serie di dichiarazioni di incostituzionalità, in merito ai provvedimenti economici adottati, emesse, fra il maggio del 1935 ed il corrispondente mese dell’anno successivo, dalla Corte Suprema Federale, in maggioranza composta da giudici nominati dai precedenti presidenti repubblicani.

Da quel momento in avanti, Il “New Deal” non sarà più in grado di determinare il profondo cambiamento nell’economia statunitense che era nei progetti di Roosevelt e dei suoi consulenti accademici. La sua portata si limiterà, come afferma il geografo marxista francese Pierre George “a manipolazioni monetarie, all’esecuzione di grandi lavori pubblici, segnatamente all’attrezzatura veramente notevole della valle del Tennessee col tramite delle Tennesse Valley Autorithy (Tva), al risveglio della coscienza sindacale e all’intervento finanziario dello Stato nella vita economica e sociale, con un disavanzo enorme delle pubbliche finanze, 5 miliardi di dollari all’incirca del 1935-36. Lo Stato rinuncia a dirigere l’assieme dell’economia, ma fa la sua parte di banchiere e di produttore, se non direttamente, almeno col tramite di uffici sovvenzionati (la Tva ne è un esempio), d’altronde, già prima dell’era rooseveltiana, il dipartimento dell’Interno è sempre stato il più importante fornitore d’energia degli Stati Uniti”[2].

Tale depotenziamento spingerà Roosevelt a correre ai ripari facendo approvare dal Congresso il “Secondo New Deal”, una nuova serie di riforme economiche e soprattutto sociali, in considerazione del fatto che il provvedimento più importante risultò il Social Security Act, finalizzato all’istituzione di un sistema di sicurezza e di protezione sociale. La misura introduceva, infatti, l’erogazione di contributi in caso di disoccupazione, vecchiaia e disabilità, tramite un fondo finanziato dai datori di lavoro, dai lavoratori e con risorse del bilancio federale.

La ripresa della produzione continuò anche nel corso del 1936 e nella prima parte del 1937 ma la mancata trasformazione del sistema produttivo e un settore statale troppo ristretto, non consentirono allo Stato di esercitare un’azione decisiva sull’intera economia federale. Ciò lasciò sostanzialmente invariato lo spazio di manovra della speculazione e delle grandi imprese nella ricerca dell’utile tramite la “razionalizzazione intensificata” dei fattori della produzione, determinando la ricomparsa degli squilibri fra il potere d’acquisto interno (la domanda) e l’offerta di beni, anche a seguito della riduzione della diminuzione della spesa pubblica federale che aveva portato quasi a sfiorare il pareggio di bilancio nel 1937.

Inoltre, non essendo in quegli anni migliorato il livello della domanda internazionale, il progetto di dare nuova linfa alla ripresa della produzione finì per creare le potenziali condizioni per una nuova crisi.

L’indice della produzione industriale elaborato dalla Federal Reserve, dopo aver toccato ad inizio del 1937 il valore di 99, nei mesi successivi intraprese una nuova ricaduta fino a 66,5 determinando una nuova espansione della massa dei disoccupati che oscillò fra i 13 e 14 milioni di unità. L’economia statunitense scivolò quindi nuovamente in recessione nel secondo semestre del 1937, rimanendoci per 13 mesi consecutivi fino alla seconda metà del 1938 (grafico 1).

La produzione industriale subì un grave contraccolpo contraendosi di quasi il 30% e la disoccupazione dal 14,3% del maggio 1937 salì nuovamente al 19,0% del giugno del 1938, ritornando allo stesso livello del 1934 (grafico 2).

Il governo statunitense in linea coi principi keynesiani, peraltro abbandonati in modo troppo repentino in quella fase secondo gli economisti di questa corrente, attuò quindi a partire dalla primavera del 1938 un grande piano di acquisti (pump-priming[3]) per sostenere la domanda interna ed evitare un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica, determinando un nuovo aggravamento del deficit federale che infatti tornò a superare i 4 miliardi di dollari nel 1939.

I grandi trust statunitensi, ai quali Roosevelt aveva allentato la precedente politica di coercizione, si lanciarono quindi con massicci investimenti alla conquista dei mercati internazionali al fine di trovare nuovi sbocchi alle proprie produzioni.

L’economia statunitense non essendo ancora riuscita a trovare all’inizio del 1939 al proprio interno i rimedi alla crisi economica strutturale che l’attanagliava da un decennio, beneficerà di li a qualche mese di un evento drammatico per la storia dell’umanità che le consentirà di uscire dalla “Grande Depressione” imprimendo nuovo slancio tecnologico e produttivo al settore industriale e all’intera struttura economica: la Seconda Guerra Mondiale.

Le peculiarità dell’economia di guerra statunitense

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 1 settembre 1939, fornì una prima importante spinta all’economia statunitense grazie alle forniture militari, industriali e agricole destinate ai paesi europei alleati, e una successiva accelerazione dopo l’8 dicembre 1941 con l’ingresso diretto nel conflitto, lasciando secondo Pierre George “come fenomeni accompagnatori sconvolgimenti nella struttura economica e sociale. I tre nuovi dati di fatto dell’economia statunitense sono rappresentati dall’elevazione considerevole del limite tecnico massimo, cioè del potenziale produttivo, dalla partecipazione enorme assunta dallo Stato nell’assistenza finanziaria concessa alla produzione e dall’importanza della mobilitazione umana nell’industria e nelle forze armate”.[4]

L’economia statunitense iniziò quindi a risollevarsi e successivamente a svilupparsi celermente solo quando l’amministrazione fu costretta ad esorbitanti spese federali per sostenere lo sforzo bellico, sia in modo indiretto durante la prima fase del conflitto, ma soprattutto successivamente con il coinvolgimento diretto (grafico 3).

In base ai dati riportati da Pierre George, le produzioni industriali riguardanti la guerra registrarono, fra il 1939 e il 1944, una rapida impennata con tassi superiori al 100% (tab. 3), tant’è che il governo fu costretto ad intervenire in alcuni comparti per rallentarne l’eccessiva crescita temendo, memore della crisi da sovrapproduzione che aveva innescato il crack borsistico del 1929, di venire sopraffatto al termine del conflitto mondiale dall’impossibilità di trovare adeguato sbocco all’imponente produzione industriale raggiunta in quegli anni.

