31/03/2021
A lezione dai nazisti
Lo spaesamento provocato dalla visione della serie tv ucronica L’uomo nell’alto castello suggerisce punti di contatto tra realtà storiche apparentemente lontanissime. Le forzature suggerite da quest’opera di fanta-storia lasciano spazio all’inquietudine di fronte alle recenti frontiere della ricerca storica e sociologica.
Dopo la lettura di Modernità e Olocausto del sociologo Zygmunt Bauman e Liberi di Obbedire: Management e Nazismo, dello storico Johann Chapoutot, è più difficile guardarsi allo specchio.
Lo studio del Nazismo e dell’Olocausto ha permesso di cogliere dei messaggi sulla natura umana e sul mondo di oggi che restano ancora inascoltati. Questi autori si sono spinti oltre la considerazione che si sia trattato di un incidente di percorso, di una barbara ma temporanea deviazione dal cammino della civilizzazione, concludendo invece che si tratti di fenomeni insiti e possibili nella società moderna.
Occorre considerarlo, dice Bauman, come un «laboratorio sociologico», «un test delle possibilità occulte insite nella società moderna […] della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze».
Attribuire al Nazismo scelleratezza e irrazionalità serve a negare un’opposta spaventosa evidenza: l’essere umano moderno è capace di qualsiasi atrocità proprio perché è razionale. Troppo razionale.
La modernità, intesa come emancipazione della ragione dall’emozione e dell’efficienza dall’etica, ha evocato dei mostri dagli inferi che «l’uomo-mago», diceva Marx, non riesce più a controllare. Per Bauman la civiltà si dimostrò incapace di garantire un uso morale del terrificante potere da essa creato.
Solitamente i nazisti vengono riesumati dall’angolo buio della nostra memoria collettiva, o strumentalizzati come jolly per disarcionare avversari politici in una dialettica che prende il nome di Legge di Godwin. Bauman invece mostra che il loro prodotto più brutale, la Shoah, svela «la fragilità della natura umana di fronte all’efficienza fattuale dei più celebrati prodotti della civiltà: la sua tecnologia, i suoi criteri razionali di scelta, la sua tendenza a subordinare pensiero e azione alla pragmatica economica ed efficientista».
Lo scientismo, ovvero l’atteggiamento di chi ritiene unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, è diventato un dogma perché si è riconosciuto alla scienza e alla tecnica il potere di autolegittimarsi grazie alle vittorie produttiviste della rivoluzione industriale.
Il darwinismo sociale ed economico, inteso come applicazione delle leggi della selezione naturale ai campi della società e dell’economia, è stata alla base dell’azione nazista e, pur senza facile riduzionismo, è possibile rintracciarne degli elementi sopravvissuti nell’ideologia neoliberista odierna.
Chiaramente lo sterminio degli ebrei è stato alimentato da un’ideologia razzista che non è nei programmi dei governi occidentali di oggi. Ma quello che Bauman dimostra è che la Shoah rappresentava il culmine della scienza moderna e dei progetti di ingegneria sociale che, per il direttore del Dipartimento di igiene del Ministero dell’interno, consisteva nella «propagazione della stirpe sana», non avendo dubbi che fossero conformi con le ricerche di Koch, Lister, Pasteur e altri famosi scienziati.
Si trattava quindi di un compito scientificamente fondato mirante all’istituzione di un nuovo e migliore ordine poiché la cultura moderna ricca di metafore vitalistiche e biologiche proponeva come obiettivi le nozioni di «normalità», «salute», «igiene», «autodepurazione», di uomo-giardiniere in vista del giardino perfetto.
Già nel 1919 Hitler puntava sull’«antisemitismo della ragione», l’unico in grado di garantire l’eliminazione degli ebrei, rispetto a un «antisemitismo emozionale» utile solo alla riuscita di qualche pogrom. Joseph Goebbels nel 1941 salutava l’adozione della stella ebraica come «misura di profilassi igienica».
Questi moderni concetti scientifici venivano coadiuvati da un metodo burocratico e manageriale di gestione delle masse umane che rendevano fondamentale l’efficienza e la riduzione dei costi. Non è un caso che a occuparsi del genocidio fu l’Ufficio economico-amministrativo del più grande Ufficio centrale per la sicurezza del Reich.
Illuminante è a tal proposito Johann Chapoutot che studia l’emblematica figura e le teorie di Reinhard Höhn, membro delle SS, giurista e accademico, che propose dal 1941 al 1943 una riflessione sul trattamento del management amministrativo. Durante lo sforzo bellico ed espansionistico, il Terzo Reich si trovava a dover far fronte a un aumento spaventoso del lavoro, e una diminuzione di funzionari tedeschi chiamati alle armi.
Come fare di più con meno uomini? Occorreva fare meglio! Anzitutto occorreva applicare le teorie aziendali all’amministrazione pubblica. Metodo che avrà ampio successo a partire dagli anni Ottanta in tutta Europa con il New Public Management. Si diffusero così innovative teorie di Menschenführung (Management), le nozioni di Leistungsfähig (performante, produttivo), flessibilità, elasticità, e la strategia di lavorare per missione e per obiettivi.
Höhn è convinto che il capo dell’azienda o dell’amministrazione deve assegnare gli obiettivi e lasciare liberi i «collaboratori» di scegliere i mezzi attraverso cui raggiungerli. Questa tecnica manageriale era il modo di lavorare di tutto il sistema nazista. Ian Kershaw, massimo specialista di Hitler, parla infatti di «lavorare nel senso della volontà del Führer».
Secondo la storiografia «funzionalista» Hitler fissò l’obiettivo della «questione ebraica» senza specificare come dovesse essere raggiunto. Gli esperti analizzavano i costi delle scelte alternative, secondo logiche di problem-solving.
La storiografia recente cerca di dirci che l’antisemitismo e il potere gerarchico non sono stati condizioni sufficienti, per quanto necessarie, alla fredda realizzazione di queste atrocità. Per lo psicologo Herbert C. Kelman, le inibizioni morali che impediscono di commettere atrocità violente tendono a essere erose in presenza di tre condizioni: quando la violenza è «autorizzata» (da ordini ufficiali di un’autorità legale), quando le azioni violente sono «routinizzate» (da pratiche rispondenti a norme e ruoli) e quando le vittime vengono «disumanizzate».
Queste tre condizioni, sono molto più presenti nella realtà moderna di quello che pensiamo perché la modernità corre attraverso gli assi della tecnica e della burocrazia.
La sostituzione della responsabilità morale con quella tecnica
L’idea che la divisione funzionale del lavoro permetta una maggiore produttività era parallelamente sviluppata dall’americano Henry Ford che, oltre che grande ammiratore del Reich, era un fervente taylorista. Non sono però stati abbastanza studiati gli effetti della segmentazione del lavoro rispetto al tema delle responsabilità.
Da un lato l’operaio perde il peso della responsabilità morale degli effetti delle proprie azioni mentre, dall’altro, si carica di quella del raggiungimento degli obiettivi. Il funzionario o l’operaio, che ha a che fare con il segmento di lavoro affidatogli, non ha rapporto diretto con l’effetto delle proprie azioni. L’operaio che deve montare una parte di una mitragliatrice è lontano dal sangue che essa provocherà. Non è affar suo, e può continuare tranquillo.
Il carattere morale dell’azione risulta così invisibile o occultato dalla concatenazione tra le proprie azioni da scrivania o da fabbrica e gli effetti concreti. La «mediazione dell’azione» secondo il sociologo John Lachs è un aspetto tipico della società moderna e crea un «vuoto morale» che permette all’essere umano di compiere cose inimmaginabili.
La soluzione delle camere a gas, oltre a rappresentare in un’ottica efficientista la migliore soluzione costi-benefici, permetteva di rendere distante e invisibile la vittima. Inoltre, agli esecutori (nazisti o contemporanei) non si chiede di valutare il significato delle loro azioni, che è determinato invece da altri che quantificano il successo attraverso numeri o grafici.
Ogni membro dell’ingranaggio si concentra sull’esecuzione del compito e sul successo tecnico dell’operazione, non sulla norma morale.
La delega di responsabilità
Le concezioni di comando e management sviluppati da Höhn si rivelarono straordinariamente congruenti con lo spirito dei tempi nuovi. In una Repubblica Federale Tedesca vetrina del blocco atlantico e del libero mercato, dopo la legge di amnistia e qualche anno di falsa identità, Höhn diffuse con successo presso l’«Accademia per dirigenti di impresa» a Bad Harzburg dal 1956 al 1969 le teorie produttiviste che contribuirono al nuovo miracolo tedesco.
Il management «per delega di responsabilità» prevede che l’esecutore debba riuscire, perché è libero di usare i mezzi a disposizione. Così facendo la direzione si libera della responsabilità del fallimento. L’impiegato più che la libertà trova l’alienazione generatrice di fenomeni di burn out.
2.440 aziende come Opel, Ford, Colgate, Hewlett-Packard, Thyssen, Esso, inviarono circa 200.000 quadri in quei 13 anni di ripresa tedesca «a scuola dai nazisti» per imparare come si dirige un’impresa. Nel 1971 una serie di inchieste chiarirono il passato di Reinhard Höhn e dagli anni Ottanta la sua scuola dovette cedere il passo ai metodi americani di Peter Ducker.
La disumanizzazione
Se la burocratizzazione permetteva di vincere le sfide di una gestione delle risorse umane e di una società di massa, essa contribuiva a eliminare la «pietà istintiva animale» che, secondo Hannah Arendt, ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza degli altri. Questo è stato possibile sicuramente attraverso l’ideologia. Ma secondo la storiografia recente un contributo importante è stato dato dall’isolamento sociale, dall’emarginazione, dall’industria, dalla scienza e dalla tecnologia.
Per Milgram «quanto più razionale è l’organizzazione dell’azione, tanto più facile è causare la sofferenza». Prima tramite le leggi si è operata la definizione e l’espropriazione di una società su base razziale, poi il concentramento ha completato quel processo di distanziamento che ha facilitato l’indifferenza morale e le inibizioni morali.
Milgram e Zimbardo negli anni Sessanta e Settanta realizzarono due esperimenti che rilevarono come la disumanità sia una funzione della distanza sociale. È molto facile essere crudeli verso qualcuno che non vediamo né udiamo. L’organizzazione burocratica nel suo complesso diventa uno strumento per l’apparente cancellazione della responsabilità.
Tutti questi studi non affermano nemmeno lontanamente l’innocenza dei nazisti obbedienti a ordini superiori bensì affermano che l’apporto scientifico permise a vaghe volontà antisemite di diventare lucida realizzazione di un genocidio.
La bugia che viene permanentemente raccontata nel valutare quei fenomeni così lontani, ma anche altri più vicini a noi, è che la tecnica sia neutra e adattabile a scopi crudeli come filantropici. La macchina burocratica in realtà, scrive Bauman, ha «vita propria», sia «perché cerca l’optimum tra efficienza e riduzione dei costi», sia per la tendenza patologica di sostituire i fini con i mezzi.
L’opinione pubblica infatti ritiene che la scienza, più di ogni altra autorità, possa adottare il principio, altrimenti odioso, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ad approfondire il senso di non responsabilità è il ruolo dell’autorità scientifica, che interviene non per coloro che sono interposti nella scala gerarchica, ma per chi deve concretamente «premere il grilletto».
Nel celebre esperimento Milgram i soggetti più refrattari all’invio della scossa elettrica mettevano da parte i loro dilemmi morali quando l’autorità scientifica giustificava l’atto coi fini della ricerca scientifica. Distanza dalla vittima e ruolo della scienza sono capaci di facilitare la creazione di quel vuoto morale che determina comportamenti immorali.
Il linguaggio manageriale
L’idea nazista dell’essere umano considerato come «risorsa umana», strumento della produzione, non può non richiamare il linguaggio dell’odierno settore aziendale che si occupa di gestire il «capitale umano».
Il linguaggio ha un ruolo centrale. Poiché il management intende dirigere le persone, qualsiasi conflitto, lotta di classe, deve essere prevenuta sul nascere. Nell’idea augustea della società nazista, ma anche in quella della Germania federale, l’obiettivo era l’integrazione delle masse tramite la partecipazione e la cogestione, per evitare la lotta di classe e lo scivolamento verso il bolscevismo.
Per favorire tale processo alcune parole chiave di questo newspeak orwelliano permettono di pacificare semanticamente ruoli e conflitti.
L’antropologo e psicologo del lavoro Michel Feynie ha redatto un inventario di dispositivi di comunicazione che va dalle semplici sostituzioni, come collaboratrice per segretaria, salariato per operaio, governance anziché direzione, allo straripante uso di anglicismi e acronimi come debriefing, packaging, feedback, consulting; passando per il frequente ricorso alla metafora empatica sportiva, militare o scolastica per sottolineare la necessità di competizione contro altre aziende; l’uso costante di parole chiave come efficienza, competenza, eccellenza, performance.
Nemici dello Stato e della società
Rovesciando una massima del sociologo Émile Durkheim secondo cui «l’uomo è un essere morale solo perché vive nella società», cosa succede se si realizza l’idea thatcheriana di una «società che non esiste» ed «esistono solo individui»? L’attuale società neoliberale tende a creare distanza sociale e la dissoluzione delle costruzioni sociali che possono ostacolare le libertà economiche e la competizione.
Contrariamente a un cliché scolastico, i nazisti non volevano uno stato forte, bensì uno stato strumento della razza e del partito. Lo stato era considerato un’invenzione del diritto romano tardo, l’amministrazione come una garanzia del potere assolutistico del XVII secolo e la legge un’invenzione ebraica (popolo della Legge per eccellenza). Rivendicavano al loro posto l’idea di «comunità di popolo», di tribù e di diritto germanico delle origini considerato come istinto, pulsione vitale, libertà germanica.
Il Terzo Reich è stato definito una policrazia, un regime in preda a una concorrenza amministrativa spietata e spontanea, in cui ministeri, dipartimenti, agenzie, lottavano per raggiungere gli obiettivi designati dal Führer in un costante accavallamento di competenze.
La visione nazista dello stato riprendeva il darwinismo sociale del filosofo liberale Herbert Spencer affermando che con la redistribuzione della ricchezza e la sicurezza sociale lo Stato assicurasse innaturalmente la sopravvivenza di chi non è valido e sostenibile. Disoccupati, handicappati e «fannulloni» erano stati fino a quel momento protetti mentre le «famiglie sane del popolo» vivevano nella miseria. Lo stato doveva avere un valore pro-selettivo, e facilitare il compito della natura.
Höhn sia prima del 1945 che dopo (tolta allora la componente razziale), ha avuto successo riutilizzando le stesse idee manageriali, combattuto lo stesso nemico (il bolscevismo), partecipato alla stessa visione della società. La libertà germanica è diventata la libertà economica o la libertà tout-court, l’antisemitismo è stato messo da parte, ma non la visione della vita come guerra e competizione in un’insaziabile corsa alla produzione e al dominio.
L’idea di una società solidale propugnata dalle Costituzioni del secondo dopoguerra è stata progressivamente smantellata dal potere finanziario che considera quelle stesse Costituzioni degli ostacoli burocratico-amministrativi al dispiegarsi delle energie creatrici del mercato.
Denis Kessler, amministratore delegato del gruppo Scor ed ex vicepresidente del Medef (la Confindustria Francese) nel 2007 ha dichiarato che occorre distruggere quanto fatto dal Cnr, ovvero il Consiglio Nazionale della Resistenza, che nel suo programma aveva gettato le basi dello stato sociale francese dopo l’esperienza collaborazionista di Vichy.
JPMorgan il 28 Maggio 2013 denunciò la presenza nelle Costituzioni dell’Europa meridionale «adottate in seguito alla caduta del fascismo, […] di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea»: «esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».
Si tratta degli stessi obiettivi dei nostri scienziati economici, e dei tecnici, cui con grande serenità ci affidiamo negli ultimi anni.
L’idolatria del «tecnico» si manifesta oggi come un rituale purificante che permette di affidare alla divina ratio le scelte politiche che le nostre società sono incapaci di compiere. Lo vediamo con la scelta di affidarci alla «naturale» predisposizione del libero mercato ad allocare le risorse e con quella di affidare in piena crisi sanitaria i governi a task force composte da manager aziendali o a banchieri quando c’è da distruggere lo stato sociale iscritto nel dettato costituzionale.
I nazisti ci appaiono quindi come l’immagine deformata e rivelatrice di una modernità folle che creò o perfezionò certe idee che oggi continuano ad avere successo. Parafrasando Chapoutot, pur essendo apparentemente lontani da quel modello di società le pratiche del management selvaggio, del capitalismo predatorio e dell’alienazione dell’essere umano ridotto a «risorsa umana», si sono ambientate nella nostra società sotto pretesto della necessità di essere competitivi nella «lotta vitale» della mondializzazione.
Höhn non poteva prevedere quanto questa necessità potesse rimanere attuale ottant’anni dopo. Eppure sconvolge quanto possano servire oggi al neoliberismo europeista germanocentrico i metodi di colui che aveva cercato di riscattare il suo paese nei due dopoguerra tentando di renderlo un gigante economico, sognando «uno spazio economico unificato nel Grossraum germanico».
I freddi numeri dei bilanci aziendali in una tabella excel, la «banalità del male» con cui è nato il vincolo del 3% del deficit, la paura di non placare le ire degli spread, gli algoritmi che gestiscono i nostri bisogni indotti sono forse delle scelte razionali cui condizionare le nostre vite oppure sintomi di un irrazionale e immorale «trionfo della volontà» di immolare l’essere umano sull’altare del capitalismo?
da Jacobin Italia
di Tobia Savoca, palermitano, è laureato in Giurisprudenza in Italia dove si è abilitato alla pratica forense, e laureato in Storia in Francia, dove attualmente insegna. Scrive di storia, politica, società ed educazione.
Fonte
Dopo la lettura di Modernità e Olocausto del sociologo Zygmunt Bauman e Liberi di Obbedire: Management e Nazismo, dello storico Johann Chapoutot, è più difficile guardarsi allo specchio.
Lo studio del Nazismo e dell’Olocausto ha permesso di cogliere dei messaggi sulla natura umana e sul mondo di oggi che restano ancora inascoltati. Questi autori si sono spinti oltre la considerazione che si sia trattato di un incidente di percorso, di una barbara ma temporanea deviazione dal cammino della civilizzazione, concludendo invece che si tratti di fenomeni insiti e possibili nella società moderna.
Occorre considerarlo, dice Bauman, come un «laboratorio sociologico», «un test delle possibilità occulte insite nella società moderna […] della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze».
Attribuire al Nazismo scelleratezza e irrazionalità serve a negare un’opposta spaventosa evidenza: l’essere umano moderno è capace di qualsiasi atrocità proprio perché è razionale. Troppo razionale.
La modernità, intesa come emancipazione della ragione dall’emozione e dell’efficienza dall’etica, ha evocato dei mostri dagli inferi che «l’uomo-mago», diceva Marx, non riesce più a controllare. Per Bauman la civiltà si dimostrò incapace di garantire un uso morale del terrificante potere da essa creato.
Solitamente i nazisti vengono riesumati dall’angolo buio della nostra memoria collettiva, o strumentalizzati come jolly per disarcionare avversari politici in una dialettica che prende il nome di Legge di Godwin. Bauman invece mostra che il loro prodotto più brutale, la Shoah, svela «la fragilità della natura umana di fronte all’efficienza fattuale dei più celebrati prodotti della civiltà: la sua tecnologia, i suoi criteri razionali di scelta, la sua tendenza a subordinare pensiero e azione alla pragmatica economica ed efficientista».
Lo scientismo, ovvero l’atteggiamento di chi ritiene unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, è diventato un dogma perché si è riconosciuto alla scienza e alla tecnica il potere di autolegittimarsi grazie alle vittorie produttiviste della rivoluzione industriale.
Il darwinismo sociale ed economico, inteso come applicazione delle leggi della selezione naturale ai campi della società e dell’economia, è stata alla base dell’azione nazista e, pur senza facile riduzionismo, è possibile rintracciarne degli elementi sopravvissuti nell’ideologia neoliberista odierna.
Chiaramente lo sterminio degli ebrei è stato alimentato da un’ideologia razzista che non è nei programmi dei governi occidentali di oggi. Ma quello che Bauman dimostra è che la Shoah rappresentava il culmine della scienza moderna e dei progetti di ingegneria sociale che, per il direttore del Dipartimento di igiene del Ministero dell’interno, consisteva nella «propagazione della stirpe sana», non avendo dubbi che fossero conformi con le ricerche di Koch, Lister, Pasteur e altri famosi scienziati.
Si trattava quindi di un compito scientificamente fondato mirante all’istituzione di un nuovo e migliore ordine poiché la cultura moderna ricca di metafore vitalistiche e biologiche proponeva come obiettivi le nozioni di «normalità», «salute», «igiene», «autodepurazione», di uomo-giardiniere in vista del giardino perfetto.
Già nel 1919 Hitler puntava sull’«antisemitismo della ragione», l’unico in grado di garantire l’eliminazione degli ebrei, rispetto a un «antisemitismo emozionale» utile solo alla riuscita di qualche pogrom. Joseph Goebbels nel 1941 salutava l’adozione della stella ebraica come «misura di profilassi igienica».
Questi moderni concetti scientifici venivano coadiuvati da un metodo burocratico e manageriale di gestione delle masse umane che rendevano fondamentale l’efficienza e la riduzione dei costi. Non è un caso che a occuparsi del genocidio fu l’Ufficio economico-amministrativo del più grande Ufficio centrale per la sicurezza del Reich.