Gli incrementi maggiori riguardarono la cantieristica navale (+5.500%), l’industria aeronautica (+1.300%) e la produzione di macchine utensili (+650%), in quanto l’economia di guerra statunitense, principalmente a partire dal 1942, si concentrò sul ringiovanimento delle strumentazioni produttive, sull’ampliamento della base industriale e sulla realizzazione di una imponente flotta da trasporto (tab. 3). Soprattutto in quest’ultimo campo i risultati furono strabilianti visto che la produzione cantieristica statunitense di un solo anno riuscì a superare il tonnellaggio totale della flotta britannica all’inizio della guerra.

L’economia di guerra Usa conobbe in quegli anni un’eccezionale crescita tant’è che fra il 1939 e il 1944 la produzione nazionale quasi raddoppiò e conseguentemente la disoccupazione dal 14% del 1940 scese a meno del 2% nel 1943 (grafico 2), con la forza lavoro impiegata che crebbe di oltre quindici milioni di unità in soli 5 anni (tab. 4).

Come abbiamo visto in precedenza, il governo federale, che tramite il sistema del pump-priming e il finanziamento dei vari uffici d’integrazione già interveniva da alcuni anni in modo massiccio negli acquisti di materie prime e prodotti manifatturieri, con lo scoppio della guerra divenne il principale cliente dell’industria statunitense. In particolare tramite la trasformazione dell’organismo di soccorso delle aziende in difficoltà, il Reconstruction Finance Corporation (Rfc), in un ufficio di finanziamento dell’industria di guerra.

L’amministrazione Roosevelt, affinché il dirompente boom economico di quegli anni non presentasse risvolti catastrofici al termine della guerra, si adoperò nel tentativo di mettere lo Stato nelle condizioni di poter controllare la produzione e l’accumulazione degli enormi profitti che i grandi gruppi privati stavano conseguendo, sia direttamente tramite l’azione legislativa e di controllo del governo, sia attraverso i suoi enti come la Defense Plant Corporation. la Rubber Reserve Co., il Marittime Committee, oltre al già citato Rfc.

Per mezzo di questi enti pubblici lo stato prese sotto la sua diretta gestione vecchie fabbriche tecnologicamente superate e quelle realizzate appositamente per le necessità belliche, in particolare quelle localizzate nell’Ovest del Paese che producevano semilavorati o componentistica per l’industria militare, come il comparto aeronautico, la cantieristica navale, la petrolchimica dedita alla realizzazione della gomma sintetica e la metallurgia dei metalli leggeri, con l’alluminio che registrò un aumento addirittura del 750% (tab. 3).

In sostanza, in quegli anni l’amministrazione federale anticipò 18 miliardi di dollari a scopi produttivi, una cifra enorme considerato che il valore dell’apparato industriale statunitense nel 1939 era stimato nell’ordine di 22,5 miliardi di dollari diventando, dopo lo scoppio della guerra, proprietaria di circa 3.000 officine e cantieri.

Nel contesto dell’economia di guerra statunitense, il governo articolò le proprie attività a sostegno delle produzioni in tre modalità distinte: assunse infatti funzione di finanziatore, di industriale diretto e di consumatore tramite acquisti a beneficio di un apparato industriale che ben presto assunse dimensioni mastodontiche arrivando a raggiungere nel 1944 un livello di produzione industriale pari a 200 miliardi di dollari.

Di questi, ben 98 miliardi risultavano frutto dell’imponente domanda federale comprendente anche la parte di aiuti destinati ai Paesi alleati in base agli accordi della legge “Prestiti e Affitti”, la “Lend-Lease Act”, che era stata approvata dal Congresso su input di Roosevelt l’11 marzo 1941, prima dell’ingresso diretto nel conflitto[5].

La dinamica del ciclo economico risultò quindi strettamente interconnessa al livello degli acquisti statali, tant’è che il bilancio federale ne uscì fortemente dilatato e, al pari del deficit, il debito pubblico subì una rapida impennata proprio a partire dal 1941, addirittura più che triplicando, al termine del conflitto, in rapporto al Pil, peraltro anch’esso in fase di rapida espansione (grafico 4).

La mobilitazione e la riallocazione della forza lavoro

Il confitto mondiale e il conseguente straordinario sforzo economico e militare statunitense comportarono una gigantesca mobilitazione di risorse umane, addirittura sensibilmente superiore rispetto all’impiego di manodopera in tempo di pace, persino alle fasi di più spiccata accelerazione economica.

Prendendo in considerazione come indicatore analitico l’entità della manodopera impiegata, comprendente anche le persone arruolate nelle Forze Armate, rileviamo come dai 48 milioni, pari al 37% della popolazione totale, del 1929, la stessa sia salita a 60,4 milioni, corrispondenti al 45% degli abitanti, risultanti però dal censimento del 1940 che rilevò la presenza di 132 milioni di residenti (tab.4).

Passando, invece, all’analisi disaggregata per comparto economico della variazione della forza lavoro impiegata, emerge come l’incremento si sia concentrato quasi esclusivamente su due coppie di voci: industria e trasporti (+40% rispetto al 1939 e +12,5% in raffronto al 1929) e servizi pubblici e, ovviamente, Forze Armate, le quali registrarono un primo aumento nel corso del 1941 e successivamente un’impennata con l’entrata diretta in guerra. Le Forze Armate statunitensi dalle poche centinaia di migliaia del 1939[6] arrivarono a mobilitare un totale di 16 milioni di uomini nel corso dell’intero conflitto[7]. Tali effettivi vennero reperiti in prima istanza dalla massa dei disoccupati, l’esercito industriale di riserva, che nel 1939 si attestava ancora sopra al 15% (grafico 2), dai sottoccupati e dagli impiegati in agricoltura che nel 1944 risultavano diminuiti di 2 milioni addetti, mentre nel settore bancario e nel commercio rimasero sostanzialmente stabili.

Questo enorme dispiegamento di lavoratori e militari sotto la spinta dell’economia di guerra, poneva la problematica questione della loro riallocazione al termine del conflitto, la quale presentava complessità ancora maggiori a seguito del rapido sviluppo tecnologico degli impianti e dei macchinari industriali, con relativo sensibile aumento della produttività del lavoro. Ciò che Pierre George definisce la “razionalizzazione” delle forze produttive, indotta dall’innovazione tecnologica, determinò una generale diminuzione delle ore di lavoro per unità di prodotto, con inevitabili riflessi negativi sui livelli occupazionali. Ad esempio, se ad inizio conflitto erano necessarie 600.000 ore per costruire una nave della classe Liberty ship[8] e 35.400 per un aereo Boeing B-17 Flying Fortress, meglio noto come “fortezza volante”, nel 1944 si erano ridotte rispettivamente a meno di 400.000 e 18.700.