Illuminante è a tal proposito Johann Chapoutot che studia l’emblematica figura e le teorie di Reinhard Höhn, membro delle SS, giurista e accademico, che propose dal 1941 al 1943 una riflessione sul trattamento del management amministrativo. Durante lo sforzo bellico ed espansionistico, il Terzo Reich si trovava a dover far fronte a un aumento spaventoso del lavoro, e una diminuzione di funzionari tedeschi chiamati alle armi.
Come fare di più con meno uomini? Occorreva fare meglio! Anzitutto occorreva applicare le teorie aziendali all’amministrazione pubblica. Metodo che avrà ampio successo a partire dagli anni Ottanta in tutta Europa con il New Public Management. Si diffusero così innovative teorie di Menschenführung (Management), le nozioni di Leistungsfähig (performante, produttivo), flessibilità, elasticità, e la strategia di lavorare per missione e per obiettivi.
Höhn è convinto che il capo dell’azienda o dell’amministrazione deve assegnare gli obiettivi e lasciare liberi i «collaboratori» di scegliere i mezzi attraverso cui raggiungerli. Questa tecnica manageriale era il modo di lavorare di tutto il sistema nazista. Ian Kershaw, massimo specialista di Hitler, parla infatti di «lavorare nel senso della volontà del Führer».
Secondo la storiografia «funzionalista» Hitler fissò l’obiettivo della «questione ebraica» senza specificare come dovesse essere raggiunto. Gli esperti analizzavano i costi delle scelte alternative, secondo logiche di problem-solving.
La storiografia recente cerca di dirci che l’antisemitismo e il potere gerarchico non sono stati condizioni sufficienti, per quanto necessarie, alla fredda realizzazione di queste atrocità. Per lo psicologo Herbert C. Kelman, le inibizioni morali che impediscono di commettere atrocità violente tendono a essere erose in presenza di tre condizioni: quando la violenza è «autorizzata» (da ordini ufficiali di un’autorità legale), quando le azioni violente sono «routinizzate» (da pratiche rispondenti a norme e ruoli) e quando le vittime vengono «disumanizzate».
Queste tre condizioni, sono molto più presenti nella realtà moderna di quello che pensiamo perché la modernità corre attraverso gli assi della tecnica e della burocrazia.
La sostituzione della responsabilità morale con quella tecnica
L’idea che la divisione funzionale del lavoro permetta una maggiore produttività era parallelamente sviluppata dall’americano Henry Ford che, oltre che grande ammiratore del Reich, era un fervente taylorista. Non sono però stati abbastanza studiati gli effetti della segmentazione del lavoro rispetto al tema delle responsabilità.
Da un lato l’operaio perde il peso della responsabilità morale degli effetti delle proprie azioni mentre, dall’altro, si carica di quella del raggiungimento degli obiettivi. Il funzionario o l’operaio, che ha a che fare con il segmento di lavoro affidatogli, non ha rapporto diretto con l’effetto delle proprie azioni. L’operaio che deve montare una parte di una mitragliatrice è lontano dal sangue che essa provocherà. Non è affar suo, e può continuare tranquillo.
Il carattere morale dell’azione risulta così invisibile o occultato dalla concatenazione tra le proprie azioni da scrivania o da fabbrica e gli effetti concreti. La «mediazione dell’azione» secondo il sociologo John Lachs è un aspetto tipico della società moderna e crea un «vuoto morale» che permette all’essere umano di compiere cose inimmaginabili.
La soluzione delle camere a gas, oltre a rappresentare in un’ottica efficientista la migliore soluzione costi-benefici, permetteva di rendere distante e invisibile la vittima. Inoltre, agli esecutori (nazisti o contemporanei) non si chiede di valutare il significato delle loro azioni, che è determinato invece da altri che quantificano il successo attraverso numeri o grafici.
Ogni membro dell’ingranaggio si concentra sull’esecuzione del compito e sul successo tecnico dell’operazione, non sulla norma morale.
La delega di responsabilità
Le concezioni di comando e management sviluppati da Höhn si rivelarono straordinariamente congruenti con lo spirito dei tempi nuovi. In una Repubblica Federale Tedesca vetrina del blocco atlantico e del libero mercato, dopo la legge di amnistia e qualche anno di falsa identità, Höhn diffuse con successo presso l’«Accademia per dirigenti di impresa» a Bad Harzburg dal 1956 al 1969 le teorie produttiviste che contribuirono al nuovo miracolo tedesco.
Il management «per delega di responsabilità» prevede che l’esecutore debba riuscire, perché è libero di usare i mezzi a disposizione. Così facendo la direzione si libera della responsabilità del fallimento. L’impiegato più che la libertà trova l’alienazione generatrice di fenomeni di burn out.
2.440 aziende come Opel, Ford, Colgate, Hewlett-Packard, Thyssen, Esso, inviarono circa 200.000 quadri in quei 13 anni di ripresa tedesca «a scuola dai nazisti» per imparare come si dirige un’impresa. Nel 1971 una serie di inchieste chiarirono il passato di Reinhard Höhn e dagli anni Ottanta la sua scuola dovette cedere il passo ai metodi americani di Peter Ducker.
La disumanizzazione
Se la burocratizzazione permetteva di vincere le sfide di una gestione delle risorse umane e di una società di massa, essa contribuiva a eliminare la «pietà istintiva animale» che, secondo Hannah Arendt, ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza degli altri. Questo è stato possibile sicuramente attraverso l’ideologia. Ma secondo la storiografia recente un contributo importante è stato dato dall’isolamento sociale, dall’emarginazione, dall’industria, dalla scienza e dalla tecnologia.
Per Milgram «quanto più razionale è l’organizzazione dell’azione, tanto più facile è causare la sofferenza». Prima tramite le leggi si è operata la definizione e l’espropriazione di una società su base razziale, poi il concentramento ha completato quel processo di distanziamento che ha facilitato l’indifferenza morale e le inibizioni morali.
Milgram e Zimbardo negli anni Sessanta e Settanta realizzarono due esperimenti che rilevarono come la disumanità sia una funzione della distanza sociale. È molto facile essere crudeli verso qualcuno che non vediamo né udiamo. L’organizzazione burocratica nel suo complesso diventa uno strumento per l’apparente cancellazione della responsabilità.
Tutti questi studi non affermano nemmeno lontanamente l’innocenza dei nazisti obbedienti a ordini superiori bensì affermano che l’apporto scientifico permise a vaghe volontà antisemite di diventare lucida realizzazione di un genocidio.
La bugia che viene permanentemente raccontata nel valutare quei fenomeni così lontani, ma anche altri più vicini a noi, è che la tecnica sia neutra e adattabile a scopi crudeli come filantropici. La macchina burocratica in realtà, scrive Bauman, ha «vita propria», sia «perché cerca l’optimum tra efficienza e riduzione dei costi», sia per la tendenza patologica di sostituire i fini con i mezzi.
L’opinione pubblica infatti ritiene che la scienza, più di ogni altra autorità, possa adottare il principio, altrimenti odioso, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ad approfondire il senso di non responsabilità è il ruolo dell’autorità scientifica, che interviene non per coloro che sono interposti nella scala gerarchica, ma per chi deve concretamente «premere il grilletto».
Nel celebre esperimento Milgram i soggetti più refrattari all’invio della scossa elettrica mettevano da parte i loro dilemmi morali quando l’autorità scientifica giustificava l’atto coi fini della ricerca scientifica. Distanza dalla vittima e ruolo della scienza sono capaci di facilitare la creazione di quel vuoto morale che determina comportamenti immorali.
Il linguaggio manageriale
L’idea nazista dell’essere umano considerato come «risorsa umana», strumento della produzione, non può non richiamare il linguaggio dell’odierno settore aziendale che si occupa di gestire il «capitale umano».
Il linguaggio ha un ruolo centrale. Poiché il management intende dirigere le persone, qualsiasi conflitto, lotta di classe, deve essere prevenuta sul nascere. Nell’idea augustea della società nazista, ma anche in quella della Germania federale, l’obiettivo era l’integrazione delle masse tramite la partecipazione e la cogestione, per evitare la lotta di classe e lo scivolamento verso il bolscevismo.
Per favorire tale processo alcune parole chiave di questo newspeak orwelliano permettono di pacificare semanticamente ruoli e conflitti.
L’antropologo e psicologo del lavoro Michel Feynie ha redatto un inventario di dispositivi di comunicazione che va dalle semplici sostituzioni, come collaboratrice per segretaria, salariato per operaio, governance anziché direzione, allo straripante uso di anglicismi e acronimi come debriefing, packaging, feedback, consulting; passando per il frequente ricorso alla metafora empatica sportiva, militare o scolastica per sottolineare la necessità di competizione contro altre aziende; l’uso costante di parole chiave come efficienza, competenza, eccellenza, performance.
Nemici dello Stato e della società
Rovesciando una massima del sociologo Émile Durkheim secondo cui «l’uomo è un essere morale solo perché vive nella società», cosa succede se si realizza l’idea thatcheriana di una «società che non esiste» ed «esistono solo individui»? L’attuale società neoliberale tende a creare distanza sociale e la dissoluzione delle costruzioni sociali che possono ostacolare le libertà economiche e la competizione.
Contrariamente a un cliché scolastico, i nazisti non volevano uno stato forte, bensì uno stato strumento della razza e del partito. Lo stato era considerato un’invenzione del diritto romano tardo, l’amministrazione come una garanzia del potere assolutistico del XVII secolo e la legge un’invenzione ebraica (popolo della Legge per eccellenza). Rivendicavano al loro posto l’idea di «comunità di popolo», di tribù e di diritto germanico delle origini considerato come istinto, pulsione vitale, libertà germanica.
Il Terzo Reich è stato definito una policrazia, un regime in preda a una concorrenza amministrativa spietata e spontanea, in cui ministeri, dipartimenti, agenzie, lottavano per raggiungere gli obiettivi designati dal Führer in un costante accavallamento di competenze.
La visione nazista dello stato riprendeva il darwinismo sociale del filosofo liberale Herbert Spencer affermando che con la redistribuzione della ricchezza e la sicurezza sociale lo Stato assicurasse innaturalmente la sopravvivenza di chi non è valido e sostenibile. Disoccupati, handicappati e «fannulloni» erano stati fino a quel momento protetti mentre le «famiglie sane del popolo» vivevano nella miseria. Lo stato doveva avere un valore pro-selettivo, e facilitare il compito della natura.
Höhn sia prima del 1945 che dopo (tolta allora la componente razziale), ha avuto successo riutilizzando le stesse idee manageriali, combattuto lo stesso nemico (il bolscevismo), partecipato alla stessa visione della società. La libertà germanica è diventata la libertà economica o la libertà tout-court, l’antisemitismo è stato messo da parte, ma non la visione della vita come guerra e competizione in un’insaziabile corsa alla produzione e al dominio.
L’idea di una società solidale propugnata dalle Costituzioni del secondo dopoguerra è stata progressivamente smantellata dal potere finanziario che considera quelle stesse Costituzioni degli ostacoli burocratico-amministrativi al dispiegarsi delle energie creatrici del mercato.
Denis Kessler, amministratore delegato del gruppo Scor ed ex vicepresidente del Medef (la Confindustria Francese) nel 2007 ha dichiarato che occorre distruggere quanto fatto dal Cnr, ovvero il Consiglio Nazionale della Resistenza, che nel suo programma aveva gettato le basi dello stato sociale francese dopo l’esperienza collaborazionista di Vichy.
JPMorgan il 28 Maggio 2013 denunciò la presenza nelle Costituzioni dell’Europa meridionale «adottate in seguito alla caduta del fascismo, […] di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea»: «esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».
Si tratta degli stessi obiettivi dei nostri scienziati economici, e dei tecnici, cui con grande serenità ci affidiamo negli ultimi anni.
L’idolatria del «tecnico» si manifesta oggi come un rituale purificante che permette di affidare alla divina ratio le scelte politiche che le nostre società sono incapaci di compiere. Lo vediamo con la scelta di affidarci alla «naturale» predisposizione del libero mercato ad allocare le risorse e con quella di affidare in piena crisi sanitaria i governi a task force composte da manager aziendali o a banchieri quando c’è da distruggere lo stato sociale iscritto nel dettato costituzionale.
I nazisti ci appaiono quindi come l’immagine deformata e rivelatrice di una modernità folle che creò o perfezionò certe idee che oggi continuano ad avere successo. Parafrasando Chapoutot, pur essendo apparentemente lontani da quel modello di società le pratiche del management selvaggio, del capitalismo predatorio e dell’alienazione dell’essere umano ridotto a «risorsa umana», si sono ambientate nella nostra società sotto pretesto della necessità di essere competitivi nella «lotta vitale» della mondializzazione.
Höhn non poteva prevedere quanto questa necessità potesse rimanere attuale ottant’anni dopo. Eppure sconvolge quanto possano servire oggi al neoliberismo europeista germanocentrico i metodi di colui che aveva cercato di riscattare il suo paese nei due dopoguerra tentando di renderlo un gigante economico, sognando «uno spazio economico unificato nel Grossraum germanico».
I freddi numeri dei bilanci aziendali in una tabella excel, la «banalità del male» con cui è nato il vincolo del 3% del deficit, la paura di non placare le ire degli spread, gli algoritmi che gestiscono i nostri bisogni indotti sono forse delle scelte razionali cui condizionare le nostre vite oppure sintomi di un irrazionale e immorale «trionfo della volontà» di immolare l’essere umano sull’altare del capitalismo?
da Jacobin Italia
di Tobia Savoca, palermitano, è laureato in Giurisprudenza in Italia dove si è abilitato alla pratica forense, e laureato in Storia in Francia, dove attualmente insegna. Scrive di storia, politica, società ed educazione.
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Gli scenari aperti dalla nuova crisi di Suez
Attraverso il commercio marittimo vengono scambiati circa il 90% dei prodotti a livello mondiale.
Un decimo circa passa attraverso il Canale di Suez, con una media di cinquanta di transiti giornalieri, comunque in diminuzione rispetto al picco precedente la crisi economica del 2008.
Lloyds List stima che quasi 10 miliardi di beni passino ogni giorno attraverso il canale egiziano.
Lo attraversano navi con una capacità di carico sempre più grande; dalle 500mila tonnellate al giorno dell’inizio della seconda metà degli anni Settanta siamo passati a ben più di 3 milioni degli ultimi anni.
È l’aspetto più evidente del gigantismo navale, un processo che ha visto una manciata di attori internazionali spartirsi il business del commercio marittimo in una competizione economica sempre più simile al “furto tra ladri”, nella gara ad ordinare navi sempre più grandi, che da semplici vettori di trasporto si sono trasformate anche in strumenti di investimento finanziario, come ha documentato negli anni Sergio Bologna.
In senso stretto, sono gente della stessa pasta di quelli che hanno bellamente detto ai portuali di Genova, che oggi il lavoro è un privilegio, ma decisamente più grandi, potenti e feroci.
Per capire meglio il fenomeno basti sapere che attorno al 1980 transitavano per Suez più navi al giorno di quelle attuali – una sessantina – ma il tonnellaggio complessivo in transito era circa un terzo di quello attuale.
Stando ai dati dil febbraio 2020, le portacontainer – cioè le navi che trasportano quella scatola di ferro che ha rivoluzionato il trasporto marittimo – la fanno da padrone a Suez, circa il 50% del totale. Poco più di un quarto è rappresentato dalle navi cisterna che trasportano greggio, i carichi secchi delle portarinfuse sono poco più del 15%, e le navi che trasportano il gas liquefatto (LNG) costituiscono meno del 10% del tonnellaggio.
L’incidente, causato da una raffica di vento che ha deviato la rotta della nave della Evergreen – in grado di trasportare 20 mila Teu (unità equivalente a venti piedi, è la misura standard di volume nel trasporto dei container ISO, e corrisponde a circa 38 metri cubi) – è avvenuto in uno dei “punti di strozzamento” del commercio mondiale, e ha causato una congestione del commercio marittimo, con circa 400 navi in attesa del passaggio.
Come abbiamo scritto su questo giornale l’ingorgo ha rilevato le vulnerabilità dell’intero sistema.
È chiaro che lo “sbilanciamento” nella disponibilità di container, già osservato in precedenza dopo la strozzatura di Suez, contribuirà a minare il difficile equilibrio tra le necessità di trasportare beni e la reale possibilità di farlo.
Come hanno scritto gli autori di una inchiesta pubblicata sul New York Times, ad inizio mese, sulle disfunzioni del trasporto marittimo evidenziatesi con la pandemia: “ogni container che non può essere sbarcato in un posto è un container che non può essere caricato in un altro”.
Da una parte vi è una carenza di “scatole di ferro” lungo le tratte più profittevoli, dall’altra rimangono impilate vuote dove i traffici rendono di meno.
Insomma, i problemi che si manifestano in una o più punti della catena logistica, dovuti allo sbilanciamento del commercio mondiale emerso durante quest’anno, si ripercuotono su tutta la filiera mondiale.
Per ora ne hanno approfittato i big del commercio marittimo, che hanno cavalcato l’aumento delle tariffe per la spedizione e si sono concentrati sulle rotte con la domanda maggiore – specialmente dalla Cina agli USA, trascurando le altre – imbarcando tra l’altro container vuoti dopo averli scaricati da altre navi per farli tornare in Asia...
Le multinazionali del mare seguono una regola semplice, ma che complica i delicati equilibri economici: follow the money e a bagno tutto il resto.
Un mix di capacità operativa dei rimorchiatori e di fortuna ha permesso di risolvere il problema della Ever Given, ma la situazione appare lontana dal ritorno alla normalità.
Soren Skou, amministratore delegato di Ap-Moller-Maersk – la più grande compagnia di trasporto marittima di container, che gestisce un quinto del commercio marittimo mondiale – ha affermato che il blocco verificatosi a Suez causerà il cambio delle attuali catene just-in-time passando al just-in-case, un processo di ristrutturazione in corso durante la pandemia.
Si tratta della riconfigurazione complessiva della catena logistica, la cui tensione e fragilità sta affiorando in maniera sempre più palese e di cui l’intoppo a Suez è solo l’ultimo esempio.
Questo vuol dire aumentare il “polmone” logistico ed i tempi di giacenza in magazzino, e quindi i volumi che saranno dedicati allo stoccaggio.
Perché, come afferma Skou al Financial Times: “non c’è risparmio di costi dovuto al just in time che può superare l’effetto negativo della perdita delle vendite”. Il margine di profitto si sta dimostrando troppo esile rispetto alle fragilità – fonte di perdite – che si stanno riscontrando nel settore.
Un altro fenomeno è la differenziazione dei fornitori da parte delle aziende, cosa che aumenta la concorrenza, con le ricadute immaginabili in termini di aumento della produttività e livellamento verso il basso dei salari.
È certo che entra in gioco anche l’ipotesi della Rotta Artica che avvantaggerebbe non di poco la Russia, maggiormente attrezzata per questo.
Ma il segmento della catena logistica che sta più soffrendo, e che è rimasto anche in questo caso fuori dal cono di luce dei media, è quello dei marittimi, che sono diventati veri e propri forzati del mare.
Un esercito di un milione e mezzo di marinai permette al commercio mondiale di funzionare.
400 mila, a novembre dello scorso anno, erano “bloccati” sulle navi in cui lavoravano, a causa delle conseguenze del Coronavirus. Oggi sono circa la metà.
Molti di questi marinai sono di origine filippina o indiana, ed avrebbero lavorato mediamente dai quattro ai sei mesi a bordo prima di tornare a casa. Ma nell’autunno dell’anno scorso sono stati letteralmente intrappolati su una nave per circa un anno, mentre altri in attesa di essere imbarcati sono stati lasciati a terra senza stipendio.
D’altro canto, vista la situazione, si è assistito ad una difficoltà a reclutare gli equipaggi ed il costo di ingaggio è aumentato del 10% circa l’anno scorso. Perché imbarcarsi se si rischia di rimanere sulla nave senza sapere poi quando potere sbarcare e ricevere appropriata assistenza medica?
La pressione sugli equipaggi era quindi già preoccupante, e aveva sollevato il rischio di incidenti seri.
Come scriveva in una inchiesta del 1 novembre scorso il Financial Times: “le conseguenze ambientali di un incidente che coinvolga una di queste navi, che imbarcano più di 250.000 tonnellate di carico, potrebbero essere devastanti”.
E qui ci siamo andati vicino.
L’incidente, causato da una raffica di vento che ha deviato la rotta della nave, facendola incagliare, è uno dei tanti tasselli che mostrano la debolezza, per certi versi la vera e propria follia, dell’attuale modo di produzione e delle sue catene logistiche.
Il capitalismo stavolta non è morto di trombosi, ma è chiaro che sta andando alla deriva e l’ammutinamento torna ad essere l’unica opzione storica praticabile per non affondare con lui.
Buona lettura.
Un decimo circa passa attraverso il Canale di Suez, con una media di cinquanta di transiti giornalieri, comunque in diminuzione rispetto al picco precedente la crisi economica del 2008.
Lloyds List stima che quasi 10 miliardi di beni passino ogni giorno attraverso il canale egiziano.
Lo attraversano navi con una capacità di carico sempre più grande; dalle 500mila tonnellate al giorno dell’inizio della seconda metà degli anni Settanta siamo passati a ben più di 3 milioni degli ultimi anni.