Conseguentemente, ciò creò maggiori problematiche al riassorbimento dei 18 milioni di lavoratori, lavoratrici e militari[9], nel contesto dell’economia di pace del Dopoguerra, la quale dovette anche affrontare una complessa e mastodontica riconversione partendo dall’iniziale e fondamentale questione della tipologia di struttura economica da perseguire.

L’economia di guerra era stata caratterizzata da una sensibile espansione del settore pubblico nell’economia e da un controllo del governo Roosevelt sulle produzioni, seppur principalmente dal lato della domanda. Il suo successore, Harry Truman (1945-53), subentrato alla sua morte nell’aprile del 1945, benché democratico anch’egli, optò per una decisa svolta liberista restituendo al settore privato l’intero apparato produttivo pubblico, comprese le fabbriche impiantate durante il conflitto dalle agenzie federali con fondi pubblici, per far fronte alle necessità di guerra.

Dopo la lunga parentesi della presidenza Roosevelt, caratterizzata dal tentativo di introdurre l’intervento dello stato nell’economia, prima, in parte fallendo con il “New Deal”, e successivamente, riuscendoci con l’economia di guerra, la riconversione di quest’ultima avverrà all’insegna del liberalismo economico totale, nel cui contesto trarranno grandi giovamenti i trust nazionali, tant’è che già nel 1947, le principali 250 grandi aziende statunitensi arrivarono a possedere i 2/3 dell’apparato produttivo nazionale.

Conclusioni

Alla luce delle evidenze fuoriuscite dal nostro caso di studio possiamo concludere che risultò, quindi, l’economia di guerra, non il “New Deal”, a mettere fine alla decennale depressione statunitense. Tantomeno quest’ultimo riuscì a modificare in modo sostanziale la distribuzione del potere all’interno della società e dell’economia statunitense, accertato che determinò solo un piccolo, seppur significativo, beneficio per i ceti sociali più colpiti dalla Grande depressione.

L’economia di guerra non risultò tanto un trionfo della libera impresa, quanto il risultato dell’attività di finanziamento del governo che infatti registrò un eccezionale aumento del debito pubblico, il quale, in rapporto al Pil, come visto passò dal 40% del 1938 ad oltre il 120% nel 1945 (grafico 4). Viceversa, per tutto il periodo del “New Deal” la disoccupazione risultò alta (grafico 2), mentre i consumi, gli investimenti e le esportazioni nette, i pilastri della crescita economica, rimasero su livelli bassi.

In definitiva, il forte sviluppo dell’industria militare necessario per sostenere il fronte di guerra europeo e quello pacifico, la riorganizzazione del lavoro e l’aumento delle produzioni trainato dalla mastodontica domanda federale e dalla crescita dell’export, anche di prodotti alimentari, verso i Paesi sostenuti da Washington, vale a dire l’economia di guerra del 1941-45, si rivelarono fattori fondamentali nell’ascesa degli Stati Uniti a ruolo di superpotenza mondiale, decretandone il definitivo sorpasso ai danni dell’Impero britannico, dopo aver compiuto quello in campo economico già al termine della Prima Guerra Mondiale.

Leadership consacrata proprio in quegli anni alla Conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, durante la quale gli Usa capitalizzarono tutto il loro peso geopolitico, economico e militare riuscendo a far elevare il dollaro a moneta di riferimento degli scambi internazionali. Tali storici accordi portarono inoltre all’introduzione delle parità fisse fra le divise e della convertibilità del dollaro in oro, il cosiddetto Gold Exchange Standard (1944-71), che consenti alla valuta statunitense di assurgere alla funzione di moneta di riserva per le Banche centrali.

Inoltre, le sedi del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, istituzioni internazionali finanziarie fondate proprio in quel consesso a garanzia dell’ordine internazionale finanziario a guida statunitense, non casualmente furono stabilite a Washington.

Vennero in pratica gettate la basi per il conseguimento della leadership globale, prima condivisa con l’URSS durante il Bipolarismo e la Guerra Fredda, e successivamente esercitata in proprio dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, nella fase del dominio unilaterale. Unilateralismo che, peraltro, negli ultimi anni hanno iniziato a mettere in discussione le strategie delle nuove potenze emergenti che, raccolte nei Brics, anelano ad un ordine internazionale su base multipolare.

Nell’ottica di cercare di fornire una lettura della vicenda dell’economia di guerra statunitense della Seconda Guerra Mondiale attualizzata e contestualizzata ai paesi direttamente coinvolti nell’attuale conflitto in Ucraina, possiamo ricavare interessanti indicazioni in particolare rispetto alla situazione della Russia.

L’economia di guerra parziale adottata sino ad aggi dalla Russia mette in risalto, oltre ad importanti divergenze, anche alcuni significativi parallelismi con la situazione sopra analizzata, in relazione soprattutto alla tenuta stessa dell’economia russa durante il 2022 e addirittura alle performance economiche, secondo il Fmi (tab. 5), superiori, nonostante le sanzioni occidentali, a quelle dei paesi europei del 2023 e, in base alle previsioni di luglio scorso, anche del 2024. Ciò in quanto la dinamica economica russa, oltre alla capacità di aver reindirizzato l’export energetico, è legata come negli Usa del 1941-'45 alla cospicua domanda pubblica e alle produzioni del settore statale che fanno leva su un sensibile deficit di bilancio, finanziato però attraverso le riserve monetarie accantonate nei fondi sovrani di Mosca, negli anni precedenti al 2022, quindi, almeno sino ad oggi, senza gravare eccessivamente sul debito pubblico

La Russia inoltre, come gli Stati Uniti durante il conflitto mondiale, non ha al momento subito importanti distruzioni sul proprio territorio e l’apparato produttivo è stato sensibilmente ampliato, soprattutto in relazione alle produzioni belliche, e soffre di congiunturale carenza di manodopera che ha comportato, al pari degli Usa del 1941-'45, un significativo aumento dei salari e degli stipendi.

Ugualmente, è verosimile che al termine del conflitto al governo russo si presenti il problema della conversione della parziale economia di guerra sino ad oggi adottata, opera che tuttavia risulterà probabilmente meno complessa sia per la minor entità dello sforzo produttivo destinato alle attività belliche che per il più contenuto numero di militari e operai mobilitati.

È significativo, in conclusione, segnalare che le principali voci dell’export dell’economia di guerra integrale degli Usa del 1941-'45 erano rappresentate da prodotti manifatturieri di vario genere e armamenti, mentre quello attuale della Russia si basa sui prodotti energetici e minerari, grezzi e semilavorati, quindi a minor valore aggiunto[10].

Note

[1] “Insubordinazione e sviluppo. Appunti per la comprensione del successo e del fallimento delle nazioni” di Marcelo Gullo, Fuoco Edizioni, 2014. Cap. 9: Corea del Sud: il caso testimone. Pag. 185

[2] “L’economia degli Stati Uniti” pagg. 93-94. Autore: Pierre George. Editore: Garzanti 1960

[3] Procedimento definito dagli economisti come pump-priming, riassetto per assicurare la ripresa delle aziende in difficoltà mediante la concessione di crediti e medianti acquisti.

[4] “L’economia degli Stati Uniti” pag. 96. Autore: Pierre George. Editore: Garzanti 1960

[5] Il “Lend-Lease Act”: espediente legislativo adottato l’11 marzo del 1941 dal Congresso e dal Presidente degli Usa. Inizialmente, lo scopo era di soccorrere (con idonei mezzi finanziari, rifornimenti di materiali bellici e materie prime), durante la Seconda guerra mondiale, senza rompere formalmente la propria neutralità, quegli stati europei ed extraeuropei che seguivano una politica giudicata conforme agli interessi degli Usa. In seguito all’entrata un guerra degli Usa (8 dicembre 1941), la legge servì a mantenere quei soccorsi fino al raggiungimento dei comuni obiettivi militari e politici. La legge attribuiva al presidente Usa il potere di stabilire non solo i materiali in questione, ma anche le modalità di rimborso da parte dei Paesi beneficiari; bastava che queste fossero, a discrezione del presidente, dichiarate soddisfacenti. Fonte Enciclopedia Treccani on-line

[6] Nel 1939 l’esercito Usa, la forza armata più numerosa era formata da poco più di 170.000 uomini. Fonte

[7] Durante il periodo di guerra effettiva, più di 16 milioni di statunitensi servirono nelle United Statea Armed Forces, dei quali 290.000 morirono in combattimento e 670.000 rimasero feriti. Fonte

[8] Liberty ship: mastodontico programma di costruzione di grandi navi cargo che avevano la funzione di trasportare ai paesi alleati approvvigionamenti per far fronte allo sforzo bellico e alle necessità delle popolazioni

[9] Fonte: l’Economia degli Stati Uniti, pag. 100. Autore: Pierre George. Garzanti edizioni

[10] Misura l’import-export della Russia, settore per settore. Fonte

Fonte

Il fondatore di Blackwater annuncia per lunedi la destabilizzazione del Venezuela

Erik Prince, nato nel 1969 nel Michigan, è noto come il fondatore della Blackwater nel 1997, una compagnia militare privata che ha guadagnato una triste notorietà durante la guerra in Iraq perché ha fornito servizi di sicurezza al governo degli Stati Uniti rendendosi responsabile anche di crimini contro gli iracheni.

Prince viene da una famiglia benestante, ha iniziato la sua formazione militare presso l’Accademia Navale degli Stati Uniti, anche se non ha completato i suoi studi lì, scegliendo di laurearsi all’Hillsdale College. Arruolatosi nelle forze armate, è stato un membro dei Navy Seals, diventando – una volta congedato – il fondatore della compagnia di contractors Blackwater.

Il nome di Erik Prince, è stato collegato sia a importanti contratti governativi sia a vicende legali sull’uso eccessivo della forza da parte della sua azienda di mercenari.

Il quotidiano italiano L’Indipendente riporta che sulla piattaforma Ya Casi Venezuela, ritenuta vicina ad Erik Prince, è apparso un countdown che segna giorni, ore e minuti che mancherebbero al rovesciamento del governo venezuelano «Il Venezuela sta per cambiare rotta» e la data è fissata al 16 settembre.

Nel video pubblicato da Ya Casi Venezuela, si fa notare un frame del profilo social di Erik Prince in cui si vede un post pubblicato il 31 luglio 2024, in cui lo statunitense invita l’amministrazione Biden ad aumentare la taglia per l’arresto e la condanna di Nicolas Maduro e Diosdado Cabello Rondon fino a 100 milioni di dollari, dai 25 milioni di dollari posti dal Department of State Bureau of International Narcotics and Law Enforcement Services (INL).

Nel suo post del luglio scorso, dunque prima delle elezioni in Venezuela, Prince scriveva: “Se Kamala Harris e Joe Biden vogliono davvero sostenere la libertà e le elezioni legittime in Venezuela, dovrebbero aumentare le taglie a 100 milioni di dollari ciascuno per questi criminali già ricercati, Nicolas Maduro e Diosdato Cabello e tutti gli altri del loro cartello. Poi sedetevi e guardate la magia accadere. È persino possibile pagarli con i soldi del regime congelati già nelle banche statunitensi”.

L’Indipendente scrive che il giorno seguente alla pubblicazione di questo post, Samuel Moncada, rappresentante permanente del Venezuela presso le Nazioni Unite, aveva denunciato pubblicamente il messaggio di incitamento alla violenza nei confronti del presidente venezuelano Nicolas Maduro e del vicepresidente del Partito Socialista Unito del Venezuela Diosdado Cabello. “In Venezuela, la lotta è contro il fascismo globale. La netta maggioranza del nostro popolo è disposta a lottare per la nostra indipendenza”, ha dichiarato l’ambasciatore venezuelano.

Fonte

Cadono le accuse di terrorismo per Luigi Spera

La Corte di Cassazione ha fatto cadere l’accusa di attentato terroristico per Luigi Spera, annullando così l’ordinanza del Tribunale del riesame di Palermo.

Luigi Spera, vigile del fuoco e attivista palermitano per la pace è stato detenuto fino ad oggi in carcere di Alta Sicurezza ad Alessandria sulla base di questa accusa, che sin da subito appariva del tutto sproporzionata e pretestuosa per il lancio di un fumogeno dentro il cortile di uno stabilimento della Leonardo a Palermo.

Il ricorso, presentato dall’avvocato Giorgio Bisagna, è stato accolto, determinando l’annullamento della riqualificazione del reato di terrorismo attuata dal Tribunale del Riesame.

Viene meno dunque l’imputazione che ha costretto il militante di Antudo in regime detentivo di AS2 dallo scorso marzo, a 1000 km da casa.