È l’aspetto più evidente del gigantismo navale, un processo che ha visto una manciata di attori internazionali spartirsi il business del commercio marittimo in una competizione economica sempre più simile al “furto tra ladri”, nella gara ad ordinare navi sempre più grandi, che da semplici vettori di trasporto si sono trasformate anche in strumenti di investimento finanziario, come ha documentato negli anni Sergio Bologna.
In senso stretto, sono gente della stessa pasta di quelli che hanno bellamente detto ai portuali di Genova, che oggi il lavoro è un privilegio, ma decisamente più grandi, potenti e feroci.
Per capire meglio il fenomeno basti sapere che attorno al 1980 transitavano per Suez più navi al giorno di quelle attuali – una sessantina – ma il tonnellaggio complessivo in transito era circa un terzo di quello attuale.
Stando ai dati dil febbraio 2020, le portacontainer – cioè le navi che trasportano quella scatola di ferro che ha rivoluzionato il trasporto marittimo – la fanno da padrone a Suez, circa il 50% del totale. Poco più di un quarto è rappresentato dalle navi cisterna che trasportano greggio, i carichi secchi delle portarinfuse sono poco più del 15%, e le navi che trasportano il gas liquefatto (LNG) costituiscono meno del 10% del tonnellaggio.
L’incidente, causato da una raffica di vento che ha deviato la rotta della nave della Evergreen – in grado di trasportare 20 mila Teu (unità equivalente a venti piedi, è la misura standard di volume nel trasporto dei container ISO, e corrisponde a circa 38 metri cubi) – è avvenuto in uno dei “punti di strozzamento” del commercio mondiale, e ha causato una congestione del commercio marittimo, con circa 400 navi in attesa del passaggio.
Come abbiamo scritto su questo giornale l’ingorgo ha rilevato le vulnerabilità dell’intero sistema.
È chiaro che lo “sbilanciamento” nella disponibilità di container, già osservato in precedenza dopo la strozzatura di Suez, contribuirà a minare il difficile equilibrio tra le necessità di trasportare beni e la reale possibilità di farlo.
Come hanno scritto gli autori di una inchiesta pubblicata sul New York Times, ad inizio mese, sulle disfunzioni del trasporto marittimo evidenziatesi con la pandemia: “ogni container che non può essere sbarcato in un posto è un container che non può essere caricato in un altro”.
Da una parte vi è una carenza di “scatole di ferro” lungo le tratte più profittevoli, dall’altra rimangono impilate vuote dove i traffici rendono di meno.
Insomma, i problemi che si manifestano in una o più punti della catena logistica, dovuti allo sbilanciamento del commercio mondiale emerso durante quest’anno, si ripercuotono su tutta la filiera mondiale.
Per ora ne hanno approfittato i big del commercio marittimo, che hanno cavalcato l’aumento delle tariffe per la spedizione e si sono concentrati sulle rotte con la domanda maggiore – specialmente dalla Cina agli USA, trascurando le altre – imbarcando tra l’altro container vuoti dopo averli scaricati da altre navi per farli tornare in Asia...
Le multinazionali del mare seguono una regola semplice, ma che complica i delicati equilibri economici: follow the money e a bagno tutto il resto.
Un mix di capacità operativa dei rimorchiatori e di fortuna ha permesso di risolvere il problema della Ever Given, ma la situazione appare lontana dal ritorno alla normalità.
Soren Skou, amministratore delegato di Ap-Moller-Maersk – la più grande compagnia di trasporto marittima di container, che gestisce un quinto del commercio marittimo mondiale – ha affermato che il blocco verificatosi a Suez causerà il cambio delle attuali catene just-in-time passando al just-in-case, un processo di ristrutturazione in corso durante la pandemia.
Si tratta della riconfigurazione complessiva della catena logistica, la cui tensione e fragilità sta affiorando in maniera sempre più palese e di cui l’intoppo a Suez è solo l’ultimo esempio.
Questo vuol dire aumentare il “polmone” logistico ed i tempi di giacenza in magazzino, e quindi i volumi che saranno dedicati allo stoccaggio.
Perché, come afferma Skou al Financial Times: “non c’è risparmio di costi dovuto al just in time che può superare l’effetto negativo della perdita delle vendite”. Il margine di profitto si sta dimostrando troppo esile rispetto alle fragilità – fonte di perdite – che si stanno riscontrando nel settore.
Un altro fenomeno è la differenziazione dei fornitori da parte delle aziende, cosa che aumenta la concorrenza, con le ricadute immaginabili in termini di aumento della produttività e livellamento verso il basso dei salari.
È certo che entra in gioco anche l’ipotesi della Rotta Artica che avvantaggerebbe non di poco la Russia, maggiormente attrezzata per questo.
Ma il segmento della catena logistica che sta più soffrendo, e che è rimasto anche in questo caso fuori dal cono di luce dei media, è quello dei marittimi, che sono diventati veri e propri forzati del mare.
Un esercito di un milione e mezzo di marinai permette al commercio mondiale di funzionare.
400 mila, a novembre dello scorso anno, erano “bloccati” sulle navi in cui lavoravano, a causa delle conseguenze del Coronavirus. Oggi sono circa la metà.
Molti di questi marinai sono di origine filippina o indiana, ed avrebbero lavorato mediamente dai quattro ai sei mesi a bordo prima di tornare a casa. Ma nell’autunno dell’anno scorso sono stati letteralmente intrappolati su una nave per circa un anno, mentre altri in attesa di essere imbarcati sono stati lasciati a terra senza stipendio.
D’altro canto, vista la situazione, si è assistito ad una difficoltà a reclutare gli equipaggi ed il costo di ingaggio è aumentato del 10% circa l’anno scorso. Perché imbarcarsi se si rischia di rimanere sulla nave senza sapere poi quando potere sbarcare e ricevere appropriata assistenza medica?
La pressione sugli equipaggi era quindi già preoccupante, e aveva sollevato il rischio di incidenti seri.
Come scriveva in una inchiesta del 1 novembre scorso il Financial Times: “le conseguenze ambientali di un incidente che coinvolga una di queste navi, che imbarcano più di 250.000 tonnellate di carico, potrebbero essere devastanti”.
E qui ci siamo andati vicino.
L’incidente, causato da una raffica di vento che ha deviato la rotta della nave, facendola incagliare, è uno dei tanti tasselli che mostrano la debolezza, per certi versi la vera e propria follia, dell’attuale modo di produzione e delle sue catene logistiche.
Il capitalismo stavolta non è morto di trombosi, ma è chiaro che sta andando alla deriva e l’ammutinamento torna ad essere l’unica opzione storica praticabile per non affondare con lui.
Buona lettura.
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Gamal Abdel Nasser starà sicuramente spassandosela in questo momento. 65 anni dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del presidente egiziano, che provocò l’invasione del paese da parte di Regno Unito, Francia e Israele, il Canale mantiene tuttora una fortissima influenza sul commercio globale.
Questa settimana, una nave, che comunque è lunga quanto l’Empire State Building, ha causato un effetto domino a livello globale quando ha bloccato l’entrata a sud del canale dopo essersi incagliata.
I prezzi del petrolio grezzo sono schizzati, petroliere e navi da container sono bloccate nel traffico e fornitori di qualsiasi cosa, dal petrolio alle televisioni, stanno seriamente pensando di trasportare le proprie merci circumnavigando il Capo di Buona Speranza, aggiungendo una settimana ai tempi di consegna dei prodotti, nonché costi aggiuntivi.
Venerdì, i soccorritori stavano ancora cercando di rimettere in carreggiata la nave da 220mila tonnellate, la Ever Given, ma hanno avvertito che ci avrebbero messo più tempo perché ciò accadesse. Un secolo e mezzo dopo che il Canale è stato completato nel 1869, più del 10% del commercio marittimo globale e del petrolio grezzo passa attraverso la sottile linea d’acqua di 120 miglia, che collega un’Asia in ascesa con un’Europa benestante.
L’incidente di Suez, che limita la possibilità di scambi per 9,6 miliardi di dollari al giorno, ha evidenziato la fragilità delle sempre più compresse filiere produttive globali, già sconvolte dalla pandemia e in un’era in cui i riferimenti filosofici del commercio globale stanno cambiando.
Gli strascichi del Covid-19, con la sua iniziale scarsità di materiale protettivo personale e il suo continuare a raschiare il barile alla ricerca di forniture limitate di vaccino, hanno esposto i problemi nel sistema del commercio mondiale. Quelle difficoltà potrebbero plausibilmente spingere governi e imprese a ripensare un modello di filiere produttive just-in-time che ha evidentemente spremuto tutto per l’efficienza a costo di eliminare la resilienza.
“La filiera di consumo dell’industria è lunga diversi chilometri, ma è profonda a malapena 3 centimetri”, afferma Ted Mabley, consulente di PolarixPartner a Detroit.
Nonostante le incredibili paure l’anno scorso riguardo possibili scarsità, il sistema di commercio globale è riuscito a rimanere in piedi incredibilmente bene durante la pandemia. “Se si osserva cosa sta succedendo obiettivamente, si nota che le catene di consumo sono state abbastanza resilienti” dice Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Come spiega Adam Tooze, professore di storia alla Columbia University, questo avviene parzialmente grazie a un esercito di un milione e mezzo di marinai, molti dei quali “sono rimasti incastrati sul mare per mesi senza prospettive”, e anche grazie a modelli di spedizione quali quelli di Amazon e Alibaba e da una complessa rete di imprese di trasporto e logistica.
Durante la pandemia, i consumatori in paesi benestanti hanno trovato i loro supermercati pieni, i benzinai riforniti e hanno sempre sentito il proprio campanello suonare per le consegne online. Ma ci sono strascichi ovunque.
Il blocco del Canale di Suez segue una serie di eventi che hanno messo a rischio il tranquillo corso del commercio globale. Appena cinque giorni prima che la Ever Given si incagliasse, un incendio alla Renesas Electronics, nel nord del Giappone, ha quasi messo in crisi un’industria, come quella dei semiconduttori, già di per sé colpita da scarsità.
La chiusura, che dovrebbe durare un mese, la colpisce dopo che i rivali NXP e la tedesca Infineon sono stati costretti a chiudere le proprie fabbriche, dove costruivano chip, ad Austin, in Texas, dopo essere state colpite dalla perturbazione artica, che ha causato un gigantesco blackout nello stato americano. Solo di recente sono riuscite a riaprire.
Lo stesso freddo ha fatto sospendere quattro quinti della produzione petrolchimica texana, congelando forniture di polietilene, polipropilene e polivinilcloruro, tre dei più importanti polimeri. Il che, a sua volta, ha colpito i costruttori di macchine, creando caos nelle forniture di airbag e altri componenti.
“Sfortunatamente, l’incendio è divampato in un momento in cui non c’è più capacità residua nell’intera industria”, rivela Hidetoshi Shibata, capo esecutivo della Renesas, parlando di un incidente che ha fatto rivivere le sensazioni di Fukushima nel 2011. Allora, la perdita della produzione in una oscura centrale fece fermare l’industria automobilistica fino agli USA.
Questa volta, Shibata parla di un altro potenziale “impatto violento” sulla filiera globale di microchip. La pandemia stessa stava già esponendo faglie nelle filiere produttive globali.
I tassi di trasporto su mare con container sono più che triplicati da quando le compagnie che controllano le linee di navigazione hanno tagliato sulla capacità aspettandosi una diminuzione di domanda. Ora costa quasi 4000 dollari trasportare un container di 12 metri dall’Asia orientale alla Costa Ovest degli Stati Uniti, in crescita rispetto all’inizio del 2020, quando costava 1500 dollari.
“La nostra filiera produttiva è basata su scenari prevedibili”, dice Ashwani Gupta, direttore operativo della Nissan. “Quel che non abbiamo anticipato è una situazione estrema come quella della crisi senza precedenti del Covid e quel che ci sta costringendo a fare”.
Se questo non fosse abbastanza, le pressioni politiche stanno spingendo contro la globalizzazione e le lunghe e tempestose catene di consumo di cui è alla base. Ngaire Wood, professore di governance economica globale ad Oxford, dice che “le filiere produttive globali stanno producendo tre diverse pressioni che necessitano di essere studiate”.
Una è la spinta, meglio articolata dall’ex presidente americano Donald Trump, a riportare i posti di lavoro a casa. La seconda, esposta dal Covid-19, è la dipendenza strategica da altri paesi per equipaggiamento medico e più ampiamente per beni essenziali e tecnologie civili e militari di base. “Questo riguarda di più la resilienza nazionale: ‘Dobbiamo essere sicuri di poter produrre i nostri vaccini, il nostro equipaggiamento, il nostro cibo’. È un discorso di sicurezza, più che una retorica nazionalista”, afferma Woods.
La terza è la richiesta, da parte di investitori istituzionali e consumatori, alle grandi aziende di avere maggior mordente sulle filiere, imponendo costi maggiori mentre le imprese vengono persuase nel controllo delle emissioni di carbonio e delle pratiche di lavoro nelle catene più periferiche.
Nonostante queste pressioni, la verità riguardo il commercio globale è che la sua morte è stata ripetutamente esagerata. “Alcuni dicono che si sta andando dalla globalizzazione alla deglobalizzazione”, dice Okonjo-Iweala. “Ma non la penso così. Penso invece che si sta andando verso un processo di riorganizzazione della globalizzazione”.
Tra la fine degli anni '90 e l’inizio degli anni 2000, il commercio globale cresceva il doppio perché grandi economia come Cina, India ed Est Europa erano state integrate nel sistema globale. Ora che sono state più o meno assorbite, è normale che le cose stiano rallentando, ma non vuol dire che siamo arrivati al culmine, sostiene Okonjo-Iweala.
“Penso che dovremmo soffermarci sul fatto che molte regioni nel pianeta non sono mai state realmente integrate. L’Africa pesa il 2-3% del commercio globale. Quindi ci sono tante possibilità di integrare i paesi africani ed altri paesi poveri nel sistema”, sostiene.
Parag Khanna, fondatore e partner di FutureMap, una società di consulenza strategica, afferma che, lontane dall’essere definite come fragili, le filiere produttive hanno saputo ripetutamente rispondere a storture temporanee e cambiamenti strutturali. Cita l’industria energetica come evidenza che le filiere sono più, non meno, robuste.
Quando, nel 1990, Saddam Hussein invase il Kuwait, i prezzi del petrolio raddoppiarono in due mesi. Oggi questo non accadrebbe, spiega, perché “le forniture si sono espanse, le forniture sono globali. C’è una connettività tra mercati. Diversi tipi di terminali di petrolio e raffinerie e la flessibilità delle raffinerie di processare diversi tipi di petrolio”.
Internet si rivela essere il modo perfetto per aggirare le cose, permettendo a milioni di persone di connettersi digitalmente invece di dover viaggiare per acquistare merci. Quando una crisi colpisce, i produttori fanno le cose più estreme per salvare la produzione.
Quando un incendio divampò in una fabbrica che costruiva parti per i pick up della Ford nel 2018, i costruttori mandarono un team nella fabbrica che cadeva a pezzi per estrarre gli strumenti per costruire le parti. Le diciannove macchine, inclusa una che pesava 44 tonnellate, furono portate in Ohio e poi messe su un cargo jet russo che le spedì direttamente nel Regno Unito, dove la produzione poté ricominciare. L’intera operazione durò 30 ore.
È difficile per i consumatori capire la complessità delle reti che portano beni ai loro negozi o alle loro porte. “Non sono sicuro che ai consumatori interessino i dettagli eccetto quando non lavorano”, dice John Butler, presidente del World Shipping Council.
Khanna dice che questa complessità rivela quanto sia ingenua la retorica politica riguardo le operazioni di reinternalizzazione. “Persino una filiera produttiva ha una sua filiera produttiva”, dice. Una singola dose del vaccino BioNTech/Pfizer ha bisogno di 280 componenti provenienti da paesi diversi, come rivelato dalla compagnia. L’idea di spostarsi da quello che Ikonjo-Iweala chiama “da just in time a just in case” è più difficile di quel che sembra.
Comunque, Marc Levinson, uno storico che si è occupato della rivoluzione che i container hanno apportato al trasporto su mare delle merci, afferma che qualche cambiamento è sicuramente all’ordine del giorno.
“In termini di fiducia nella catena del valore, credo nella necessità della resilienza”, dice. “Penso sia come investire in un’assicurazione”. Queste domande sono lontane dalle menti del team olandese e giapponese che sta tentando di rimuovere la nave incagliata che blocca una delle arterie commerciali più importanti al mondo.
Il Capitano Karan Vir Bathia, attualmente in Egitto per aspettare il risultato del test del coronavirus per poi essere rispedito in India, capisce meglio di chiunque altro lo stress nel manovrare navi gigantesche. L’anno scorso, aveva fatto sbattere una petroliera ad una conca di navigazione nel Canale di Panama. Nonostante questo non avesse creato un incidente internazionale, Bathia dovette rimanere sveglio per 36 ore.
“È un lavoro stressante per il capitano e la sua ciurma”, dice. “Non è una macchina, è un’isola di 230 metri che si muove”. A causa delle restrizioni nei confini dovute al Covid, Bathia è stato costretto a rimanere sulla nave per 10 mesi, assieme ai 400mila marinai chiusi sul mare oltre il proprio contratto. Metà di loro rimane tuttora in mare oggi.
“A riva”, dice, riferendosi ai miliardi di consumatori totalmente privi di conoscenza su come funzioni il sistema di navigazione globale e come i loro beni preferiti arrivino a loro, “le persone sono totalmente all’oscuro di questo settore”.
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Il Recovery Fund? Con l’aumento delle tasse…
Ormai non passa giorno senza un segnale chiaro di quel che ci attende “dopo”, quando, sperabilmente, le vaccinazioni saranno state sufficienti a riportare in strada tutta la popolazione e a riaprire tutte quelle attività che non saranno nel frattempo morte. Quando, insomma, la vaccinazione anti-Covid sarà diventata un evento annuale, anziché un evento unico e catastrofico.
Il segnale di oggi, ci spiega un autorevole editoriale di TeleBorsa, viene dalle banche centrali più importanti dell’Occidente neoliberista, ossia la Federal Reserve e la Bce. Entrambe ci hanno tenuto a far sapere che non saranno loro a “stampare moneta” per finanziare i piani di rilancio sulle due sponde dell’Atlantico. Uno faraonico – quello statunitense, pari a 4.000 miliardi di dollari – e l’altro sparagnino, probabilmente insufficiente, chiamato Next Generation EU o Recovery Fund.
Le misure prese finora dalle banche centrali – iniezioni di liquidità e tassi di interesse azzerati – servivano a “rasserenare i mercati”, non a creare i presupposti di una ripresa produttiva su larga scala.
Se gli Stati vorranno fare investimenti pubblici a questo scopo – e debbono farlo – dovranno ricorrere ai due strumenti ammessi nello schema neoliberista: aumentare le tasse e indebitarsi sui mercati. In entrambi i casi, il costo è a carico dei cittadini (di quella parte che paga le tasse, naturalmente).
Sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea le manovre per istituzionalizzare questo cambio di clima (dall’”arriveranno montagne di soldi” al “pagherete tanto, pagherete tutto”) sono già iniziate, ma ovviamente in modo molto silenzioso.
Un esempio? “L‘Italia ha proceduto, in sordina, ad approvare le nuove tasse mediante l’approvazione di un emendamento inserito all’ultimo momento nella legge di conversione al decreto-legge Milleproroghe (n. 183 del 2020)”.
Il perché è chiaramente spiegato. I soldi del Recovery Fund sono divisi in “grant” (teoricamente a fondo perduto) e “bond” (normale debito da restituire con gli interessi). Per evitare che gli Stati con più alto debito venissero ulteriormente penalizzati dai “mercati” con tassi di interesse pesantissimi, l’incarico di raccogliere i fondi e garantire il nuovo debito è stato assunto dall’Unione Europea (si spera non faccia come per i vaccini, sennò è la morte).
Questo dovrebbe garantire tassi bassi, uguali per tutti i Paesi membri. Ma quei debiti andranno comunque restituiti. All’Unione Europea invece che “ai mercati”, magari su tempi più lunghi, ma restituiti destinando a questo scopo una parte delle tasse. Che intanto aumentano da subito.
L’unica “buona notizia”, perlomeno dall’altra parte dell’Atlantico, è che questa volta le cifre da trovare sono talmente alte che l’aumento delle tasse riguarderà anche i super-ricchi. Se non saranno nel frattempo scappati in qualche paradiso fiscale caraibico...
Per gli Stati, dunque, cambia davvero poco. “La pacchia” – ossia il poter/dover spendere in deficit per contrastare gli effetti economici della pandemia – “è già finita”, scrive Salerno Aletta su TeleBorsa.
Non solo, infatti, dovranno spremere cittadini mediamente molto impoveriti dalla crisi, ma dovranno investire i soldi (ricevuti in prestito) sulla base delle scelte fatte dalla Commissione Europea. Ovvero da un centro decisionale dove pesano, per ovvi motivi, soprattutto gli interessi delle multinazionali tedesche, francesi e in genere del “Grande Nord”.
Diversamente dagli Stati Uniti – che sono uno Stato, sia pur “federale” – l’Unione Europea è una formazione perennemente in progress, che va verso la configurazione statuale attraverso passaggi e forzature che dipendono da interessi diversi, niente affatto unitari o “compensativi” ma, anzi, concorrenziali al proprio interno.
Tradotto in termini sbrigativi, ma non per questo imprecisi, l’Italietta costruita nei decenni da una classe imprenditoriale vile e “speculativa”, nonché da una classe politica indecente scelta ad immagine e somiglianza di quella imprenditoriale, si troverà ben presto a fare i conti con una ristrutturazione delle filiere produttive e delle infrastrutture disegnata sulle esigenze del capitale multinazionale europeo.
Se il progetto avrà successo, saranno gli esponenti – imprenditoriali e politici – di quel capitale a guadagnarci. Se andrà male, com’è probabile, vista la competizione con Usa e Cina che si muovono su un’altra scala e con altre – e opposte – visioni, affonderemo tutti.
L’unica certezza, per ora, è che il conto sarà pagato da tutti noi.
Il segnale di oggi, ci spiega un autorevole editoriale di TeleBorsa, viene dalle banche centrali più importanti dell’Occidente neoliberista, ossia la Federal Reserve e la Bce. Entrambe ci hanno tenuto a far sapere che non saranno loro a “stampare moneta” per finanziare i piani di rilancio sulle due sponde dell’Atlantico. Uno faraonico – quello statunitense, pari a 4.000 miliardi di dollari – e l’altro sparagnino, probabilmente insufficiente, chiamato Next Generation EU o Recovery Fund.
Le misure prese finora dalle banche centrali – iniezioni di liquidità e tassi di interesse azzerati – servivano a “rasserenare i mercati”, non a creare i presupposti di una ripresa produttiva su larga scala.
Se gli Stati vorranno fare investimenti pubblici a questo scopo – e debbono farlo – dovranno ricorrere ai due strumenti ammessi nello schema neoliberista: aumentare le tasse e indebitarsi sui mercati. In entrambi i casi, il costo è a carico dei cittadini (di quella parte che paga le tasse, naturalmente).
Sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea le manovre per istituzionalizzare questo cambio di clima (dall’”arriveranno montagne di soldi” al “pagherete tanto, pagherete tutto”) sono già iniziate, ma ovviamente in modo molto silenzioso.
Un esempio? “L‘Italia ha proceduto, in sordina, ad approvare le nuove tasse mediante l’approvazione di un emendamento inserito all’ultimo momento nella legge di conversione al decreto-legge Milleproroghe (n. 183 del 2020)”.
Il perché è chiaramente spiegato. I soldi del Recovery Fund sono divisi in “grant” (teoricamente a fondo perduto) e “bond” (normale debito da restituire con gli interessi). Per evitare che gli Stati con più alto debito venissero ulteriormente penalizzati dai “mercati” con tassi di interesse pesantissimi, l’incarico di raccogliere i fondi e garantire il nuovo debito è stato assunto dall’Unione Europea (si spera non faccia come per i vaccini, sennò è la morte).
Questo dovrebbe garantire tassi bassi, uguali per tutti i Paesi membri. Ma quei debiti andranno comunque restituiti. All’Unione Europea invece che “ai mercati”, magari su tempi più lunghi, ma restituiti destinando a questo scopo una parte delle tasse. Che intanto aumentano da subito.
L’unica “buona notizia”, perlomeno dall’altra parte dell’Atlantico, è che questa volta le cifre da trovare sono talmente alte che l’aumento delle tasse riguarderà anche i super-ricchi. Se non saranno nel frattempo scappati in qualche paradiso fiscale caraibico...
Per gli Stati, dunque, cambia davvero poco. “La pacchia” – ossia il poter/dover spendere in deficit per contrastare gli effetti economici della pandemia – “è già finita”, scrive Salerno Aletta su TeleBorsa.
Non solo, infatti, dovranno spremere cittadini mediamente molto impoveriti dalla crisi, ma dovranno investire i soldi (ricevuti in prestito) sulla base delle scelte fatte dalla Commissione Europea. Ovvero da un centro decisionale dove pesano, per ovvi motivi, soprattutto gli interessi delle multinazionali tedesche, francesi e in genere del “Grande Nord”.
Diversamente dagli Stati Uniti – che sono uno Stato, sia pur “federale” – l’Unione Europea è una formazione perennemente in progress, che va verso la configurazione statuale attraverso passaggi e forzature che dipendono da interessi diversi, niente affatto unitari o “compensativi” ma, anzi, concorrenziali al proprio interno.
Tradotto in termini sbrigativi, ma non per questo imprecisi, l’Italietta costruita nei decenni da una classe imprenditoriale vile e “speculativa”, nonché da una classe politica indecente scelta ad immagine e somiglianza di quella imprenditoriale, si troverà ben presto a fare i conti con una ristrutturazione delle filiere produttive e delle infrastrutture disegnata sulle esigenze del capitale multinazionale europeo.
Se il progetto avrà successo, saranno gli esponenti – imprenditoriali e politici – di quel capitale a guadagnarci. Se andrà male, com’è probabile, vista la competizione con Usa e Cina che si muovono su un’altra scala e con altre – e opposte – visioni, affonderemo tutti.
L’unica certezza, per ora, è che il conto sarà pagato da tutti noi.
*****
Per gli Stati, la Grande Pacchia è già finita
Per gli Stati, la Grande Pacchia è già finita
Guido Salerno Aletta – TeleBorsa
Gli interventi di emergenza disposti dalla BCE e dalla FED hanno assicurato finora la stabilità dei mercati finanziari, che avrebbero potuto reagire negativamente alla flessione dell’attività economica derivata dalla crisi sanitaria scatenata dall’epidemia di Covid-19.
La liquidità ulteriore che è stata immessa, insieme ai tassi di interesse tenuti al minimo, ha evitato che il maggior fabbisogno dei bilanci pubblici intervenuti a sostegno dell’economia determinasse una situazione di tensione all’atto delle emissioni di nuovo debito e soprattutto un pericoloso aumento del loro costo.
Nessuno deve illudersi che le banche centrali finanzieranno la ripresa degli investimenti, né il Recovery Fund deciso dall'Unione Europea né il Programma “Build Back Better” che è stato predisposto nel corso della campagna per le presidenziali americane dal ticket Biden-Harris: questi piani ammontano, rispettivamente, a 750 miliardi di euro per l’Unione Europea ed a 4.000 miliardi di dollari per gli USA.
Il Recovery Fund sarà finanziato per 390 miliardi di euro con maggiori tasse, mentre il Presidente Joe Biden ha appena annunciato che per i primi 1.000 miliardi di dollari del suo Piano si procederà al “più grande aumento delle tasse americane che si è mai visto dal 1942”, ponendole a carico delle famiglie più ricche e delle imprese.
Sicuramente, si sospenderanno anche le riduzioni disposte dal suo predecessore Donald Trump.
Nel silenzio generale, è già sparita dal dibattito politico la necessità di ricorrere ai prestiti del MES-sanitario, nei limiti previsti del 2% del PIL di ciascun Paese aderente al Trattato istitutivo: niente debiti, quindi, per finanziare le spese sanitarie derivanti dalla necessità di fronteggiare l’epidemia, per investimenti o per attrezzature.
Parimenti, non si parla di accedere ai prestiti previsti nell’ambito del Recovery Fund, attraverso la raccolta di mezzi finanziari realizzata direttamente dall’Unione Europea sui mercati, cui segue il versamento di queste risorse ai diversi Stati che a loro volta si indebitano nei confronti dell’Unione. Questa doppia intermediazione consente di rendere uguale tra tutti i Paesi il costo dell’indebitamento, che altrimenti penalizzerebbe quelli che, come l’Italia, già pagano tassi più alti.
Anche in Italia, dunque, ci si sta limitando a predisporre i Programmi di intervento volti ad utilizzare intanto le somme che verranno erogate come Grant, i cosiddetti contributi a fondo perduto che per l’Italia saranno pari ad 81,4 miliardi da spendere tra il 1° febbraio 2020 ed il 31 dicembre 2023. D’altra parte, lo stesso regolamento predisposto dalla Commissione prevede esplicitamente che i Programmi nazionali riferiti agli interventi da finanziare con i Bond siano diversi ed ulteriori rispetto a quelli presentati per ottenere i Grant.
Anche le risorse necessarie per finanziare i Grant che saranno erogati ai singoli Stati nell’ambito del Recovery Fund saranno raccolte da parte dell’Unione Europea sul mercato finanziario attraverso lo strumento dell’indebitamento. E l’Unione a tal fine offrirà ai mercati la garanzia di rimborso apprestata dai singoli Stati attraverso la decisione da parte di ciascuno di loro di procedere all’aumento delle Risorse proprie dell’Unione, con le maggiori tasse che sono necessarie a finanziare anche il nuovo Quadro finanziario 2021-2026: in particolare, la Plastic Tax, la Carbon Tax, la Digital Tax, e così via.
Anche se, come sempre, non c’è una esatta corrispondenza tra i maggiori versamenti dei singoli Stati al bilancio dell’Unione in termini di Entrate proprie e le somme che ciascuno riceverà in termini di Grant, questi saranno nel complesso finanziati con maggiori tasse. Sono queste le nuove tasse che serviranno all’Unione per rimborsare il debito contratto direttamente sui mercati per finanziare i Grant e le nuove spese del Piano finanziario 2021-2023.
Mentre l’Italia ha proceduto, in sordina, ad approvare le nuove tasse mediante l’approvazione di un emendamento inserito all’ultimo momento nella legge di conversione al decreto-legge Milleproroghe (n. 183 del 2020) molti altri Paesi europei non hanno ancora provveduto, mettendo a rischio l'attivazione del Recovery Fund a maggio prossimo. Anche la sospensione da parte della Corte costituzionale tedesca della autorizzazione alla ratifica del Recovery Fund già approvata dal Bundestag, contribuisce a rallentare l’iter di approvazione che richiede l’approvazione da parte di tutti i 27 Paesi membri della UE.
Per finanziare i primi 360 miliardi di euro per i Grant del Recovery Fund europeo, ed i primi 1.000 miliardi di dollari del “Built Back Better” americano bisogna aumentare le tasse. Non saranno le banche centrali, né la BCE né la FED, a metterci la faccia e soprattutto i soldi: quelli vanno ai mercati finanziari. Hanno immesso la liquidità che serviva per evitare tensioni in relazione agli interventi di emergenza degli Stati, ma non finanzieranno nessuno dei Piani di investimento, né in Europa né negli Usa.
Se il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, già al vertice della BCE e prima Governatore della Banca d’Italia, ha rilanciato il tema degli Eurobond, un motivo ci deve pure essere: l’ombrello aperto dalle banche centrali si sta per chiudere.
Fonte
Cuba - La dignità contro il blocco Usa sfila in carovana
Mentre in Italia si consumava l’ennesimo atto di vigliaccheria e ingratitudine del “nostro” governo verso Cuba – con il voto contrario all’Onu alla sospensione delle sanzioni contro chi nel momento peggiore della pandemia di Covid-19 ci ha teso la mano e sostenuto gratuitamente con i suoi medici – a Cuba, negli Stati Uniti e in diversi paesi, nei giorni scorsi si sono svolte carovane popolari contro il blocco. Qui di seguito una corrispondenza di Cuba Resumen sulla carovana svoltasi all’Avana.
È una risposta che dà la cifra della differenza di sistema, di mentalità, di alleanze e di dignità di un paese e del suo popolo rispetto all’abiezione euroatlantica in cui siamo ingabbiati ormai da troppo tempo.
*****
L’Avana – La Carovana Mondiale contro il Blocco di Cuba ha riunito organizzazioni e personalità di più di 50 paesi dei cinque continenti.
Le mobilitazioni si sono articolate intorno alla richiesta al presidente Joe Biden dell’abrogazione delle sanzioni economiche imposte da Trump, la riapertura dell’ambasciata statunitense all’Avana chiusa con la scusa dei presunti “attacchi sonori” e il ripristino del programma di ricongiungimento familiare.
Allo stesso tempo, gli amici solidali dei cinque continenti hanno divulgato le conquiste della medicina cubana, come i cinque candidati vaccini anti-Covid-19 che il paese sta sviluppando e la ventina di farmaci di produzione nazionale che vengono utilizzati per contrastare gli effetti della malattia, un tema che viene arbitrariamente ignorato dai media mainstream che fanno parte dell’immensa macchina mediatica allestita contro Cuba, ignorando la possibilità che possa diventare il primo paese dell’America Latina ad avere un proprio vaccino in questa pandemia.
Spicca l’ammirazione per la cooperazione medica internazionale di Cuba che ha assistito 40 paesi nell’affrontare la pandemia con 57 brigate mediche Henry Reeve, motivo per cui la campagna perché le venga assegnato il premio Nobel per la pace 2021 è ancora in corso.
“Oltre alle carovane in Asia, Oceania, Africa, America del Sud ed Europa dell’Est di questo sabato, si aggiungono oggi (domenica) altre azioni negli Stati Uniti, in Centroamerica e anche a Cuba”.
Dalle 10 del mattino motociclette, biciclette e automobili hanno circolato lungo il Malecón dell’Avana, unendosi a questa campagna globale che cerca di rendere visibile l’esistenza del blocco economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti contro Cuba e il grande impatto sul popolo cubano generato dalle più di 240 sanzioni ordinate dall’amministrazione uscente Trump, che sono ancora in vigore con la nuova amministrazione Biden.
Bandiere della Stella Solitaria e striscioni che denunciano i danni accumulati in sei decenni di blocco, che ammontano a un totale di 144.413 miliardi di dollari (1), hanno inondato il Malecón al passo delle biciclette, motociclette e automobili che sfilavano nella colorata carovana.
“L’inasprimento opportunistico del blocco da parte dell’amministrazione Trump nel mezzo della pandemia COVID-19 lo rende ancora più genocida, ancora più criminale”, ha denunciato il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez.
Cinque miliardi di dollari è la perdita nell’ultimo periodo, una cifra record per un anno (2) e “il più grande ostacolo allo sviluppo nazionale”, come denuncia permanentemente il governo cubano in diversi spazi nazionali e sovranazionali e come è stato anche dichiarato a gran voce dai giovani presenti questa mattina in questa “pelea por lo justo nos une”. Nelle reti sociali, così come nel Malecón, si è sentito forte e chiaro: #NoMásBloqueo.
Note
(1) Secondo i dati del rapporto Cuba vs Bloqueo 2020. Relazione di Cuba secondo la risoluzione 74/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “Necessità di porre fine all’embargo economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba” / luglio 2020.
(2) Dati per il periodo da aprile 2019 a marzo 2020 secondo il rapporto Cuba vs Blockade 2020
*Da Cuba En Resumen – Resumen Latinoamericano
Foto di Yaimi Ravelo e Syara Salado Massip*
Fonte
Manipolazione dei dati Covid in Sicilia. La miseria dei “boiardi” regionali di Federico Rucco
Secondo i giudici di Trapani, la presunta manipolazione dei dati sui contagi del Covid in Sicilia avrebbe avuto l’obiettivo di evitare la zona rossa, impedire le impopolari restrizioni delle attività economiche, dare una immagine di efficienza. La Gip ha ordinato tre arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta che ha colpito il cuore del sistema politico/sanitario siciliano ossia il Dipartimento regionale per le Attività sanitarie e l'Osservatorio epidemiologico dell’assessorato della Salute.
“Quanto al fine ultimo perseguito attraverso la deliberata e continuata alterazione dei dati pandemici – scrive il giudice nell’ordinanza – la natura e le conseguenze delle condotte delittuose poste in essere, nonché la qualità dei soggetti coinvolti ed il loro concertato agire, inducono a ritenere che gli indagati non abbiano perseguito finalità eminentemente personali, ma abbiano operato nell’ambito di un disegno più generale e di natura politica“.
Insomma, “si è cercato di dare un’immagine della tenuta e dell’efficienza del servizio sanitario regionale e della classe politica che amministra migliore di quella reale e di evitare il passaggio dell’intera Regione o di alcune sue aree in zona arancione o rossa, con tutto quel che ne discende anche in termini di perdita di consenso elettorale per chi amministra”.
Infine secondo il magistrato “quale che sia il disegno perseguito, è certo che le falsità commesse non hanno consentito a chi di competenza di apprezzare la reale diffusione della pandemia in Sicilia e di adottare le opportune determinazioni e non hanno permesso ai cittadini conoscere la reale esposizione al rischio pandemico e di comportarsi di conseguenza”.
Insomma nascondere o diluire i dati sui contagi da Covid doveva servire, ancora una volta, a questa nuova classe dirigenti di boiardi regionali, a dimostrare di poter cavalcare efficacemente l’emergenza salvaguardando gli interessi materiali dei privati e delle loro attività economiche, anche a discapito della salute pubblica.
Occorre ammettere che quello emerso in Sicilia, potrebbe non essere un caso isolato. Sono mesi che i presidenti delle Regioni – che ormai si percepiscono come governatori dei propri “granducati” – cercano con ogni mezzo di impedire o diluire le misure restrittive anti covid accusando, neanche troppo velatamente, gli scienziati e gli esperti di essere troppo rigidi e vincolati ai parametri stabiliti come “soglie” di allarme che fanno scattare automaticamente le chiusure.
In casi come quello della Lombardia tale preoccupazione si è rivelata assai superiore a quella di una efficace organizzazione della campagna vaccinale, con i risultati vergognosi che adesso sono sotto gli occhi di tutti. Sarà forse perché una campagna vaccinale non prevede guadagno per i privati e dunque non è “interessante” per i periscopi di chi in questi anni ha edificato un modello Lombardia nella sanità più concentrato sui profitti che sulla salute.
Su questo, le parole dell’infettivologo Crisanti sono chiarissime: “Sicuramente le Regioni hanno mostrato tutta la fragilità di questo sistema. Non si può andare avanti di fronte a un’epidemia che è un problema nazionale con ognuno che fa quello che gli pare”.
Forse è arrivato il momento di rovesciare completamente il processo di conferimento di maggiori poteri alle Regioni avviato nel 2001 – che adesso Lega e Pd vorrebbero incrementare con l’autonomia differenziata – anzi forse è proprio il caso di procedere all’abolizione delle Regioni come istituzioni locali.
Fonte
“Quanto al fine ultimo perseguito attraverso la deliberata e continuata alterazione dei dati pandemici – scrive il giudice nell’ordinanza – la natura e le conseguenze delle condotte delittuose poste in essere, nonché la qualità dei soggetti coinvolti ed il loro concertato agire, inducono a ritenere che gli indagati non abbiano perseguito finalità eminentemente personali, ma abbiano operato nell’ambito di un disegno più generale e di natura politica“.
Insomma, “si è cercato di dare un’immagine della tenuta e dell’efficienza del servizio sanitario regionale e della classe politica che amministra migliore di quella reale e di evitare il passaggio dell’intera Regione o di alcune sue aree in zona arancione o rossa, con tutto quel che ne discende anche in termini di perdita di consenso elettorale per chi amministra”.
Infine secondo il magistrato “quale che sia il disegno perseguito, è certo che le falsità commesse non hanno consentito a chi di competenza di apprezzare la reale diffusione della pandemia in Sicilia e di adottare le opportune determinazioni e non hanno permesso ai cittadini conoscere la reale esposizione al rischio pandemico e di comportarsi di conseguenza”.
Insomma nascondere o diluire i dati sui contagi da Covid doveva servire, ancora una volta, a questa nuova classe dirigenti di boiardi regionali, a dimostrare di poter cavalcare efficacemente l’emergenza salvaguardando gli interessi materiali dei privati e delle loro attività economiche, anche a discapito della salute pubblica.
Occorre ammettere che quello emerso in Sicilia, potrebbe non essere un caso isolato. Sono mesi che i presidenti delle Regioni – che ormai si percepiscono come governatori dei propri “granducati” – cercano con ogni mezzo di impedire o diluire le misure restrittive anti covid accusando, neanche troppo velatamente, gli scienziati e gli esperti di essere troppo rigidi e vincolati ai parametri stabiliti come “soglie” di allarme che fanno scattare automaticamente le chiusure.
In casi come quello della Lombardia tale preoccupazione si è rivelata assai superiore a quella di una efficace organizzazione della campagna vaccinale, con i risultati vergognosi che adesso sono sotto gli occhi di tutti. Sarà forse perché una campagna vaccinale non prevede guadagno per i privati e dunque non è “interessante” per i periscopi di chi in questi anni ha edificato un modello Lombardia nella sanità più concentrato sui profitti che sulla salute.
Su questo, le parole dell’infettivologo Crisanti sono chiarissime: “Sicuramente le Regioni hanno mostrato tutta la fragilità di questo sistema. Non si può andare avanti di fronte a un’epidemia che è un problema nazionale con ognuno che fa quello che gli pare”.
Forse è arrivato il momento di rovesciare completamente il processo di conferimento di maggiori poteri alle Regioni avviato nel 2001 – che adesso Lega e Pd vorrebbero incrementare con l’autonomia differenziata – anzi forse è proprio il caso di procedere all’abolizione delle Regioni come istituzioni locali.
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Il sapore amaro del “gusto del futuro”
No, non siamo in guerra contro il Covid, come dice il nuovo capo della Protezione civile, forse affascinato dalla divisa del generale Figliuolo. Si sarebbe sperato fosse stato molto più preoccupato del disastro della campagna vaccinale, una vera e propria disfatta, di quelle che la storia bellica e patriottarda ci ha abituato a mistificare.