Crolla l’impianto accusatorio voluto dal pubblico ministero e con esso emerge la fragilità di un processo a tutti gli effetti politico: il carosello di indizi spacciati per prove, i titoli e articoli di giornale ricchi di dettagli e appellativi sensazionalistici, la volontà di sbattere in prima pagina la vicenda esasperandone i toni con l’obiettivo di punire in modo esemplare una realtà come quella di Antudo e i suoi appartenenti, colpevoli di aver puntato il dito contro il colosso degli armamenti Leonardo. Un apparato industriale tra i primi al mondo per fatturato, che profitta miliardi allo Stato italiano vendendo droni, elicotteri e tecnologie militari agli eserciti di tutto il mondo – e che vanta tra i suoi maggiori acquirenti il governo israeliano impegnato nello sterminio della popolazione palestinese.

Auspichiamo che il compagno Luigi Spera possa ora tornare a casa il più presto possibile.

Fonte

[Contributo al dibattito] - Quando l’estrema destra definisce il quadro politico – La Germania nel suo labirinto

Le elezioni del 1° settembre nei Länder tedeschi di Turingia e Sassonia hanno rappresentato un successo significativo per l’estrema destra tedesca, che potrebbe essere ulteriormente rafforzata nelle prossime elezioni regionali in un terzo Länder, il Brandeburgo.

In Turingia, con quasi 3 milioni di abitanti, l’estrema destra di Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD ) è diventata la forza trainante con quasi il 33% dell’elettorato e 32 degli 88 seggi in parlamento, 10 in più rispetto a oggi. I suoi nuovi elettori sono, fondamentalmente, ex elettori dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e della sinistra radicale (Die Linke), delusi per aver votato nel 2019 per partiti che non avevano la capacità di esercitare un’opposizione frontale all’attuale governo.

In Sassonia, con 4 milioni di abitanti, l’estrema destra è arrivata seconda con quasi il 31% dei voti e 40 consigli regionali su 120, due in più rispetto alla legislatura precedente e appena uno in meno dei democristiani, che restano comunque la prima forza.

La Germania intrappolata in se stessa

Per Beat Wehrle, analista politico, specialista in questioni globali e direttore del Programma internazionale dell’Organizzazione non governativa (ONG) Terre des Hommes/Germania (Terra dell’Umanità), il fatto che “Alternativa per la Germania ottenga una percentuale così alta è scandaloso, ma non sorprendente”. Perché lo consideri uno scandalo? Perché in entrambi i Länder l’Ufficio federale per la protezione costituzionale (Bundesamtfür Verfassungsschutz) definisce l’AfD come decisamente di estrema destra, a causa delle sue dichiarazioni e atteggiamenti chiaramente neonazisti. Secondo Wehrle “Bernd Höcke, candidato di AfD in Turingia, è il miglior esempio e la prova tangibile di tale caratterizzazione. È la figura che concentra sempre più potere all’interno di quella forza e dirige la tendenza interna più reazionaria, chiamata Der Flügel” (Ala o Fazione ).

Il risultato non è una sorpresa, sostiene Wehrle, poiché molti sondaggi diversi lo avevano anticipato. “Tuttavia bisogna riconoscere che le percentuali sono un po’ più alte del previsto”, il che indica un crescente malcontento. Soprattutto nella Germania orientale, dove l’AfD ha sempre ottenuto i suoi risultati più significativi. Secondo questo analista politico, questo malcontento è dovuto “alla disuguaglianza storica tra la Germania occidentale e quella orientale. E in tempi di crisi, data la mancanza di prospettive, la frustrazione e la protesta sociale si accentuano. La Germania sta attraversando un processo accelerato di auto isolamento con la conseguente profonda battuta d’arresto in termini di solidarietà, sia a livello nazionale che nella sua visione internazionale”.

Nella prima settimana di settembre, ad esempio, il colosso automobilistico tedesco Volkswagen ha annunciato che stava studiando la chiusura di almeno due dei suoi stabilimenti nel paese, con la conseguente minaccia a diverse migliaia di posti di lavoro. Niente di simile è mai accaduto negli 87 anni di storia dell’azienda, vero emblema dell’antica forza della nazione europea.

Cordone politico sanitario

Nonostante gli ultimi risultati elettorali, non sarà automatico che l’estrema destra possa governare. La CDU ha anticipato che cercherà di promuovere un cordone sanitario e di costruire un’alleanza contro l’AfD.

Sia in Turingia che in Sassonia i grandi perdenti delle elezioni della prima domenica di settembre sono stati i partiti dell’alleanza di governo nazionale: lo stagnante Partito socialdemocratico del cancelliere Olaf Scholz, i Verdi, che scompaiono in Turingia e restano in minima parte in Sassonia, e il Partito Liberal Democratico (FDP), che perde in entrambe le regioni.

Il segnale che la Turingia e la Sassonia hanno appena lanciato a Berlino, sede del governo nazionale, è chiaro e provocatorio. E potrà rafforzarsi ancora di più nelle prossime elezioni del 22 settembre nello Stato di Brandeburgo, per il momento governato da un ministro-presidente socialdemocratico che nel 2019 è riuscito a prevalere sull’estrema destra con meno di 3 punti percentuali (26,2% al 23,5%). Il Brandeburgo, con quasi 2,5 milioni di abitanti, insieme alla Turingia, alla Sassonia e ad altri due stati, costituiva l’ex Repubblica democratica tedesca fino alla caduta del muro di Berlino e alla “riunificazione” delle due Gemanie.

Il 1° settembre i sondaggi hanno ulteriormente screditato un governo in frantumi. E hanno chiarito che la questione del controllo dell’immigrazione è già un quadro di riferimento per l’attuale dibattito politico dal quale nessuno può prendere le distanze. Neppure lo schiaffo del primo ministro Scholz, che alla fine di agosto ha espulso dal paese 28 cittadini afgani accusati di vari crimini, in un grande spettacolo mediatico, è servito a smorzare il discorso xenofobo che ogni giorno guadagna sempre più terreno in Germania.

Poli distanti e coincidenti

In questo scenario che si va delineando da diversi anni, non sorprende che l’altro grande vincitore della competizione elettorale della scorsa settimana sia un nuovo partito. Di recente formazione e nata dall’estrema sinistra, anche l’Alleanza Sahra Wagenknecht – Per la Ragione e la Giustizia (BSW, il suo acronimo in tedesco) assume come asse programmatico il controllo dell’immigrazione, coincidendo così parzialmente con l’estrema destra radicale. Il nuovo partito di Sahra Wagenknecht, che porta il nome della stessa leader, in una sorprendente espressione di personalismo da uomo forte, è il risultato di una scissione di Die Linke (La Sinistra), che fin dalla sua fondazione nel 2007 ha espresso critiche fondamentali alla socialdemocrazia, chiedendo un progressivo approfondimento delle politiche economico-sociali.

L’Alleanza Sahra Wagenknecht ha appena ottenuto quasi il 16% dei voti in Turingia e quasi il 12% in Sassonia, diventando la prima forza nella storia tedesca a ottenere risultati così elevati a soli nove mesi dalla sua fondazione.

Particolare è la storia di Wagenknecht, che a 55 anni diventa una delle figure politiche più importanti del Paese. Dottoressa in Scienze Economiche e pubblicista, fin da giovane fu attiva in formazioni di sinistra. Ha fatto parte della direzione di Die Linke (divenne vicepresidente) e parlamentare europea per quella formazione tra il 2004 e il 2009. Per anni si è proiettata come personalità di riferimento in campo progressista, anche se recentemente ha esposto argomenti controversi, in particolare la sua critica alla libera migrazione e alla politica delle frontiere aperte. Wagenknecht propone programmi sociali che diano priorità ai lavoratori, sostiene una maggiore giustizia nella ridistribuzione del reddito a beneficio dei meno abbienti e allo stesso tempo sottovaluta le questioni di genere e ambientali, che a suo avviso distolgono l’attenzione dalle priorità sociali. Nella politica internazionale, propone di prendere le distanze dalla NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), di cessare il sostegno all’Ucraina e di avviare un negoziato con la Russia per arrivare ad una soluzione negoziata del conflitto ucraino. In modo categorico prende le distanze dalla presenza di missili americani a medio raggio in territorio tedesco.

La sua combinazione retorica anti-immigrazione, pacifista e anti-guerra ucraina – anche se lei insiste di non essere filo-russa – le ha permesso di prendere le distanze dalle logore forze governative. Allo stesso tempo ha definito un proprio profilo politico che si distacca dalla sinistra tradizionale da cui proviene. E scommette di incanalare il voto di una parte di coloro che sono disillusi dal sistema attuale e che non si sentono a proprio agio con l’estrema destra.

Essendo la terza forza nelle due recenti elezioni regionali, la sua Alleanza ha lasciato molto indietro i socialisti, i liberali e i verdi. Le sue percentuali elettorali significative indicano che potrebbe far pendere l’ago della bilancia sia verso l’estrema destra che verso un governo democristiano, diventando così un soggetto politico con grande potere negoziale con entrambi.

Per Wagenknecht, al di là della posta in gioco oggi nei due Länder della Germania orientale, ciò che conta soprattutto è la costruzione politica della sua alleanza nazionale, per la quale l’esercizio elettorale del 1° settembre è stato un laboratorio dai risultati scioccanti.

Crocevia

Secondo Beat Wehrle: “Finora la BSW ha dichiarato che non stringerà un’alleanza con l’estrema destra”. Tuttavia, ricorda Wehrle, Katja Wolf, una personalità chiave della BSW in Turingia, ha affermato di avere “l’intenzione di sostenere le proposte ragionevoli che l’estrema destra fa passare all’Assemblea legislativa”.

Wehrle concorda anche sul fatto che i risultati positivi sia dell’estrema destra che del BSW esprimono “l’attuale forte malcontento nei confronti dei partiti tradizionali”. E sottolinea che la crescita è rapida di BSW rende ancora più complesse le trattative per la formazione del governo in Sassonia e Turingia: “Potrebbe essere un’anticipazione della difficoltà di costituire una futura alleanza di governo l’anno prossimo a livello nazionale dopo le elezioni generali che si terranno nel settembre 2025”.

Il BSW, insiste Wehrle, “è una chiara espressione della frustrazione di una parte dell’elettorato rispetto all’attuale coalizione di governo” nota come AMPEL – la coalizione “semaforo” in tedesco – a causa dei colori rosso del Partito socialdemocratico, giallo del liberale FDP e verde dei Verdi. Naturalmente si può ipotizzare che, dopo le elezioni del prossimo anno, sarà molto difficile che questa alleanza si ripeta perché l’attuale governo, secondo le parole di Wehrle, “è pieno di contraddizioni, in perenne disputa, con un cancelliere Olaf Scholz che manca di carisma e autorità, con i liberali che giocano in modo estremamente sleale e i verdi che si mostrano incapaci di mettere in pratica le loro proposte. Per tutto questo, il malcontento è ampio e profondo”.

I cittadini che in Turingia e Sassonia hanno votato per la BSW, secondo Wehrle “rappresentano un settore che non vuole sostenere il governo nazionale, ma che non si identifica con i democristiani e tanto meno con l’estrema destra”. Sebbene la BSW si presenti con posizioni di sinistra nella politica economica e sociale, sulla questione dell’immigrazione la sua posizione è molto conservatrice.

Tornando all’analisi globale post-elettorale, Wehrle ribadisce “che i risultati dell’AfD sono preoccupanti per la democrazia stessa poiché con il suo discorso fascista sta spingendo tutti i partiti significativamente a destra”.

E sostiene che i democristiani sono diventati ancora più conservatori di prima e che i socialdemocratici sembrano privi di bussola e non si appropriano nemmeno delle loro posizioni storiche. L’estrema destra, sottolinea, definisce e impone già oggi il quadro del dibattito politico e i suoi contenuti prioritari, costringendo l’intera classe politica a una fortissima svolta ideologica a destra. La stessa tendenza che stiamo vedendo in molti paesi europei e anche a livello globale, conclude.

Fonte

La UE contro le Big Tech statunitensi: tasse arretrate e multe per Apple e Google

Ogni tanto ci sono degli avvenimenti che ricordano come – nonostante la filiera euroatlantica sia fermamente unita sotto l’ombrello della NATO, necessario per la guerra da muovere all’emergente mondo multipolare – dal lato prettamente economico Stati Uniti e UE siano in competizione serrata.

Lo ricordano continuamente politici e documenti di Bruxelles, che accanto alla Cina citano sempre l’alleato d'oltreoceano tra i soggetti contro cui bisogna sviluppare competitività e autonomia tecnologica e di risorse. E ci sono poi, appunto, anche eventi che lo mostrano in maniera netta.