Infatti, quello della chiamata alle armi contro il virus è un arnese retorico vecchio e arrugginito, che poco serve ormai per mascherare l’inefficienza di un sistema sanitario fatto a pezzi dai tagli alla spesa pubblica, dal massacro dei diritti del lavoro di medici e operatori sanitari, compreso l’esproprio del diritto alla Salute dei cittadini per regalarlo ai privati.
Ormai il trucco che serviva a far passare per “martirio” la strage dei malati, per “eroismo” il lavoro massacrante degli operatori sanitari pubblici – al solo scopo ignobile di assolvere preventivamente le responsabilità politiche di chi ha per decenni sistematicamente sbriciolato lo Stato sociale – si è scoperto: i presidenti delle regioni, la cui famigerata riforma del Titolo V ha affidato la gestione della Sanità, meriterebbero un posto in prima fila sul banco degli imputati, e non degli impuniti, dietro cui cercano di nascondersi, facendosi scudo di chiacchiere, di polemiche, di cialtronate.
Non che non ci siano i nemici. Che altri non sono che quelli che hanno corroso, fino quasi a sbriciolarli, i pilastri del welfare: il Covid, come un maremoto, ha semplicemente investito in pieno quel restava ancora in piedi della Sanità, dell’Istruzione, della Previdenza sociale.
Dunque, non è la guerra contro il Covid, che anzi sta facendo fare affari d’oro a Big Pharma, ai colossi del web e dell’e-commerce, e alle banche che gestiranno gli “aiuti” previsti dal Next generation Ue.
È invece la lotta di classe al contrario – provocata con pervicacia dal neoliberismo – che, diventata una vera e propria guerra sociale, ha infierito sul corpo sociale, già indebolito dall’ultima drammatica crisi economica, provocando strage di medici, paramedici e malati, nuova disoccupazione, soprattutto femminile, e maggiore immiserimento generalizzato.
Tanto che la politica ha reso la democrazia ombra di sé stessa, che la debolezza progettuale si pavoneggia come forza, che la cupidigia del consenso è il mero disinteresse della vita delle persone, che la fellonia dei governi viene innalzata come la virtù più alta.
Stiamo convivendo con la barbarie. Le cosiddette transizioni sono state definite, dal capo del governo provvisorio, “il gusto del futuro”.
Il futuro per chi?
La transizione energetica e quella digitale, la cosiddetta green economy e la sostenibilità – vocabolo che, per altro, ormai è entrato nel gergo della comunicazione commerciale, dunque è stato retrocesso al rango di puro aggettivo pubblicitario – sono destinate a diventare, ancora un volta, tappe forzate di quella “distruzione creativa” con cui il capitalismo rigenerare sé stesso. Ovviamente, coi soldi pubblici per nuovi e più gustosi profitti privati.
Il Nex generation Eu è un piano finanziato con i soldi delle tasse dei cittadini europei. Che in Italia vuol dire che chi paga le tasse finanzierà le attività economiche – al netto della cronica evasione fiscale – di chi le paga poco, come le multinazionali “atlantiche’, e anche, per esempio, come le aziende italiane che hanno spostato le sedi fiscali dove fa loro più comodo, ma che saranno comunque destinatarie dei finanziamenti e dei benefici fiscali.
È il massimo della vita: pago (poco), pretendo (tutto).
Insomma, se fosse vero che quella al Covid è una guerra, per politici ciarlatani e imprenditori ingordi varrebbe il detto “finché c’è guerra c’è speranza” – come titolava un famoso film italiano.
Ecco che sapore ha il “gusto del futuro”.
Fonte
Infatti, quello della chiamata alle armi contro il virus è un arnese retorico vecchio e arrugginito, che poco serve ormai per mascherare l’inefficienza di un sistema sanitario fatto a pezzi dai tagli alla spesa pubblica, dal massacro dei diritti del lavoro di medici e operatori sanitari, compreso l’esproprio del diritto alla Salute dei cittadini per regalarlo ai privati.
Ormai il trucco che serviva a far passare per “martirio” la strage dei malati, per “eroismo” il lavoro massacrante degli operatori sanitari pubblici – al solo scopo ignobile di assolvere preventivamente le responsabilità politiche di chi ha per decenni sistematicamente sbriciolato lo Stato sociale – si è scoperto: i presidenti delle regioni, la cui famigerata riforma del Titolo V ha affidato la gestione della Sanità, meriterebbero un posto in prima fila sul banco degli imputati, e non degli impuniti, dietro cui cercano di nascondersi, facendosi scudo di chiacchiere, di polemiche, di cialtronate.
Non che non ci siano i nemici. Che altri non sono che quelli che hanno corroso, fino quasi a sbriciolarli, i pilastri del welfare: il Covid, come un maremoto, ha semplicemente investito in pieno quel restava ancora in piedi della Sanità, dell’Istruzione, della Previdenza sociale.
Dunque, non è la guerra contro il Covid, che anzi sta facendo fare affari d’oro a Big Pharma, ai colossi del web e dell’e-commerce, e alle banche che gestiranno gli “aiuti” previsti dal Next generation Ue.
È invece la lotta di classe al contrario – provocata con pervicacia dal neoliberismo – che, diventata una vera e propria guerra sociale, ha infierito sul corpo sociale, già indebolito dall’ultima drammatica crisi economica, provocando strage di medici, paramedici e malati, nuova disoccupazione, soprattutto femminile, e maggiore immiserimento generalizzato.
Tanto che la politica ha reso la democrazia ombra di sé stessa, che la debolezza progettuale si pavoneggia come forza, che la cupidigia del consenso è il mero disinteresse della vita delle persone, che la fellonia dei governi viene innalzata come la virtù più alta.
Stiamo convivendo con la barbarie. Le cosiddette transizioni sono state definite, dal capo del governo provvisorio, “il gusto del futuro”.
Il futuro per chi?
La transizione energetica e quella digitale, la cosiddetta green economy e la sostenibilità – vocabolo che, per altro, ormai è entrato nel gergo della comunicazione commerciale, dunque è stato retrocesso al rango di puro aggettivo pubblicitario – sono destinate a diventare, ancora un volta, tappe forzate di quella “distruzione creativa” con cui il capitalismo rigenerare sé stesso. Ovviamente, coi soldi pubblici per nuovi e più gustosi profitti privati.
Il Nex generation Eu è un piano finanziato con i soldi delle tasse dei cittadini europei. Che in Italia vuol dire che chi paga le tasse finanzierà le attività economiche – al netto della cronica evasione fiscale – di chi le paga poco, come le multinazionali “atlantiche’, e anche, per esempio, come le aziende italiane che hanno spostato le sedi fiscali dove fa loro più comodo, ma che saranno comunque destinatarie dei finanziamenti e dei benefici fiscali.
È il massimo della vita: pago (poco), pretendo (tutto).
Insomma, se fosse vero che quella al Covid è una guerra, per politici ciarlatani e imprenditori ingordi varrebbe il detto “finché c’è guerra c’è speranza” – come titolava un famoso film italiano.
Ecco che sapore ha il “gusto del futuro”.
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La guerra globale dell’acqua è già iniziata
Italia: 10 anni fa il referendum tradito
Nella Giornata mondiale dell’acqua (World Water Day), ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 1992, da pochi giorni trascorsa, sarebbe stato bene ricordare che, in barba ai più elementari principi democratici, il risultato del referendum del 2011, in cui la maggioranza degli italiani votò a favore dell’acqua pubblica, è stato praticamente ignorato dai partiti che si sono avvicendati tanto alla guida dei governi nazionali quanto a quella dei governi locali.
Nella consultazione popolare del giugno 2011, il 54% degli elettori votò contro la privatizzazione del sistema idrico ma da allora ad oggi la situazione è praticamente la stessa, con qualche eccezione come Napoli e Reggio Emilia.
La promessa “nessun profitto” non solo non è stata mantenuta, ma secondo chi ha analizzato i bilanci dei gestori del servizio, i Piani d’Ambito (strumenti di pianificazione dell’intero territorio e per l’intero periodo di affidamento del servizio) e le tariffe applicate negli ultimi anni, è stata abbondantemente tradita. Gli enti locali – il soggetto pubblico – mentre sono azionisti delle società per azioni “partecipate”, allo stesso tempo, dovrebbero svolgere anche funzioni di “ente regolatore”.
E così, mentre il controllore ed il controllato, allegramente, coincidono, le aziende municipalizzate, convertitesi in Società per Azioni, si comportano come un qualunque privato a caccia di profitti, sebbene continuino ad infarcire i Consigli di Amministrazione di servi di partito e di amici degli amici i quali, oltre ai lauti stipendi, incassano anche i dividendi.
Dal 2009 al 2019, le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90% a fronte di un incremento del costo della vita del 15%. Ciò, mentre i bilanci delle quattro grandi multiutility quotate in Borsa che gestiscono anche l’acqua – A2a, Acea, Hera e Iren – tra il 2010 e il 2016 sono passati dal 58% dell’impatto degli investimenti sul margine operativo lordo al 40%.
Dunque, più utili agli azionisti e meno lavori di manutenzione straordinaria sulle infrastrutture e sulle reti idriche che, in tante zone del paese, continuano ad essere un colabrodo mentre le bollette dei cittadini sono sempre più salate.
Intanto l’acqua è già entrata in borsa
E, ciliegina sulla torta – o, se preferite, il colpo di grazia – nel silenzio generale dei media e dei politici, agli inizi di dicembre dello scorso anno, l’acqua è stata quotata in borsa per la prima volta nella storia e potrà, pertanto, diventare oggetto delle più torbide speculazioni finanziarie. Un silenzio assordante data la enorme gravità di questa notizia per l’umanità intera.
L’acqua è stata quotata in Borsa dalla CME Group, una società USA con sede a Chicago, attiva nello scambio di future e derivati, che ha lanciato il primo contratto collegato ai prezzi dei diritti sull’acqua in California. Per ora le trattazioni di futures dell’acqua si riferiscono alla disponibilità, o scarsità, di acqua in California, basandosi sui prezzi fissati da due anni dal Nasdaq Veles California Water Index (NQH2O).
Gli investitori di futures dell’acqua potranno assicurarsi sulla disponibilità di acqua in una specifica data futura a un prezzo fissato al momento dell’investimento, scommettendo contro o sulle fluttuazioni del NQH2O e tutelandosi dalle conseguenze che la siccità ha (ed avrà) sul prezzo dell’acqua in California.
Recentemente, le siccità causate dal riscaldamento globale hanno avuto un impatto devastante sulla disponibilità di acqua proprio in California, sempre più frequentemente interessata da giganteschi incendi. E nel 2020, il prezzo dell’acqua, in California, infatti, è triplicato.
La California è, insomma, un laboratorio dove si sta sperimentando la finanziarizzazione dell’acqua e proprio la natura del future come prodotto finanziario implica la possibilità di speculazioni destinate a modificare il prezzo dell’acqua per tutti.
Un allarme lanciato già nel 2012 dalle colonne di «Nature» da Frederick Kaufmann in un articolo, non a caso, intitolato “La sete d’acqua di Wall Street”. Kaufmann segnalava come i mercati finanziari, speculando attraverso i futures, abbiano già «distrutto» i mercati dei cereali di Chicago, Kansas City e Minneapolis, «trasformandoli in motori di profitto per banche ed hedge funds mentre il prezzo del nostro pane di tutti i giorni aumentava» e che, qualcosa di analogo stava per succedere anche per l’acqua.
Dunque, già otto anni fa Kaufmann individuava proprio nell’acqua la risorsa nel mirino della speculazione finanziaria: «Gli analisti finanziari percepiscono che esattamente come le altre risorse – i metalli preziosi, ad esempio – l’acqua utilizzabile in futuro sarà così poca che occorrerà estrarla dalle miniere, processarla, impacchettarla e, soprattutto, spostarla in giro per il mondo. E sanno che la domanda non se ne andrà. Sono questi i ragionamenti che incoraggiano la creazione di un futuro mercato dei futures dell’acqua globale».
L’ipotesi che un’ondata speculativa possa abbattersi sull’acqua, per le Nazioni Unite, equivale a una minaccia ai diritti umani di tutti. Il Relatore Speciale dell’Onu sul Diritto all’Acqua, Pedro Arrojo-Agudo, proprio prima che l’operazione “acqua in borsa” andasse in porto, aveva espresso grave preoccupazione riguardo la notizia che l’acqua verrà scambiata nel mercato dei “futures” della Borsa di Wall Street.
Arrojo si è detto molto preoccupato per l’equiparazione dell’acqua ad altre risorse come oro e petrolio sul mercato dei futures di Wall Street «Mentre ci sono discussioni in corso a livello globale circa i valori culturali, sociali e ambientali dell’acqua, la notizia delle contrattazioni dell’acqua nel mercato dei futures di Wall Street indica che il valore dell’acqua come diritto umano basilare è in pericolo».
Su questo tema il Forum (italiano) dei Movimenti per l’acqua ha, recentemente, lanciato una petizione in cui si legge “L’acqua è già minacciata dall’incremento demografico, dal crescente consumo e inquinamento dell’agricoltura su larga scala e della grande industria, dal surriscaldamento globale e dai relativi cambiamenti climatici. Se oggi l’acqua può essere quotata in Borsa è perché da tempo è stata considerata merce, sottoposta ad una logica di profitto e la sua gestione privatizzata”.
L’appello, non solo è contro la quotazione in borsa ma chiede anche di approvare la proposta di legge, in discussione in commissione Ambiente della Camera; di sottrarre all’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente le competenze sul Servizio Idrico e di riportarle al ministero dell’Ambiente; di investire per la riduzione drastica delle perdite nelle reti idriche; di salvaguardare il territorio attraverso investimenti contro il dissesto idrogeologico; di impedire l’accaparramento delle fonti attraverso l’approvazione di concessioni di derivazione che garantiscano il principio di solidarietà e la tutela degli equilibri degli ecosistemi fluviali”.
Il cambiamento climatico sta riducendo le riserve idriche del pianeta
Il cambiamento climatico in atto ha peggiorato ulteriormente una situazione di grave scarsità dell’acqua in ampie zone del pianeta. Un recente studio ha dimostrato come le montagne ed i ghiacciai di tutto il mondo non riescono più a stoccare ed immagazzinare l’acqua a causa dell’innalzamento globale delle temperature.
La conseguenza di questo fenomeno sarà una grave emergenza idrica planetaria con quasi due miliardi di persone che non avranno più alcuna disponibilità di acqua: uno scenario apocalittico che dovrebbe essere assolutamente scongiurato.
Tra India, Africa ed America centrale, almeno un quarto degli abitanti della terra sta già patendo le drammatiche conseguenze della mancanza d’acqua, un problema che è sempre più al centro di conflitti, rivolte ed eccezionali movimenti migratori.
A fronte di una popolazione globale in continua crescita e a precipitazioni sempre più scarse ed irregolari come effetto dei cambiamenti climatici, diventano sempre più lunghi i periodi di siccità e ciò sta determinando la moltiplicazione e l’inasprimento dei conflitti per l’approvvigionamento di risorse idriche.
Il dramma della mancanza d’acqua riguarda, ormai, almeno 2 miliardi di persone. Alla cronica mancanza d’acqua si aggiungono gli attacchi aerei alle infrastrutture e alla rete idrica, come è successo in Yemen, dove a milioni sono rimasti senza acqua potabile o per i raccolti. Eventi analoghi sono stati registrati in Somalia, Iraq e Siria.
Tuttavia, va considerato un altro fattore che incide decisamente sulla mancanza cronica di acqua: l’uso massiccio che se ne fa in agricoltura. Il solo settore agricolo assorbe oltre i due terzi di tutta l’acqua usata ogni anno dalla popolazione mondiale. Basti pensare che solo per produrre quanto serve per una tazzina di caffè vengono consumati 140 litri d’acqua e che un chilo di carne bovina “incorpora” 16.000 litri d’acqua.
Tuttavia, proprio la crescente scarsità d’acqua causata dal cambiamento climatico, sta spingendo i contadini di alcune aree a maggiore siccità, a ripiegare su un metodi di irrigazione alternativi e più efficienti, oltre che su mezzi per il controllo da remoto del livello di umidità in un determinato momento e in un certo luogo.
Le prime vittime della mancanza d’acqua sono i bambini
Secondo i ricercatori, entro il 2040 almeno un bambino su quattro vivrà in aree di forte criticità. Ogni bambino avrebbe diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari e tuttavia, centinaia di milioni di bambini non ne hanno a sufficienza. A livello globale, in aree instabili e colpite da conflitti, 420 milioni di bambini non dispongono di servizi igienici di base e 210 milioni di bambini non hanno accesso ad acqua potabile sicura.
Secondo il Rapporto Unicef 2019 dedicato al legame tra emergenze, sviluppo e pace nelle aree instabili e colpite da conflitto, nel mondo, oltre 800 milioni di bambini vivono in 58 aree interessate da conflitti.
I bambini che vivono in queste aree, rileva il rapporto, hanno quattro volte maggiori probabilità di non avere servizi igienico-sanitari di base e otto volte più probabilità di non avere servizi di acqua potabile di base. Nelle aree interessate da conflitti, l’acqua non sicura può essere mortale quanto e più dei proiettili o delle bombe.
In media, i bambini al di sotto dei 15 anni, che vivono in queste aree di conflitto, hanno quasi il triplo delle probabilità di morire per malattie legate all’acqua non potabile ed ai servizi igienico-sanitari piuttosto che per le conseguenze degli attacchi armati.
Per i bambini più piccoli, la situazione è ancora peggiore: quelli al di sotto dei 5 anni hanno probabilità di morire per malattie legate all’acqua ed ai servizi igienico-sanitari venti volte maggiori che sotto il fuoco dei proiettili. Secondo il rapporto dell’Unicef, entro il 2030, l’80% delle persone più povere del mondo, vivrà in Stati instabili ed interessati da conflitti. E la mancanza o l’eccessiva scarsità d’acqua potrebbe essere sempre più centrale tra le cause scatenanti delle prossime guerre.
Fonte
Nella Giornata mondiale dell’acqua (World Water Day), ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 1992, da pochi giorni trascorsa, sarebbe stato bene ricordare che, in barba ai più elementari principi democratici, il risultato del referendum del 2011, in cui la maggioranza degli italiani votò a favore dell’acqua pubblica, è stato praticamente ignorato dai partiti che si sono avvicendati tanto alla guida dei governi nazionali quanto a quella dei governi locali.
Nella consultazione popolare del giugno 2011, il 54% degli elettori votò contro la privatizzazione del sistema idrico ma da allora ad oggi la situazione è praticamente la stessa, con qualche eccezione come Napoli e Reggio Emilia.
La promessa “nessun profitto” non solo non è stata mantenuta, ma secondo chi ha analizzato i bilanci dei gestori del servizio, i Piani d’Ambito (strumenti di pianificazione dell’intero territorio e per l’intero periodo di affidamento del servizio) e le tariffe applicate negli ultimi anni, è stata abbondantemente tradita. Gli enti locali – il soggetto pubblico – mentre sono azionisti delle società per azioni “partecipate”, allo stesso tempo, dovrebbero svolgere anche funzioni di “ente regolatore”.
E così, mentre il controllore ed il controllato, allegramente, coincidono, le aziende municipalizzate, convertitesi in Società per Azioni, si comportano come un qualunque privato a caccia di profitti, sebbene continuino ad infarcire i Consigli di Amministrazione di servi di partito e di amici degli amici i quali, oltre ai lauti stipendi, incassano anche i dividendi.
Dal 2009 al 2019, le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90% a fronte di un incremento del costo della vita del 15%. Ciò, mentre i bilanci delle quattro grandi multiutility quotate in Borsa che gestiscono anche l’acqua – A2a, Acea, Hera e Iren – tra il 2010 e il 2016 sono passati dal 58% dell’impatto degli investimenti sul margine operativo lordo al 40%.
Dunque, più utili agli azionisti e meno lavori di manutenzione straordinaria sulle infrastrutture e sulle reti idriche che, in tante zone del paese, continuano ad essere un colabrodo mentre le bollette dei cittadini sono sempre più salate.
Intanto l’acqua è già entrata in borsa
E, ciliegina sulla torta – o, se preferite, il colpo di grazia – nel silenzio generale dei media e dei politici, agli inizi di dicembre dello scorso anno, l’acqua è stata quotata in borsa per la prima volta nella storia e potrà, pertanto, diventare oggetto delle più torbide speculazioni finanziarie. Un silenzio assordante data la enorme gravità di questa notizia per l’umanità intera.
L’acqua è stata quotata in Borsa dalla CME Group, una società USA con sede a Chicago, attiva nello scambio di future e derivati, che ha lanciato il primo contratto collegato ai prezzi dei diritti sull’acqua in California. Per ora le trattazioni di futures dell’acqua si riferiscono alla disponibilità, o scarsità, di acqua in California, basandosi sui prezzi fissati da due anni dal Nasdaq Veles California Water Index (NQH2O).
Gli investitori di futures dell’acqua potranno assicurarsi sulla disponibilità di acqua in una specifica data futura a un prezzo fissato al momento dell’investimento, scommettendo contro o sulle fluttuazioni del NQH2O e tutelandosi dalle conseguenze che la siccità ha (ed avrà) sul prezzo dell’acqua in California.
Recentemente, le siccità causate dal riscaldamento globale hanno avuto un impatto devastante sulla disponibilità di acqua proprio in California, sempre più frequentemente interessata da giganteschi incendi. E nel 2020, il prezzo dell’acqua, in California, infatti, è triplicato.