La Corte di giustizia UE ha confermato da pochi giorni le decisioni prese dalla Commissione Europea alcuni anni fa, inferendo un duro colpo a due delle cinque grandi compagnie Big Tech a-stelle-e-strisce, Apple e Google.

Quest’ultima aveva fatto ricorso contro la multa di 2,4 miliardi comminata per aver abusato della posizione dominante nello Spazio economico europeo nel comparto delle ricerche generiche sul web. Google aveva presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione.

Un primo ricorso era già stato respinto nel novembre 2021, e ora la decisione è stata confermata. Da Google hanno fatto sapere che sono delusi da come si sia conclusa la vicenda, considerato che hanno inoltre apportato modifiche per conformarsi alle indicazioni della Commissione Europea.

Per quanto riguarda Apple, alcune società appartenenti al suo gruppo nel 2016 erano finite sotto accusa per aver beneficiato, tra il 1991 e il 2014, di una serie di vantaggi fiscali in Irlanda, poi caratterizzati come un illecito aiuto di Stato da parte della Corte.

Nel 2020 il Tribunale dell’Unione Europea aveva annullato tale decisione, ritenendo non fosse stata adeguatamente dimostrata l’esistenza di un reale vantaggio per queste società. Ma a Margrethe Vestager, Commissaria UE alla Concorrenza, questa sentenza non era andata giù.

Il ricorso presentato dalla rappresentante di Bruxelles è arrivato infine a una conclusione: la Corte ha annullato la decisione del Tribunale e ha invece confermato quella della Commissione. L’Irlanda deve dunque recuperare 13 miliardi di tasse non versate da Apple.

In una nota della compagnia fondata da Steve Jobs si legge: “questo caso non ha mai riguardato la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo a cui siamo tenuti a pagarle. Paghiamo sempre tutte le tasse che dobbiamo ovunque operiamo e non c’è mai stato un accordo speciale”.

Il testo continua con un attacco diretto a Bruxelles: “la Commissione Europea sta cercando di cambiare retroattivamente le regole ignorando che, come previsto dal diritto tributario internazionale, il nostro reddito era già soggetto a imposte negli Stati Uniti”.

Alla fine del marzo 2024, la Commissione Europea ha avviato anche altre indagini di non conformità alle norme sulla concorrenza nei confronti di Alphabet – la società madre di Google – Apple e Meta, ai sensi del Digital Markets Act (DMA).

In altre occasioni, la Commissione (che esprime l’orizzonte di una UE che vuole fare un salto di qualità nella competizione globale) ha dovuto cedere di fronte al tentativo di assestare un colpo alle Big Tech statunitensi. Senza considerare che, ad ogni modo, aziende del genere non esistono in Europa.

Alla fine del 2023 il Lussemburgo ha vinto un caso su tasse non pagate con la Commissione, relativo al rapporto del paese con Amazon. Per quello così come per altri procedimenti simili la Corte ha contestato – ed è interessante sottolinearlo – il metodo e i criteri adottati dalla Commissione.

Bruxelles ha infatti connesso in modo disordinato i nodi della concorrenza e del fisco per contestare un ipotetico aiuto di Stato illegittimo e costringere le multinazionali a pagare i tributi.

Come affermato dalla Corte riguardo a un processo che coinvolgeva Fiat Chrysler, per contestare l’alterazione delle regole di mercato mediante la leva fiscale, l’Antitrust deve dimostrare che un paese ha adottate misure in contrasto con la “sua propria legislazione fiscale”.

Insomma, la Vestager si è appellata spesso a un inesistente diritto fiscale dalle forme armonizzate in UE. Cosa che non esiste anche perché la sua mancanza è stata la fortuna di molte multinazionali continentali, che anche in virtù del dumping fiscale hanno avuto la possibilità di assumere un peso maggiore a livello internazionale.

Queste asimmetrie su cui è stato costruito il polo europeo non sempre fanno comodo a un organo politico che ora si pone il tema di diventare un soggetto che si muove in maniera meglio organizzata e coerente in uno scenario globale segnato da guerra e feroce competizione.

Fonte

Affidiamo la sanità ai carabinieri?

Si vuole intervenire su un vero problema, quale è quello delle aggressioni al personale sanitario, ma lo si intende fare col solito piglio emergenziale, repressivo, addirittura con il coinvolgimento dell’esercito.

È tipico della destra, massime di quella fascistissima che ci governa, strillare ed evocare tintinnii di manette davanti a fenomeni sociali oggettivamente allarmanti.

Aggredire il personale sanitario è una infamia, non si spara sulla croce rossa e non perché non conti un cazzo, ma proprio perché la croce rossa ti salva la vita, se ci tieni.

Il problema è che dalla pandemia in poi a sparare sulla sanità è stata proprio la destra, arrivata durante la sua fase estrema a delegittimare vaccini e lockdown in nome di una “libertà di cura” e “movimento” che era in barba alla pubblica salute.

Dopo anni di continui ed equanimi tagli alla sanità da parte di governi di centrodestra e centro sinistra, la vera novità è la rivoluzione a/culturale condotta dalla reazione in odio al metodo scientifico.

La destra di governo, e non, ha cavalcato qualsiasi ribellismo piccolo borghese e bottegaio contro ogni forma di prevenzione del contagio, arrivando a negare le decine di migliaia di morti, una intera generazione nel nord Italia.

Non contenta, si è spesa attivamente nell’accusare il personale sanitario di cattivo comportamento, cattiva scienza, disinteresse e fellonia. Al centro di questo attacco sono stati medici ed infermieri accusati addirittura di dolo sui social controllati dalla destra.

Ancora oggi fogliacci trumpiani come Verità, Giornale e Libero pubblicano fake news contro OMS e autorità sanitarie, campagne vaccinali e misure di prevenzione minime.

Se il governo Conte II dovesse mai finire sul banco degli accusati dovrebbe essere per la troppa prudenza nelle chiusure territoriali o quelle che avrebbero dovuto essere modulate sul modello cinese e sulla mappatura veneta dovuta a Crisanti.

Invece Conte e Speranza sono sotto accusa per quello che la destra ritiene un eccesso liberticida, la stessa destra che prevede anni di galera per un blocco stradale o di produzione dimostrando la coerenza con chi non voleva chiudere le fabbriche neppure in Val Seriana durante la peste covid.

Assassini sì, ma senza spari e soprattutto uccidendo la cultura, il rispetto per lo studio e la scienza, la competenza, la fatica sui libri di chi ci mette l’anima per curare.