La California è, insomma, un laboratorio dove si sta sperimentando la finanziarizzazione dell’acqua e proprio la natura del future come prodotto finanziario implica la possibilità di speculazioni destinate a modificare il prezzo dell’acqua per tutti.
Un allarme lanciato già nel 2012 dalle colonne di «Nature» da Frederick Kaufmann in un articolo, non a caso, intitolato “La sete d’acqua di Wall Street”. Kaufmann segnalava come i mercati finanziari, speculando attraverso i futures, abbiano già «distrutto» i mercati dei cereali di Chicago, Kansas City e Minneapolis, «trasformandoli in motori di profitto per banche ed hedge funds mentre il prezzo del nostro pane di tutti i giorni aumentava» e che, qualcosa di analogo stava per succedere anche per l’acqua.
Dunque, già otto anni fa Kaufmann individuava proprio nell’acqua la risorsa nel mirino della speculazione finanziaria: «Gli analisti finanziari percepiscono che esattamente come le altre risorse – i metalli preziosi, ad esempio – l’acqua utilizzabile in futuro sarà così poca che occorrerà estrarla dalle miniere, processarla, impacchettarla e, soprattutto, spostarla in giro per il mondo. E sanno che la domanda non se ne andrà. Sono questi i ragionamenti che incoraggiano la creazione di un futuro mercato dei futures dell’acqua globale».
L’ipotesi che un’ondata speculativa possa abbattersi sull’acqua, per le Nazioni Unite, equivale a una minaccia ai diritti umani di tutti. Il Relatore Speciale dell’Onu sul Diritto all’Acqua, Pedro Arrojo-Agudo, proprio prima che l’operazione “acqua in borsa” andasse in porto, aveva espresso grave preoccupazione riguardo la notizia che l’acqua verrà scambiata nel mercato dei “futures” della Borsa di Wall Street.
Arrojo si è detto molto preoccupato per l’equiparazione dell’acqua ad altre risorse come oro e petrolio sul mercato dei futures di Wall Street «Mentre ci sono discussioni in corso a livello globale circa i valori culturali, sociali e ambientali dell’acqua, la notizia delle contrattazioni dell’acqua nel mercato dei futures di Wall Street indica che il valore dell’acqua come diritto umano basilare è in pericolo».
Su questo tema il Forum (italiano) dei Movimenti per l’acqua ha, recentemente, lanciato una petizione in cui si legge “L’acqua è già minacciata dall’incremento demografico, dal crescente consumo e inquinamento dell’agricoltura su larga scala e della grande industria, dal surriscaldamento globale e dai relativi cambiamenti climatici. Se oggi l’acqua può essere quotata in Borsa è perché da tempo è stata considerata merce, sottoposta ad una logica di profitto e la sua gestione privatizzata”.
L’appello, non solo è contro la quotazione in borsa ma chiede anche di approvare la proposta di legge, in discussione in commissione Ambiente della Camera; di sottrarre all’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente le competenze sul Servizio Idrico e di riportarle al ministero dell’Ambiente; di investire per la riduzione drastica delle perdite nelle reti idriche; di salvaguardare il territorio attraverso investimenti contro il dissesto idrogeologico; di impedire l’accaparramento delle fonti attraverso l’approvazione di concessioni di derivazione che garantiscano il principio di solidarietà e la tutela degli equilibri degli ecosistemi fluviali”.
Il cambiamento climatico sta riducendo le riserve idriche del pianeta
Il cambiamento climatico in atto ha peggiorato ulteriormente una situazione di grave scarsità dell’acqua in ampie zone del pianeta. Un recente studio ha dimostrato come le montagne ed i ghiacciai di tutto il mondo non riescono più a stoccare ed immagazzinare l’acqua a causa dell’innalzamento globale delle temperature.
La conseguenza di questo fenomeno sarà una grave emergenza idrica planetaria con quasi due miliardi di persone che non avranno più alcuna disponibilità di acqua: uno scenario apocalittico che dovrebbe essere assolutamente scongiurato.
Tra India, Africa ed America centrale, almeno un quarto degli abitanti della terra sta già patendo le drammatiche conseguenze della mancanza d’acqua, un problema che è sempre più al centro di conflitti, rivolte ed eccezionali movimenti migratori.
A fronte di una popolazione globale in continua crescita e a precipitazioni sempre più scarse ed irregolari come effetto dei cambiamenti climatici, diventano sempre più lunghi i periodi di siccità e ciò sta determinando la moltiplicazione e l’inasprimento dei conflitti per l’approvvigionamento di risorse idriche.
Il dramma della mancanza d’acqua riguarda, ormai, almeno 2 miliardi di persone. Alla cronica mancanza d’acqua si aggiungono gli attacchi aerei alle infrastrutture e alla rete idrica, come è successo in Yemen, dove a milioni sono rimasti senza acqua potabile o per i raccolti. Eventi analoghi sono stati registrati in Somalia, Iraq e Siria.
Tuttavia, va considerato un altro fattore che incide decisamente sulla mancanza cronica di acqua: l’uso massiccio che se ne fa in agricoltura. Il solo settore agricolo assorbe oltre i due terzi di tutta l’acqua usata ogni anno dalla popolazione mondiale. Basti pensare che solo per produrre quanto serve per una tazzina di caffè vengono consumati 140 litri d’acqua e che un chilo di carne bovina “incorpora” 16.000 litri d’acqua.
Tuttavia, proprio la crescente scarsità d’acqua causata dal cambiamento climatico, sta spingendo i contadini di alcune aree a maggiore siccità, a ripiegare su un metodi di irrigazione alternativi e più efficienti, oltre che su mezzi per il controllo da remoto del livello di umidità in un determinato momento e in un certo luogo.
Le prime vittime della mancanza d’acqua sono i bambini
Secondo i ricercatori, entro il 2040 almeno un bambino su quattro vivrà in aree di forte criticità. Ogni bambino avrebbe diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari e tuttavia, centinaia di milioni di bambini non ne hanno a sufficienza. A livello globale, in aree instabili e colpite da conflitti, 420 milioni di bambini non dispongono di servizi igienici di base e 210 milioni di bambini non hanno accesso ad acqua potabile sicura.
Secondo il Rapporto Unicef 2019 dedicato al legame tra emergenze, sviluppo e pace nelle aree instabili e colpite da conflitto, nel mondo, oltre 800 milioni di bambini vivono in 58 aree interessate da conflitti.
I bambini che vivono in queste aree, rileva il rapporto, hanno quattro volte maggiori probabilità di non avere servizi igienico-sanitari di base e otto volte più probabilità di non avere servizi di acqua potabile di base. Nelle aree interessate da conflitti, l’acqua non sicura può essere mortale quanto e più dei proiettili o delle bombe.
In media, i bambini al di sotto dei 15 anni, che vivono in queste aree di conflitto, hanno quasi il triplo delle probabilità di morire per malattie legate all’acqua non potabile ed ai servizi igienico-sanitari piuttosto che per le conseguenze degli attacchi armati.
Per i bambini più piccoli, la situazione è ancora peggiore: quelli al di sotto dei 5 anni hanno probabilità di morire per malattie legate all’acqua ed ai servizi igienico-sanitari venti volte maggiori che sotto il fuoco dei proiettili. Secondo il rapporto dell’Unicef, entro il 2030, l’80% delle persone più povere del mondo, vivrà in Stati instabili ed interessati da conflitti. E la mancanza o l’eccessiva scarsità d’acqua potrebbe essere sempre più centrale tra le cause scatenanti delle prossime guerre.
Fonte
30/03/2021
USA - Il nuovo nazionalismo Usa ella finta “transizione ecologica”
L’economia occidentale, anche prima della pandemia, era incagliata come la portacontainer nel canale di Suez. E l’unico strumento utilizzato – negli Usa come nel Vecchio Continente – è stata la liquidità finanziaria a volontà.
Montagne di carta moneta (in formato elettronico, ci mancherebbe) che sono volate nel sistema finanziario, con il risultato di gonfiare le quotazioni di borsa. Ben poco di quel denaro è “sgocciolato” verso l’economia reale.
Ma si continua a spingere nella stessa direzione. Un esempio? La pressione di istituzioni internazionali e delle grandi banche per “mobilizzare” risparmi fermi sui conti correnti privati, penalizzandoli con tassi sempre più negativi, in modo da disporre di ulteriori munizioni per le battaglie speculative su mercati che non possono più fare a meno della droga finanziaria.
Ma la finanza, ripetiamo, non spinge più la crescita dell’economia reale. E questo crea problemi a valanga, sia per quanto riguarda la tenuta dei sistemi economici in questa parte del mondo, sia per la tenuta politica e sociale.
Ricordiamo spesso che nei “ricchi” Stati Uniti i disoccupati effettivi – sommando quelli registrati come tali e gli “scoraggiati” che il lavoro non lo cercano neanche più – superano da anni abbondantemente i 100 milioni. In pratica un terzo degli abitanti (328 milioni), comprendendo anche minorenni, pensionati e disabili; di fatto, la metà della popolazione in età da lavoro...
La necessità di cambiare registro si fa largo lentamente, e nell’Unione Europea ancor meno che al di là dell’Atlantico.
Un eccellete editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza di sabato scorso, coglie con precisione la complessità dello sforzo che le economie occidentali dovrebbero compiere per riprendere il timone globale. E dunque anche le difficoltà che incontra.
La prima risposta al problema – quella di Obama e poi di Trump – è consistita nel favorire la “rilocalizzazione” negli Stati Uniti delle produzioni delocalizzate all’estero.
Risultati scarsi, se non nulli. E a poco è valsa l’accusa ai Paesi di nuova industrializzazione di fare “concorrenza sleale”, contando sul costo del lavoro più basso e minori vincoli ambientali. In fondo, le multinazionali statunitensi ed europee aveva colto proprio quei due vantaggi strategici per spostare la produzione in Cina, Messico, Brasile, India, ecc.
La stessa uscita di Trump dagli accordi sul clima erano una conseguenza di questo tentativo di riportare in patria le produzioni “vecchie”, inquinanti ed energivore, senza cambiare nulla.
La cosiddetta “svolta verde” di Biden cerca di correggere l’impostazione, con lo stesso obbiettivo (la supremazia Usa). Gli standard ambientali, spesso definiti o attribuiti a terzi in modo arbitrario, diventano così un elemento della competizione commerciale, puntando ad aumentare i costi – le spese per rendere più eco-friendly la produzione manifatturiera – nei Paesi che hanno fin qui risucchiato investimenti e tecnologie antiquate.
I 3.000 miliardi di dollari che Biden vorrebbe impegnare per la “svolta green”, entrando nel merito del “piano”, illustrano bene la portata del progetto.
I milioni di posti di lavoro che promette di creare non sono “ripresa di possesso” di vecchie linee di produzione, ma “innovazioni di prodotto e di processo”. Come?
“Se in America si fanno investimenti intelligenti nella manifattura e nella tecnologia, puntando dunque sull’Internet delle cose (IOT) e sull’intelligenza artificiale (AI), si danno ai lavoratori e alle imprese gli strumenti di cui hanno bisogno per competere; se si usano i dollari versati dai contribuenti per comprare prodotti americani (Buy American) e per diffondere nel mondo l’innovazione americana, se ‘si contrastano con fermezza gli abusi del governo cinese’, se si insiste sul commercio equo, sul fair trade e non più solo sul free trade, e se si estende il sistema delle opportunità di lavoro a tutti gli americani, allora molti dei prodotti fabbricati all’estero potrebbero essere realizzati subito negli Stati Uniti. E se si sostiene il sistema produttivo americano, usando la forza dell’energia pulita di cui si dispone sul territorio, la sua manifattura potrà primeggiare con prodotti di assoluta avanguardia, che sono la base dei servizi del futuro”.
Difficile non vedere come la chiave della “competizione” sia quella dominante; e come la logica sia profondamente “nazionalista” (prima gli americani, come si è visto nel caso dei vaccini). Come Trump, nell’obbiettivo; differente nella metodologia e nell’identificazione degli strumenti su cui far leva. Si vedono in trasparenza anche i gruppi multinazionali di riferimento, dietro le diverse strategie: old e new economy in lotta per la supremazia interna.
Non a caso “Gli unici incentivi al settore industriale introdotti dall’Amministrazione Trump si sono così concentrati sul fattore normativo, eliminando una serie di vincoli nell’utilizzo delle acque a fini produttivi e nel settore energetico, in particolare firmando ordini esecutivi per impedire ai singoli Stati di rallentare le operazioni di costruzione di oleodotti e gasdotti sulla base di motivazioni ambientali”.
Ma la rilocalizzazione competitiva della produzione comporta obbligatoriamente anche una ridefinizione dei mercati in grado di assorbirla. E se una produzione “globalizzata” – con componenti realizzate ovunque, con chiaro beneficio anche di altre aree del pianeta – poteva legittimamente avere come sbocco qualsiasi mercato, una produzione ri-nazionalizzata deve per forza avere un mercato interno molto forte, in grado di assorbire merci magari favolose, ma certamente non prodotte a basso prezzo.
Uscire dallo stallo? Una popolazione stressata da decenni di blocco salariale – o anche riduzioni, come nel caso della Chrysler – e con metà della forza lavoro disoccupata non è in grado di assorbire altro che merci cinesi (sempre meno, vista la crescita salariale in Cina), indonesiane, indiane, “chicane”.
Qui si spiega il secondo obbiettivo del maxi-piano “democratico”: alzare il salario minimo a 15 dollari l’ora, aumentare l’occupazione interna, addirittura “ misure legislative volte a costruire il ‘potere dei lavoratori’ che serve per aumentare i salari ed assicurare più elevati benefit”.
Non c’è nulla di sorprendente o “progressista”, in questo. Anche i nazisti “conquistarono” la propria classe operaia garantendo salari alti e un potere d’acquisto in proporzione, “migliorabile” con la conquista degli “spazi vitali” a disposizione dei vicini (slavi, soprattutto).
Proprio come la “svolta verde” non ha nulla di “ambientalista”, ma molto di concorrenza feroce.
“La sfida è duplice: per un verso, si tratta di innovare i prodotti ed i processi nella manifattura, segmentando il mercato globale e quindi creando barriere tecniche all’importazione dei beni che hanno standard ambientali inferiori; dall’altra, si prevede di penalizzare con dazi all’importazione le produzioni straniere che, anche se rispettano i nuovi requisiti, siano state fabbricate utilizzando fonti energetiche fossili.
L’imposizione da parte americana di un “carbon adjustment fee” ai Paesi che non rispettano gli obblighi in materia di clima e di ambiente assicurerà una competizione equilibrata, forzandoli ad internalizzare i maggiori costi ambientali che proprio costoro ora stanno imponendo al resto del mondo.
Questo aggiustamento tariffario impedirà ai Paesi che inquinano di continuare a spiazzare con i loro minori costi ambientali ed energetici l’occupazione manifatturiera americana e la competitività delle imprese statunitensi. E, soprattutto, l’America chiuderà così il varco dell’insostenibile disavanzo commerciale strutturale.”
La guerra per mantenere l’egemonia si avvia ad utilizzare ora altre armi e chiude definitivamente, e anche in modo molto brusco, la breve era della “globalizzazione”.
I problemi, anche per gli Usa, non mancano. Questa logica “nazionalista egemonica” confligge con la libertà assoluta di cui le multinazionali di ogni settore hanno goduto per quasi 40 anni, e presuppone un loro ridimensionamento decisionale entro strategie concordate con lo Stato di riferimento.
Ma questo processo, allo stesso tempo, complica la loro possibilità di entrare in altri mercati. Così come gli aumenti salariali costringeranno ad un aumento dei prezzi finali tali da rendere il made in Usa quasi inaccessibile per compratori di aree con salari molto più bassi.
Il “vaso di coccio”, al momento, diventa l’Unione Europea. Una gabbia idiota, benché feroce, costruita da “strateghi della deflazione salariale e della competizione mercantilistica”.
Gente che voleva competere sui bassi salari, e che perciò è rimasta senza innovazione, senza ricerca scientifica, senza prospettive. E pure senza vaccini...
Fonte
Montagne di carta moneta (in formato elettronico, ci mancherebbe) che sono volate nel sistema finanziario, con il risultato di gonfiare le quotazioni di borsa. Ben poco di quel denaro è “sgocciolato” verso l’economia reale.
Ma si continua a spingere nella stessa direzione. Un esempio? La pressione di istituzioni internazionali e delle grandi banche per “mobilizzare” risparmi fermi sui conti correnti privati, penalizzandoli con tassi sempre più negativi, in modo da disporre di ulteriori munizioni per le battaglie speculative su mercati che non possono più fare a meno della droga finanziaria.
Ma la finanza, ripetiamo, non spinge più la crescita dell’economia reale. E questo crea problemi a valanga, sia per quanto riguarda la tenuta dei sistemi economici in questa parte del mondo, sia per la tenuta politica e sociale.
Ricordiamo spesso che nei “ricchi” Stati Uniti i disoccupati effettivi – sommando quelli registrati come tali e gli “scoraggiati” che il lavoro non lo cercano neanche più – superano da anni abbondantemente i 100 milioni. In pratica un terzo degli abitanti (328 milioni), comprendendo anche minorenni, pensionati e disabili; di fatto, la metà della popolazione in età da lavoro...
La necessità di cambiare registro si fa largo lentamente, e nell’Unione Europea ancor meno che al di là dell’Atlantico.
Un eccellete editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza di sabato scorso, coglie con precisione la complessità dello sforzo che le economie occidentali dovrebbero compiere per riprendere il timone globale. E dunque anche le difficoltà che incontra.
La prima risposta al problema – quella di Obama e poi di Trump – è consistita nel favorire la “rilocalizzazione” negli Stati Uniti delle produzioni delocalizzate all’estero.
Risultati scarsi, se non nulli. E a poco è valsa l’accusa ai Paesi di nuova industrializzazione di fare “concorrenza sleale”, contando sul costo del lavoro più basso e minori vincoli ambientali. In fondo, le multinazionali statunitensi ed europee aveva colto proprio quei due vantaggi strategici per spostare la produzione in Cina, Messico, Brasile, India, ecc.
La stessa uscita di Trump dagli accordi sul clima erano una conseguenza di questo tentativo di riportare in patria le produzioni “vecchie”, inquinanti ed energivore, senza cambiare nulla.
La cosiddetta “svolta verde” di Biden cerca di correggere l’impostazione, con lo stesso obbiettivo (la supremazia Usa). Gli standard ambientali, spesso definiti o attribuiti a terzi in modo arbitrario, diventano così un elemento della competizione commerciale, puntando ad aumentare i costi – le spese per rendere più eco-friendly la produzione manifatturiera – nei Paesi che hanno fin qui risucchiato investimenti e tecnologie antiquate.
I 3.000 miliardi di dollari che Biden vorrebbe impegnare per la “svolta green”, entrando nel merito del “piano”, illustrano bene la portata del progetto.
I milioni di posti di lavoro che promette di creare non sono “ripresa di possesso” di vecchie linee di produzione, ma “innovazioni di prodotto e di processo”. Come?
“Se in America si fanno investimenti intelligenti nella manifattura e nella tecnologia, puntando dunque sull’Internet delle cose (IOT) e sull’intelligenza artificiale (AI), si danno ai lavoratori e alle imprese gli strumenti di cui hanno bisogno per competere; se si usano i dollari versati dai contribuenti per comprare prodotti americani (Buy American) e per diffondere nel mondo l’innovazione americana, se ‘si contrastano con fermezza gli abusi del governo cinese’, se si insiste sul commercio equo, sul fair trade e non più solo sul free trade, e se si estende il sistema delle opportunità di lavoro a tutti gli americani, allora molti dei prodotti fabbricati all’estero potrebbero essere realizzati subito negli Stati Uniti. E se si sostiene il sistema produttivo americano, usando la forza dell’energia pulita di cui si dispone sul territorio, la sua manifattura potrà primeggiare con prodotti di assoluta avanguardia, che sono la base dei servizi del futuro”.
Difficile non vedere come la chiave della “competizione” sia quella dominante; e come la logica sia profondamente “nazionalista” (prima gli americani, come si è visto nel caso dei vaccini). Come Trump, nell’obbiettivo; differente nella metodologia e nell’identificazione degli strumenti su cui far leva. Si vedono in trasparenza anche i gruppi multinazionali di riferimento, dietro le diverse strategie: old e new economy in lotta per la supremazia interna.
Non a caso “Gli unici incentivi al settore industriale introdotti dall’Amministrazione Trump si sono così concentrati sul fattore normativo, eliminando una serie di vincoli nell’utilizzo delle acque a fini produttivi e nel settore energetico, in particolare firmando ordini esecutivi per impedire ai singoli Stati di rallentare le operazioni di costruzione di oleodotti e gasdotti sulla base di motivazioni ambientali”.
Ma la rilocalizzazione competitiva della produzione comporta obbligatoriamente anche una ridefinizione dei mercati in grado di assorbirla. E se una produzione “globalizzata” – con componenti realizzate ovunque, con chiaro beneficio anche di altre aree del pianeta – poteva legittimamente avere come sbocco qualsiasi mercato, una produzione ri-nazionalizzata deve per forza avere un mercato interno molto forte, in grado di assorbire merci magari favolose, ma certamente non prodotte a basso prezzo.
Uscire dallo stallo? Una popolazione stressata da decenni di blocco salariale – o anche riduzioni, come nel caso della Chrysler – e con metà della forza lavoro disoccupata non è in grado di assorbire altro che merci cinesi (sempre meno, vista la crescita salariale in Cina), indonesiane, indiane, “chicane”.
Qui si spiega il secondo obbiettivo del maxi-piano “democratico”: alzare il salario minimo a 15 dollari l’ora, aumentare l’occupazione interna, addirittura “ misure legislative volte a costruire il ‘potere dei lavoratori’ che serve per aumentare i salari ed assicurare più elevati benefit”.
Non c’è nulla di sorprendente o “progressista”, in questo. Anche i nazisti “conquistarono” la propria classe operaia garantendo salari alti e un potere d’acquisto in proporzione, “migliorabile” con la conquista degli “spazi vitali” a disposizione dei vicini (slavi, soprattutto).
Proprio come la “svolta verde” non ha nulla di “ambientalista”, ma molto di concorrenza feroce.
“La sfida è duplice: per un verso, si tratta di innovare i prodotti ed i processi nella manifattura, segmentando il mercato globale e quindi creando barriere tecniche all’importazione dei beni che hanno standard ambientali inferiori; dall’altra, si prevede di penalizzare con dazi all’importazione le produzioni straniere che, anche se rispettano i nuovi requisiti, siano state fabbricate utilizzando fonti energetiche fossili.
L’imposizione da parte americana di un “carbon adjustment fee” ai Paesi che non rispettano gli obblighi in materia di clima e di ambiente assicurerà una competizione equilibrata, forzandoli ad internalizzare i maggiori costi ambientali che proprio costoro ora stanno imponendo al resto del mondo.
Questo aggiustamento tariffario impedirà ai Paesi che inquinano di continuare a spiazzare con i loro minori costi ambientali ed energetici l’occupazione manifatturiera americana e la competitività delle imprese statunitensi. E, soprattutto, l’America chiuderà così il varco dell’insostenibile disavanzo commerciale strutturale.”
La guerra per mantenere l’egemonia si avvia ad utilizzare ora altre armi e chiude definitivamente, e anche in modo molto brusco, la breve era della “globalizzazione”.
I problemi, anche per gli Usa, non mancano. Questa logica “nazionalista egemonica” confligge con la libertà assoluta di cui le multinazionali di ogni settore hanno goduto per quasi 40 anni, e presuppone un loro ridimensionamento decisionale entro strategie concordate con lo Stato di riferimento.
Ma questo processo, allo stesso tempo, complica la loro possibilità di entrare in altri mercati. Così come gli aumenti salariali costringeranno ad un aumento dei prezzi finali tali da rendere il made in Usa quasi inaccessibile per compratori di aree con salari molto più bassi.
Il “vaso di coccio”, al momento, diventa l’Unione Europea. Una gabbia idiota, benché feroce, costruita da “strateghi della deflazione salariale e della competizione mercantilistica”.
Gente che voleva competere sui bassi salari, e che perciò è rimasta senza innovazione, senza ricerca scientifica, senza prospettive. E pure senza vaccini...
Fonte
Cina e Iran sulla Via della Seta
Il grado di efficacia delle politiche americane di “massima pressione” sull’Iran e di “contenimento” della Cina si è potuto ancora una volta osservare nel fine settimana a Teheran. Nella capitale della Repubblica Islamica, i ministri degli Esteri dei due paesi – Mohammad Javad Zarif e Wang Yi – hanno infatti finalizzato un importante accordo di “cooperazione strategica” che dovrebbe coprire il prossimo quarto di secolo e muovere potenzialmente risorse per ben 400 miliardi di dollari.
L’intesa era stata annunciata a inizio 2016 in occasione della visita a Teheran del presidente cinese, Xi Jinping, e la “road map” pubblicata allora elencava una ventina di argomenti che le trattative sulla “cooperazione” sino-iraniana sarebbero andate a toccare. Gli ambiti inclusi nell’accordo non erano solo quelli più ovvi delle infrastrutture e dell’energia, ma anche altri di più ampio respiro, dal “politico” al “culturale”, dal “tecnologico” fino alla “difesa e sicurezza”.
La fetta più importante riguarderà senza dubbio gli investimenti cinesi in Iran nei settori chiave per lo sviluppo di quest’ultimo paese e, in particolare, per la sua integrazione nei piani della “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI) di Pechino. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, ha parlato di un documento che getta le basi per la cooperazione “commerciale, economica e dei trasporti”, con un “focus particolare sui settori privati dei due paesi”. L’ambasciatore iraniano a Pechino, Mohammad Keshavarz-Zadeh, ha invece messo l’accento sui settori “tecnologico, industriale ed energetico”.
Il rilievo dato da entrambe le parti all’accordo è difficile da sovrastimare. Nelle dichiarazioni ufficiali si sono sprecati i riferimenti alla natura “definitiva” e “strategica” della partnership bilaterale, secondo il ministro Wang “per nulla condizionata dall’attuale situazione” internazionale. Il messaggio agli Stati Uniti e ai loro alleati in Europa e in Medio Oriente non potrebbe essere più chiaro. Per quanto Washington intenda cercare di isolare Teheran o, tutt’al più, di estorcere condizioni aggiuntive in cambio della riesumazione dell’accordo sul nucleare (JCPOA), la strada della collaborazione tra Cina e Iran è tracciata e non ci saranno ripensamenti.
Inoltre, prima dell’evento pubblico con il ministro Zarif, Wang si era intrattenuto con il presidente, Hassan Rouhani, e, a conferma del coinvolgimento dei massimi livelli della Repubblica Islamica, aveva definito i dettagli finali dell’accordo con Ali Larijani, consigliere della guida suprema, Ali Khamenei, nonché incaricato della gestione dei “rapporti strategici” con la Cina.
Oltre che per l’importanza strategica in sé, l’accordo firmato sabato a Teheran spicca anche per il contesto in cu si inserisce, quello appunto del continuo intensificarsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina. In questo senso rappresenta una delle più significative risposte di Pechino all’offensiva americana, accelerata da Trump e riproposta da Biden, ma iniziata già durante l’amministrazione Obama. Nello specifico, il suggello formale alla partnership sino-iraniana arriva poco dopo l’accesissimo incontro tra rappresentanti di Washington e di Pechino in Alaska, dove gli inviati cinesi avevano messo in chiaro la fermezza delle posizioni del loro paese e l’ineluttabilità delle scelte strategiche di fronte alle pressioni USA.
In precedenza, le intenzioni della Casa Bianca erano emerse nuovamente dal primo vertice dell’era Biden del cosiddetto “QUAD”, il meccanismo militare anti-cinese nell’area estremo-orientale che, oltre agli Stati Uniti, include India, Giappone e Australia. L’evento di Teheran si sovrappone in pratica anche alla recente visita del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, in Cina per riaffermare un’altra partnership strategica cruciale per Pechino e che ha avuto al centro proprio il coordinamento delle rispettive azioni per neutralizzare le iniziative americane, a cominciare dall’abbandono del dollaro nelle transazioni bilaterali.
In una parola e indipendentemente dagli ostacoli, l’accordo tra Cina e Iran, così come e ancora di più tra Cina e Russia, è un altro tassello dell’inevitabile movimento verso un sistema multipolare, nonostante gli sforzi degli Stati Uniti per impedire queste dinamiche. I progetti di collaborazione con Teheran offrono inoltre alla Cina un altro punto di appoggio in Medio Oriente, tanto più in relazione a un paese che per posizione geografica, popolazione, risorse e ricchezza culturale è uno snodo semplicemente cruciale delle rotte euroasiatiche che segneranno sempre più il ventunesimo secolo.
I vantaggi potenziali per l’Iran sono ancora più lampanti. Nell’immediato, la quasi alleanza con la Cina garantisce un mercato al proprio export petrolifero strozzato dalle sanzioni americane e l’afflusso di investimenti di cui il paese ha disperatamente bisogno. Nel medio periodo, invece, la possibilità di svolgere il ruolo di vero e proprio ponte tra i due continenti, con tutto ciò che comporta in termini di sviluppo infrastrutturale e tecnologico, negato dalle sanzioni occidentali e dal fallimento dell’accordo di Vienna (JCPOA).
Le politiche sempre più aggressive degli Stati Uniti per contrastare le minacce alla propria declinante posizione internazionale, in definitiva, continuano a produrre l’effetto contrario a quello desiderato. Ben lontani dal piegarsi e dal rinunciare alla propria indipendenza strategica, i paesi nel mirino di Washington, primo fra tutti la Cina, continuano a costruire rapporti basati sulla reciprocità e sul rispetto delle peculiarità nazionali, preferendo di gran lunga la promozione di progetti di sviluppo, neanche lontanamente avvicinabili dagli USA, rispetto alla coercizione, alle pressioni e alle partnership incentrate sull’elemento bellico e militare.
Fonte
L’intesa era stata annunciata a inizio 2016 in occasione della visita a Teheran del presidente cinese, Xi Jinping, e la “road map” pubblicata allora elencava una ventina di argomenti che le trattative sulla “cooperazione” sino-iraniana sarebbero andate a toccare. Gli ambiti inclusi nell’accordo non erano solo quelli più ovvi delle infrastrutture e dell’energia, ma anche altri di più ampio respiro, dal “politico” al “culturale”, dal “tecnologico” fino alla “difesa e sicurezza”.
La fetta più importante riguarderà senza dubbio gli investimenti cinesi in Iran nei settori chiave per lo sviluppo di quest’ultimo paese e, in particolare, per la sua integrazione nei piani della “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI) di Pechino. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, ha parlato di un documento che getta le basi per la cooperazione “commerciale, economica e dei trasporti”, con un “focus particolare sui settori privati dei due paesi”. L’ambasciatore iraniano a Pechino, Mohammad Keshavarz-Zadeh, ha invece messo l’accento sui settori “tecnologico, industriale ed energetico”.
Il rilievo dato da entrambe le parti all’accordo è difficile da sovrastimare. Nelle dichiarazioni ufficiali si sono sprecati i riferimenti alla natura “definitiva” e “strategica” della partnership bilaterale, secondo il ministro Wang “per nulla condizionata dall’attuale situazione” internazionale. Il messaggio agli Stati Uniti e ai loro alleati in Europa e in Medio Oriente non potrebbe essere più chiaro. Per quanto Washington intenda cercare di isolare Teheran o, tutt’al più, di estorcere condizioni aggiuntive in cambio della riesumazione dell’accordo sul nucleare (JCPOA), la strada della collaborazione tra Cina e Iran è tracciata e non ci saranno ripensamenti.
Inoltre, prima dell’evento pubblico con il ministro Zarif, Wang si era intrattenuto con il presidente, Hassan Rouhani, e, a conferma del coinvolgimento dei massimi livelli della Repubblica Islamica, aveva definito i dettagli finali dell’accordo con Ali Larijani, consigliere della guida suprema, Ali Khamenei, nonché incaricato della gestione dei “rapporti strategici” con la Cina.
Oltre che per l’importanza strategica in sé, l’accordo firmato sabato a Teheran spicca anche per il contesto in cu si inserisce, quello appunto del continuo intensificarsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina. In questo senso rappresenta una delle più significative risposte di Pechino all’offensiva americana, accelerata da Trump e riproposta da Biden, ma iniziata già durante l’amministrazione Obama. Nello specifico, il suggello formale alla partnership sino-iraniana arriva poco dopo l’accesissimo incontro tra rappresentanti di Washington e di Pechino in Alaska, dove gli inviati cinesi avevano messo in chiaro la fermezza delle posizioni del loro paese e l’ineluttabilità delle scelte strategiche di fronte alle pressioni USA.
In precedenza, le intenzioni della Casa Bianca erano emerse nuovamente dal primo vertice dell’era Biden del cosiddetto “QUAD”, il meccanismo militare anti-cinese nell’area estremo-orientale che, oltre agli Stati Uniti, include India, Giappone e Australia. L’evento di Teheran si sovrappone in pratica anche alla recente visita del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, in Cina per riaffermare un’altra partnership strategica cruciale per Pechino e che ha avuto al centro proprio il coordinamento delle rispettive azioni per neutralizzare le iniziative americane, a cominciare dall’abbandono del dollaro nelle transazioni bilaterali.
In una parola e indipendentemente dagli ostacoli, l’accordo tra Cina e Iran, così come e ancora di più tra Cina e Russia, è un altro tassello dell’inevitabile movimento verso un sistema multipolare, nonostante gli sforzi degli Stati Uniti per impedire queste dinamiche. I progetti di collaborazione con Teheran offrono inoltre alla Cina un altro punto di appoggio in Medio Oriente, tanto più in relazione a un paese che per posizione geografica, popolazione, risorse e ricchezza culturale è uno snodo semplicemente cruciale delle rotte euroasiatiche che segneranno sempre più il ventunesimo secolo.
I vantaggi potenziali per l’Iran sono ancora più lampanti. Nell’immediato, la quasi alleanza con la Cina garantisce un mercato al proprio export petrolifero strozzato dalle sanzioni americane e l’afflusso di investimenti di cui il paese ha disperatamente bisogno. Nel medio periodo, invece, la possibilità di svolgere il ruolo di vero e proprio ponte tra i due continenti, con tutto ciò che comporta in termini di sviluppo infrastrutturale e tecnologico, negato dalle sanzioni occidentali e dal fallimento dell’accordo di Vienna (JCPOA).
Le politiche sempre più aggressive degli Stati Uniti per contrastare le minacce alla propria declinante posizione internazionale, in definitiva, continuano a produrre l’effetto contrario a quello desiderato. Ben lontani dal piegarsi e dal rinunciare alla propria indipendenza strategica, i paesi nel mirino di Washington, primo fra tutti la Cina, continuano a costruire rapporti basati sulla reciprocità e sul rispetto delle peculiarità nazionali, preferendo di gran lunga la promozione di progetti di sviluppo, neanche lontanamente avvicinabili dagli USA, rispetto alla coercizione, alle pressioni e alle partnership incentrate sull’elemento bellico e militare.
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A che punto è la notte americana tra Maga 2.0, crisi del Gop e Qanon
La forza e la potenza di una nazione si misurano in genere nei momenti di cosiddetta emergenza. L’America non fa eccezione, ed è percorsa ormai da tempo da una crisi di egemonia mondiale di enorme portata e di difficilissima gestione.
L’esperienza e la maestria nello sfruttare uno stato d’emergenza permanente e strutturale, che attraversa da sempre la storia degli USA, ha però permesso loro di mettere in campo gli strumenti necessari per consentirle di gestire una situazione anomala anche per la potenza d’oltreoceano.
È indispensabile dimostrare al proprio elettorato che la classica forza di reazione statunitense è ancora l’arma vincente, che il pragmatismo della nazione a stelle-e-strisce sul quale poggia la più gran parte dell’“american way of life”, è la soluzione, e che insostituibile è la potenza che risiede nel denaro e nell’impianto privatistico di una nazione.
Donald J. Trump possiede per definizione tutti questi strumenti. Almeno sembra, a metà paese.
Ma anche il paese delle opportunità, e del “destino manifesto”, ha i suoi scheletri nell’armadio e anche se l’ex presidente, il tycoon Donald Trump, ha tanti difetti gli si può anche riconoscere un “pregio”: ha scoperchiato un vaso di Pandora che sta mettendo sempre più in contraddizione, ed in crisi conseguente, il GOP, lo storico Partito Repubblicano, il suo stesso schieramento di appartenenza.
Ma non sembra un padre interessato all’infanticidio.
Di fatto, dietro questo stallo, l’uomo che ha guidato il paese negli ultimi quattro anni percepisce un proprio tornaconto, e cela un disegno.
Fra continue schermaglie interne, accuse di tradimento e continui abboccamenti ai gruppi più estremisti, il progetto di Trump potrebbe andare in porto forse anche prima del previsto. Il suo primo orizzonte potrebbero essere già le elezioni di midterm del 2022.
Si fanno molte ipotesi su chi saranno i protagonisti dei prossimi momenti nevralgici per la politica americana, i ticket con questo o quel “politico del momento” si sprecano, ma The Donald è persona senza scrupoli, molto machiavellico, pronto a sacrificare o sfruttare chiunque per il “bene della nazione”, per la ragion di Stato. O magari solo per se stesso.
Sembra perciò sempre più probabile che l’uomo destinato a guidare l’offensiva verso l’amministrazione Biden sia proprio il tycoon.
L’esperienza e la maestria nello sfruttare uno stato d’emergenza permanente e strutturale, che attraversa da sempre la storia degli USA, ha però permesso loro di mettere in campo gli strumenti necessari per consentirle di gestire una situazione anomala anche per la potenza d’oltreoceano.
È indispensabile dimostrare al proprio elettorato che la classica forza di reazione statunitense è ancora l’arma vincente, che il pragmatismo della nazione a stelle-e-strisce sul quale poggia la più gran parte dell’“american way of life”, è la soluzione, e che insostituibile è la potenza che risiede nel denaro e nell’impianto privatistico di una nazione.
Donald J. Trump possiede per definizione tutti questi strumenti. Almeno sembra, a metà paese.
Ma anche il paese delle opportunità, e del “destino manifesto”, ha i suoi scheletri nell’armadio e anche se l’ex presidente, il tycoon Donald Trump, ha tanti difetti gli si può anche riconoscere un “pregio”: ha scoperchiato un vaso di Pandora che sta mettendo sempre più in contraddizione, ed in crisi conseguente, il GOP, lo storico Partito Repubblicano, il suo stesso schieramento di appartenenza.
Ma non sembra un padre interessato all’infanticidio.
Di fatto, dietro questo stallo, l’uomo che ha guidato il paese negli ultimi quattro anni percepisce un proprio tornaconto, e cela un disegno.
Fra continue schermaglie interne, accuse di tradimento e continui abboccamenti ai gruppi più estremisti, il progetto di Trump potrebbe andare in porto forse anche prima del previsto. Il suo primo orizzonte potrebbero essere già le elezioni di midterm del 2022.
Si fanno molte ipotesi su chi saranno i protagonisti dei prossimi momenti nevralgici per la politica americana, i ticket con questo o quel “politico del momento” si sprecano, ma The Donald è persona senza scrupoli, molto machiavellico, pronto a sacrificare o sfruttare chiunque per il “bene della nazione”, per la ragion di Stato. O magari solo per se stesso.
Sembra perciò sempre più probabile che l’uomo destinato a guidare l’offensiva verso l’amministrazione Biden sia proprio il tycoon.
...Have you ever seen the President who killed your wounded child?
Or the man that crashed your sisters plane claimin’ he was sent of god?
And when she died in your arms, late that night in the dark,
Did you pray to your God to come home?
‘Cause it ain’t fair to say, that these tracks are the same
So god if you can hear me crash this train
Said god if you can hear me crash this train
Now a note to the President, and the Government, and the judges of this place
We’re still waitin’ for you to bring our troops home, clean up that mess you made
‘Cause it smells of blood and money across the Iraqi land
But its so easy here to blind us with your “United we stand”
And it ain’t hard to see that this country ain’t free
So god if you can hear me crash this train
Said god if you can hear me crash this train...
Joshua James, Crash This Train
Or the man that crashed your sisters plane claimin’ he was sent of god?
And when she died in your arms, late that night in the dark,
Did you pray to your God to come home?
‘Cause it ain’t fair to say, that these tracks are the same
So god if you can hear me crash this train
Said god if you can hear me crash this train
Now a note to the President, and the Government, and the judges of this place
We’re still waitin’ for you to bring our troops home, clean up that mess you made
‘Cause it smells of blood and money across the Iraqi land
But its so easy here to blind us with your “United we stand”
And it ain’t hard to see that this country ain’t free
So god if you can hear me crash this train
Said god if you can hear me crash this train...
Joshua James, Crash This Train
La Convention di Orlando
Il futuro del GOP (o Grand National Party, il Partito Repubblicano USA) e i progetti politici del tycoon Donald Trump sono sostanzialmente tutti nel discorso tenuto dall’ex presidente alla Convention del CPAC (Conservative Political Action Conference), il più imponente ed influente raduno di attivisti conservatori, che si è svolta ad Orlando, in Florida alla fine del mese scorso. Il primo evento ufficiale cui l’ex presidente ha partecipato dopo aver lasciato la Casa Bianca.
Dopo circa un mese, una sintesi a “bocce ferme”, è quindi opportuna e magari illuminante.
La polemica è iniziata subito, pochi giorni prima dell’inizio della conferenza, e si è concentrata sul design del palco realizzato proprio per la Convention dei conservatori. “Sembra un simbolo nazista”, hanno criticato in molti, facendo notare come il disegno ricordi non proprio una svastica, piuttosto la runa Odal che durante la seconda guerra mondiale appariva sui vessilli e le uniformi della Settima divisione volontari di montagna delle SS ‘’Prinze Eugen’’, un reparto di fanteria che operò nella ex Jugoslavia.
Il termine Odal deriva dall’antica lingua germanica e significa “patrimonio”, “eredità”. Gli organizzatori del CPAC negano quella che liquidano come “una calunnia, una teoria cospirazionista oltraggiosa e diffamatoria”. “I nostri legami con la comunità ebraica sono di vecchia data e gli estremisti della ‘cancel culture’ devono guardare all’antisemitismo presente dalla loro parte”, il commento di Matt Schlapp, presidente e organizzatore del CPAC.
Tuttavia, note di “colore” a parte, se si effettua un monitoraggio delle azioni e reazioni di alcuni personaggi politici messe in campo nelle settimane a seguire, e si osservano alcuni avvenimenti che si sono susseguiti, il tutto lascia trasparire una certa aria di imbarazzo, di confusione, in sintesi di crisi interna al Partito conservatore.