Vogliono mettere un carabiniere accanto a ogni medico dopo avere fatto di tutto per denigrare i medici, dopo averli delegittimati col loro lunapiattismo e fatti scappare a migliaia.

Ma state tranquilli, alla fine resterà solo il carabiniere e sarà lui a curarvi.

Fonte

13/09/2024

Devilman Story (1967) di Paolo Bianchini - Minirece

La Bce taglia i tassi, il governo “cartona” il Pil

Persa la funzione guida della politica monetaria, alle banche centrali non resta che surfare sulle aspettative dei “mercati”. Vale per la Federal Reserve, vale a maggior ragione per la Bce, che nel suo statuto – ricordiamo sempre – ha un unico obiettivo: la lotta all’inflazione (mentre la Fed deve almeno bilanciare questo stesso obiettivo con le oscillazioni del tasso di disoccupazione statunitense).

Ieri la Bce, come “i mercati” si aspettavano, ha tagliato dello 0,25% i tassi sui depositi, quelli che guidano la politica monetaria, portandoli dal 3,75% al 3,5%.

Stando ai dati economici – la Germania sta entrando in recessione tecnica, la produzione industriale italiana crolla con invidiabile costanza da oltre un anno e mezzo, l’inflazione europea è già ora piuttosto vicina al target del 2%, considerato “ottimale” – non poteva far altro.

Semmai, visti appunto i dati, sarebbe stato logico anche un taglio più consistente (lo 0,5), anche se la gravità della situazione sembra aver scosso comunque i vertici di Francoforte inducendoli ad abbassare dello 0,6% sia il tasso di rifinanziamento principale che il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale, rispettivamente al 3,65% e al 3,90%.

Insomma, una riduzione dei tassi di interesse base troppo timida e soprattutto tardiva, dato che fa seguito ad un analogo taglio nel mese di giugno che ovviamente non ha lasciato alcuna traccia nella dinamica economica.

La presidente della Bce Christine Lagarde ha evitato di dare indicazioni sul futuro: «Sarà quel che sarà. Rimaniamo dipendenti dai dati. Il percorso sui tassi è in discesa ma non è predeterminato né come sequenza né come entità».

Siamo ben lontani dal “whatever it takes” del suo predecessore. Ma del resto Lagarde non ha alcuna credibilità personale (basti ricordare le sue lettere a Sarkozy quando lei era ancora – addirittura – presidentessa del Fondo Monetario e l’altro presidente francese) e la sua carriera è considerata un “miracolo fondato sulle relazioni”, non certo sul livello scientifico.

“I mercati” si attendono ora un altro taglio della stessa entità, ma soltanto a dicembre, visto che per la prossima riunione del vertice Bce (ad ottobre) non sono previsti dati significativi, o sufficienti a motivare nuove mosse. Il che, ancora una volta, significherà troppo poco e troppo tardi.

La questione è infatti relativa agli obiettivi di politica monetaria, se limitati alla sola inflazione oppure all’insieme macroeconomico. Ed è noto che paesi di rilievo nell’assetto UE (e dunque della Bce), sono profondamente restii ad allentare la presa sui tassi di interesse. Germani, Olanda, Finlandia ed altri, però, nonostante le sparate ideologiche sulla necessità di non premiare i “paesi cicala” (quasi tutti gli altri) con tassi troppo leggeri (che aiuterebbero a tenere più bassi i rispettivi debiti pubblici), sono notoriamente più attenti a mantenere il proprio vantaggio competitivo fondato anche sulla possibilità di rifinanziare a costo quasi zero il proprio debito, emettendo titoli di stato considerati “più sicuri” dai mercati finanziari.

E sono, così, stupidamente disattenti davanti al generale calo della domanda aggregata in Europa, provocato da tassi troppo alti. “Stupidamente” in senso proprio: tra i danneggiati da vendite inferiori ci sono anche le proprie industrie nazionali (per esempio le automobili, con Volskwagen e Bmw in crisi nera, anche per errori propri).

Non facilita però il contrasto ai “falchi” della politica monetaria il comportamento di governi come quello Meloni. Vediamo ogni giorno tonitruanti annunci sulla crescita dell’occupazione (“un milione di posti di lavoro in un anno!”), peraltro convalidati dai dati Istat.

E ben pochi, sulla stampa mainstream, si domandano come sia possibile che così tanti lavoratori in più abbiamo un tanto scarso impatto sulla crescita del Pil (appena lo 0,9%). Segno certo che quei nuovi posti di lavoro sono a zero valore aggiunto, ossia non creano ricchezza.

Com’è possibile? Beh, non è che moltiplicando le vendite degli spritz – e i locali, e gli addetti – si incrementa davvero l’economia... Non ogni posto di lavoro, insomma, ha lo stesso peso nella produttività generale dei fattori produttivi.

Ma da ieri sta girando un altro “annunciato annuncio” secondo cui nei prossimi giorni l’Istat dovrebbe rivedere al rialzo anche le stime sul Pil. Cosa sorprendente perché – come detto prima – lo stesso Istat ha appena certificato un crollo della produzione industriale (uno dei pilastri del Pil, in ogni epoca e sistema produttivo), addirittura del 3,3% rispetto al mese di giugno.

C’è insomma la forte impressione che il governo Meloni stia esercitando una pressione sull’istituto di statistica perché fornisca numeri “migliori” del reale, in modo da facilitare la stesura della stessa “legge di stabilità” da sottoporre a breve alla Commissione europea.

E in effetti una proiezione del Pil più “ottimistica” permetterebbe di diminuire il rapporto debito/Pil (è una divisione di matematica elementare, in fondo) anche senza dover rinunciare – per ora – ad alcune mirabolanti promesse sul taglio delle tasse.

La tecnica usata è antica quanto il mondo ed è stata utilizzata spesso da governi in difficoltà. Per molti versi ricorda le tecniche della propaganda fascista “storica”, quando Mussolini faceva mettere spettacolari fondali di cartone ai lati delle strade durante le visite di ospiti stranieri, per dare l’idea di un paese più forte del reale.

Farlo con il Pil è militarmente meno pericoloso, certo, ma espone a far pagare presto un prezzo ancora più alto a lavoratori, studenti, pensionati, famiglie, ecc., quando il giochino verrà scoperto e bisognerà fare una “manovra correttiva”.

Ma tanto non è detto che dovrà occuparsene il governo attuale, no?

Fonte