È qualcosa che odora anche del profumo della vendetta, una resa dei conti che porta il numero 2024, la data delle prossime presidenziali USA.
La platea era formata dal “suo” pubblico, e gli invitati che hanno sfilato erano i fedelissimi: l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, la governatrice del South Dakota, Kristi Noem, e il senatore dello Stato della stella solitaria, il Texas, Ted Cruz. Gli altri, neanche invitati, sono rimasti all’asciutto, a Washington.
È questo il caso di Nikki Haley, l’ex ambasciatrice americana all’Onu e papabile come contendente per la Casa Bianca nel 2024, di cui abbiamo già scritto dopo la sua intervista rilasciata a Politico, nella quale prendeva le distanze dall’ex presidente per l’assalto al Congresso, per poi azzardare in seguito, un avvicinamento alla sua base che ha scatenato una forte reazione da parte del tycoon.
Anche Liz Cheney, terza carica del GOP alla Camera, da sempre critica con l’ex presidente, è finita nell’inceneritore dopo le dichiarazioni al vetriolo all’indirizzo di The Donald quando, dopo aver affermato che “Dopo i fatti del 6 gennaio ritengo che non dovrebbe giocare [Donald Trump N.d.R.] alcun ruolo nel futuro del partito e del paese”, suggerì di fatto alla CPAC di non invitare Trump.
Per tutta risposta il deputato Rep. dell’Arizona, Andy Biggs (guarda caso tra gli speaker della CPAC), ha tuonato che proprio la Cheney “dovrebbe dimettersi”.
Queste alcune delle prese di posizione dell’ala detrattrice di The Orange che, vale la pena ricordare, è fortemente minoritaria all’interno del partito conservatore, rilevate in questi ultimi giorni ed a margine della convention.
Di altro avviso l’ala dei conservatori più moderata e considerata da The Donald come quella dei “traditori”, soprattutto i parlamentari che lo scorso gennaio hanno votato per la condanna del tycoon nel processo di impeachment e che si è espressa obtorto collo.
Più discreto e defilato è apparso Mitch McConnell, leader di minoranza al Senato e con una fama da abile stratega alle spalle; fiutando l’aria che tirava, dopo i rilievi è corso ai ripari: “Se Trump si candidasse, lo voterei”.
Così anche l’ex vice presidente Mike Pence, altro grande assente alla CPAC: dice di aver declinato l’invito ma assicura di avere un “ottimo rapporto” con il suo ex capo.
“Se Trump puntasse alla nomination repubblicana, sicuramente la otterrebbe”, prevede, da parte sua anche se a malincuore, Mitt Romney, l’ex candidato repubblicano alla presidenza, stella del summit conservatore nel 2012.
L’atteso intervento di Trump ad Orlando invece ha riguardato principalmente la sua corsa per il 2024.
“Vi sono mancato?”, ha esordito l’ex presidente, con un manifesto tono stucchevole. “Il nostro viaggio iniziato insieme, 4 anni fa, è ben lontano dall’essere finito”.
Ha quindi continuato con un attacco senza precedenti contro Sleepy Joe Biden, mantenendo i toni enfatici e sopra le righe che da sempre contraddistinguono il suo personaggio e hanno definito la sua presidenza, infarcendo il tutto di una buona dose di retorica che non fa mai male, e ricordando soprattutto alla platea che “Tutti sapevamo che sarebbe andata male, ma nessuno di noi immaginava così male”.
Durante l’intervento il tycoon ha accusato il presidente democratico di aver riaperto i confini con il Messico favorendo l’immigrazione clandestina e mettendo a repentaglio la sicurezza del paese. “A centinaia di potenziali terroristi e criminali è stato permesso di entrare negli Stati Uniti”, arrivando ad affermare che Sleepy Joe “Ha cancellato la sicurezza dei nostri confini e sta trasformando il nostro Paese in una ‘nazione santuario'”.
Il neo presidente avrebbe inoltre distrutto posti di lavoro e danneggiato l’economia. “Nel giro di nemmeno un mese, siamo passati da America first ad America last. Joe Biden ha vissuto il peggior primo mese da presidente nella storia moderna”.
Trump si è poi attribuito il successo della campagna di vaccinazione contro il coronavirus in Amerika. “Joe Biden sta solo attuando il mio piano”, ha dichiarato. I tre vaccini approvati “sono un miracolo della mia amministrazione”, rivendica Trump, ricordando l’operazione Warp Speed da lui messa in piedi, e gli investimenti miliardari nella ricerca e produzione di sieri contro il Covid-19.
Il tycoon ha quindi puntato il dito contro l’amministrazione Biden anche per aver “venduto i ragazzi americani ai sindacati degli insegnanti”. Biden “ha vergognosamente tradito i giovani americani tenendoli chiusi a chiave in casa. Chiedo a Biden” – dice – “di aprire le scuole e di farlo subito”.
Addirittura lo sport, ed i record delle donne, con il benestare del nonno d’Amerika, sarebbero minacciati dalla presenza dei transgender, grazie alla permissiva amministrazione democratica.
Non ha risparmiato neanche i giganti della tecnologia e ha proseguito sostenendo che “Bisogna punire Big Tech e i social media, da Twitter a Facebook, quando silenziano la voce dei conservatori. E se non lo fa il governo federale lo devono fare i singoli Stati“, sottolineando come gli USA devono difendere la libertà di espressione e di parola.
Un attacco non casuale, visto che l’ex presidente è stato “bannato” dai principali social networks. Pizzica le corde del GOP sull’amore per l’Amerika e per la bandiera e difende a spada tratta il Secondo Emendamento, il diritto a portare armi.
Non ha dimenticato di rilanciare le sue accuse sulla tornata elettorale, dichiarando come un disco rotto che “…Queste elezioni sono state truccate… Hanno cambiato l’esito del voto… Una vergogna…Gli abusi del 2020 non devono accadere mai più, non dobbiamo più permetterlo…” Per terminare con un una sorta di self endorsement: “Potrei anche decidere di batterli per la terza volta…”, dando per scontato, come ha sempre sostenuto, che la seconda “vittoria” gli sia stata rubata con i brogli elettorali del 2020.
Quanto alla ricandidatura nel 2024, “...rimanete in ascolto...”, ha annunciato, esprimendo in modo chiaro la volontà di non ritirarsi: "Potrei candidarmi di nuovo”.
Fra sondaggi e “rivelazioni”.
Poco prima del discorso dell’ex presidente Usa, sono stati resi noti i risultati del tradizionale “straw poll’’ (un informale sondaggio d’opinione) che ogni anno chiude i lavori della CPAC.
Il partito ha assegnato una schiacciante vittoria a Donald Trump: tra i possibili candidati repubblicani per le presidenziali del 2024, il 55% dei presenti alla kermesse ha espresso la sua preferenza per l’ex presidente, il cui gradimento complessivamente si attesta al 97%. Nel sondaggio fatto dagli elettori conservatori presenti alla convention di Orlando quindi, la stragrande maggioranza sta con lui; in fondo è una non notizia.
Il 21% ha votato per il governatore della Florida Ron De Santis, astro nascente del partito repubblicano, e il 4% per la governatrice del South Dakota, Kristi Noem, entrambi comunque sostenitori di Trump.
Secondo i risultati di una recente ed interessante ricerca effettuata dal Pew Research Center *, l’ala conservatrice di un partito richiede ai propri leader una lealtà al partito stesso molto più forte di quella che potrebbe essere richiesta da uno schieramento liberale o comunque più moderato.
In sintesi, la ricerca analizzava quanto e come fosse percepito, fra i membri del Congresso, un eventuale sentimento di consenso o disapprovazione ad un proprio leader (come ad esempio nel caso dell’impeachment a Donald Trump), sia all’interno del partito di riferimento, che comparato fra Partito Democratico e Partito Repubblicano.
Nello specifico, era accettabile che un qualsiasi leader di partito fosse schierato con un punto di vista che confliggeva con la visione del partito medesimo, e, se sì, fino a che punto?
Come spesso succede, quando cose evidenti vengono guardate ma non sempre viste, dalle conclusioni dello studio derivano alcune ovvietà che spesso sfuggono, ma che svelano delle realtà che altrimenti passerebbero inosservate: nel Partito Democratico, per sua natura “riformista” e “progressista” e quindi più incline al “dissenso”, anche se inteso in senso molto lato, sono i democratici dell’ala più liberale, e non quelli più “radicali” o i repubblicani quelli che criticano con più facilità un comportamento inopportuno, sopra le righe, quando è ritenuto un dovere vincolante di un rappresentante delle istituzioni come è un presidente degli Stati Uniti, o una carica dello Stato. Mentre su temi più generali, più “leggeri”, i moderati repubblicani e quelli democratici si equivalgono.
D’altra parte, i repubblicani moderati sono quelli che, pur non controllando il Partito (il GOP infatti viene gestito soprattutto dai conservatori più radicali), si schierano generalmente a favore del dissenso nei confronti di un Presidente, molto semplicemente perché a loro volta, sono lontani dalla visione più tradizionalista del Partito di riferimento.
Ne discende che queste scelte dipendono da chi detiene il potere nel partito, ergo: il controllo di entrambi i partiti USA è riservato allo schieramento moderato.
Che in questo momento sta vivendo un periodo di forte crisi di identità politica, effetto della crisi del concetto di “politically correct”.
La divisione dei Repubblicani, però, non si è fermata ai soli membri del Congresso ed è arrivata a coinvolgere anche gli elettori. Un recente sondaggio condotto da Politico, infatti, mostra che il 59% degli elettori repubblicani vorrebbe che Trump “avesse un ruolo prominente” nel futuro del partito, mentre il 54% sarebbe disposto ad “appoggiarlo alle prossime primarie presidenziali”.
Nonostante la deludente sconfitta delle ultime presidenziali, dunque, Donald Trump continua a tenere fra le mani il destino del Partito Repubblicano, che fatica a trovare nuovi leader capaci di guidare questa fase di transizione.
Trump punta a guidare il GOP alla riscossa fino alle elezioni di medio termine. Ci riuscirà? Stando a un sondaggio (della Quinnipiac University), tre repubblicani su quattro vogliono che giochi un ruolo di primo piano nel partito.
Tra questi c’è il senatore Lindsey Graham: “Se seguiamo il presidente Trump, vinciamo nel 2022, se ci dividiamo, perderemo di sicuro”, ha dichiarato.
Il tycoon ha quindi posto condizioni zero: o il candidato alle elezioni del 2024 è lui o lo sceglierà lui. È la dura legge del consenso, e ancora una volta la prova della piazza (materiale e virtuale) premia Trump. Lo ha ricordato lui stesso quando, parlando di sé in terza persona, ha snocciolato i 75 milioni di voti “conquistati dall’incumbent”.
Il suo intento è congelare la partita in favore della propria nomination, coltivando fino in fondo la sua vendetta contro i repubblicani che non gli sono rimasti fedeli; gli effetti nei sondaggi già si sentono, basta guardare alle quotazioni del governatore della Florida Ron De Santis – una delle poche figure politiche in ascesa – comparandole a quelle di Marco Rubio, in rapida discesa.
Poi ha dettato la linea al Grand Old Party: “La missione del nostro movimento e del partito repubblicano è creare un futuro con buoni posti di lavoro, famiglie forti, comunità sicure, una cultura vibrante e una grande nazione per tutti“, ricordando che il GOP è un partito fondato sull'”amore per l’Amerika”, che difende la bandiera ed è contro la “cancel culture”.
Il GOP di The Donald “Orange” Trump sarà decisamente un partito spostato definitivamente e fortemente a destra. Un GOP, a cui imporrà la sua linea aiutato dalla forza del proprio elettorato e degli appoggi interni al partito ancora entrambi molto forti.
La crisi di identità politica del GOP
Il partito repubblicano è a un bivio ma la battaglia per le elezioni di medio termine è già iniziata.
Nella sua prima uscita pubblica da ex presidente, Trump ha accantonato l’idea di lanciare un nuovo progetto politico, (indiscrezioni alludevano ad un MAGA 2.0) rinforzando la propria presa sul Partito Repubblicano e, confidando in un brand più che affidabile, aprendo alla possibilità di candidarsi per un altro mandato nel 2024.
Dopo la sconfitta alle ultime presidenziali, infatti, il GOP si trova alle prese con un’aspra divisione interna fra i sostenitori del tycoon e l’ala più moderata del partito, che al momento si trova in netta minoranza.
Ma secondo gli elettori repubblicani, pur convenendo nel gran rilievo di persone come Marjorie Taylor Greene, il GOP e il centro dell’universo repubblicano sono una persona sola: Donald Trump.
L’avviso a Biden è che le speranze di dividere i repubblicani sono in realtà minime, l’avvertimento agli avversari interni è che la loro rielezione passa per il detto e non detto di The Donald. Quando fa l’elenco dei nemici del GOP, scandisce i nomi con precisione chirurgica, li accusa di tradimento, di intelligenza con il nemico democratico: “bisogna liberarsene”.
Sei con me e sei eletto, sei contro di me e vai a casa: “Il mio endorsement è un potente strumento politico”.
Il suo più grande avversario tra i democratici, il governatore di New York Andrew Cuomo, è in difficoltà, rimasto impigliato nelle accuse di sessismo al punto da fare una dichiarazione di scuse proprio durante lo show di Trump. Il sindaco di New York Bill De Blasio è contestato dai circoli Dem della Grande Mela per la gestione dei lockdown, e “Chuck” Schumer, senatore dello stesso Stato, ha una leadership traballante.
Resta invece salda la navigatissima Nancy Pelosi, ma il gruppo progressista è a dir poco effervescente e ha chiesto alla Casa Bianca spiegazioni sul bombardamento del Pentagono in Siria. L’amministrazione Biden può vantare una campagna di vaccinazione galoppante, ma anche qui Trump ha sfoderato le frecce per il suo arco: “Ho investito miliardi nei vaccini, con quello di Johnson & Johnson ne abbiamo tre e la produzione è merito mio“. Biden “sta solo attuando il mio piano“.
Segnali dal futuro? Intanto l’emersione ormai chiara dell’italo americano Ron De Santis, come nuova star dei repubblicani.
Il governatore della Florida ha tenuto botta durante l’emergenza Covid-19, con il lockdown duro non ha chiuso le attività economiche, ha applicato una ricetta fatta di conservatorismo e pragmatismo, e oggi appare il numero due dopo Trump, nel GOP. Tutto questo a molti fa pensare a un ticket Trump-De Santis per il 2024, e forse dopo la performance di Trump alla Convention di Orlando non è un’ipotesi troppo lontana dalla realtà.
Entrambi vengono dal Sunshine State, sono aperturisti, contro l’establishment washingtoniano del partito, amati dalla base che ha in Rush Limbaugh (il conduttore radiofonico scomparso qualche settimana fa) un suo riferimento culturale.
Altri bagliori dal domani? La manovra chiara di Trump per assicurarsi il controllo totale del GOP rimane l’unica certezza: “Non farò un nuovo partito, è una fake news. C’è il GOP, sarà unito e più forte che mai“.
Il solco è tracciato. La sintesi: elezioni di midterm nel 2022 e poi, nel caso di un ribaltone alla Camera e al Senato, la strambata di nuovo verso la Casa Bianca tra quattro anni. Le primarie? Per ora sono una formalità. In fondo, il nuovo inizio dei repubblicani ha un titolo, la frase con cui Trump ha aperto il suo primo discorso da ex presidente: “Vi sono mancato?”.
QAnon e le milizie della destra estrema
La marcata presenza di Trump nella realtà politica d’America è sicuramente un fatto.
Il riconoscimento di Trump come alfiere e paladino dei valori della tradizione amerikana, e più specificamente di tutto il ciarpame razzista che ruota intorno ai gruppi wasp (anglosassoni bianchi e protestanti), da parte di una consistente fascia di popolazione fortemente legata a questi principi, è un altro fatto.
E l’assalto alla sede del Congresso USA di Capitol Hill il 6 gennaio scorso ne è la prova tangibile.
A tre mesi da quell’assalto le inchieste continuano, e non accennano a diminuire episodi che allarmano fortemente le forze federali e di l’intelligence interna.
E se l’FBI e la Homeland si muovono vuol dire che qualcosa bolle in pentola; si moltiplicano infatti i report nazionali che dimostrano il tentativo di riorganizzazione di gruppi estremisti e di milizie armate di destra.
Le forze di intelligence hanno addirittura cancellato la seduta del Congresso del 4 marzo scorso perché erano trapelate notizie di un probabile nuovo tentativo di assalto alla sede di Washington da parte, nel caso specifico, di un gruppo collegato ai complottisti di QAnon.
La cosa ha scatenato l’ira di diversi senatori di entrambi gli schieramenti, i quali hanno dichiarato di non volersi piegare davanti a quello che ritengono essere un ricatto bell’e buono: “Il Congresso non può permettersi di farsi bullizzare da quattro esaltati”.
Le inchieste continuano e attraverso le riprese video sono stati identificati molti degli assalitori. Si sta invece ancora cercando il presunto uomo che è stato ripreso da una telecamera mentre depositava una borsa con dell’esplosivo davanti alle sedi dei due partiti (Dem e Rep); come si dice, per non far torto a nessuno.
Il tenore degli interventi nei social di riferimento della estrema destra miliziana, monitorati di continuo, e che l’ex presidente continua a blandire, è tutt’altro che pacifico; nei giorni scorsi l’Intelligence interna ha dichiarato uno stato d’emergenza ad alto rischio per violenze a livello nazionale per tutto il 2021, dichiarando ufficialmente che il tono “very aspirational” (molto ambizioso, con aspirazioni ed obiettivi auspicabili) che filtra dagli ambienti eversivi e dai propri organi di riferimento e che attraversa il paese, non promette “nulla di buono”.
È stato approvato dal Congresso l’aumento del contingente della Guardia Nazionale e posticipata la data di fine ingaggio di altri 60 giorni.
Altre sei persone membri degli Oath Keepers sono state incriminate per l’assalto al Congresso, fra cui Kelly Meggs, autonominatosi leader della sezione della Florida e sua moglie. Sembra stessero collaborando con altri “patrioti” arrestati in differenti parti del paese, segno che la rete è abbastanza ramificata un po’ ovunque.
Il leader dei Proud Boys, esule cubano anticastrista ed ex (?) informatore dell’FBI, fa sapere attraverso Telegram che “l’organizzazione, anche se percorsa da qualche piccola incrinatura interna, non ha nessuna intenzione di spaccarsi e sarà sempre al fianco del partito dei Patrioti, che non potrà avere un’altra guida se non quella di Donald Trump”.
Tuttavia non è solo per ragioni di orgoglio o per personalismi egotici che The Donald non abbandonerà la base più estremistica rappresentata da questi gruppi, vicini al suprematismo bianco e dalle milizie armate; si avvarrà della loro cooperazione, sì, per ragioni di comodo, quanto per evidenti aiuti di tipo strettamente “militare” ritenendo il loro appoggio utile, in un futuro non ben definibile nel tempo.
Molto probabilmente cercherà di trovare un punto di equilibrio, altalenando, secondo convenienza, aperto sostegno ed affrancamento non completamente sincero. In perfetto stile “Principe” del Machiavelli.
Esauriti, per dovere di cronaca, gli aggiornamenti sulle novità dal fronte della destra estrema, è sicuramente indispensabile focalizzare l’attenzione sui passi dell’ex presidente, per cementare la sua leadership all’interno del GOP.
Il potere del denaro è immenso ed è alla base della crescita del Capitale.
Secondo indiscrezioni del Washington Post di alcuni giorni addietro, il tycoon ha dato alla luce una nuova creatura, la “Save America PAC”, un’entità interamente controllata dallo stesso Trump, una sorta di piattaforma per incassare denaro e farlo poi pervenire nel proprio progetto politico. Molti contributi erano già confluiti nel GOP attraverso il comitato per la campagna di rielezione, ma è soltanto dopo l’istituzione della “Save America” che l’ex presidente ha potuto entrare in possesso di una cifra notevole di denaro da aggiungere al resto: 31.5 milioni dollari. Una discreta cifretta.
Il passo subito successivo, che ha palesato nelle dichiarazioni della CPAC, sarà quello di “fidelizzazione” dei suoi alleati più conservatori, compito facile apparentemente, ma anche di quelli che lui ritiene essere gli “infedeli”. Si profila un’epurazione o un’indispensabile flessione alla sua linea. Viene in mente la “notte dei lunghi coltelli” del 30 giugno 1934 nella cittadina bavarese di Bad Wiessee in Germania. Dopotutto le sue origini familiari sono di ceppo germanico.
Ma quello era un altro secolo.
Di sicuro il tycoon vuole difendere il GOP, la “tradizione della famiglia” va mantenuta, e sarebbe troppo dispersivo e quindi pericoloso fondare un nuovo partito. Parole sue.
Anche se la Storia, in fondo, ci ha insegnato che le “giacche blu” parlano sempre con lingua biforcuta.
Note:
* Il Pew Research Center è un think tank statunitense con sede a Washington che fornisce informazioni su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici relativi agli Stati Uniti ed al mondo in generale. Conduce sondaggi tra l’opinione pubblica, ricerche demografiche, analisi sul contenuto dei media, e altre ricerche nel campo delle scienze sociali empiriche. Non prende esplicitamente posizioni politiche.
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