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04/07/2018

Il giornalista combattente. Intervista a Claudio Locatelli

Claudio Locatelli, trenta anni, originario di Curno in provincia di Bergamo, è uno dei combattenti internazionali arruolatisi tra le fila curde dello Ypg per lottare contro l’Isis. E’ stato tra i liberatori di Raqqa in Siria: armi in pugno ha affrontato i miliziani del Califfato e quando ha potuto ha filmato scene di combattimento, fornendo così anche una preziosa testimonianza giornalistica diretta sul campo. E’ stato a Tabqa che lo hanno chiamato il “giornalista – combattente”. E’ anche autore del libro “Nessuna resa”, scritto in collaborazione con Alberto Marzocchi e continua a divulgare e a sensibilizzare la causa contro la mentalità del terrore, la resistenza curda e la rivoluzione in Rojava su questa pagina.

Locatelli, da cosa è nata questa drastica scelta di arruolarsi con i curdi per combattere i jihadisti in Medioriente?

In primo luogo per un discorso di coerenza: non possiamo sempre affermare di essere contro i mali del mondo e poi non fare niente a riguardo. Bisogna in primo luogo mettere le mani nel fango, calarsi in prima linea. Per cambiare le cose bisogna adoperarsi in prima persona, affrontare i problemi: considera che sono già stato ad esempio sul fronte del terremoto ad Amatrice, prima ancora in Emilia e in Abruzzo e in Veneto a seguito dell’alluvione. La seconda motivazione è di ordine più emozionale: nel 2014 c’è stato quella grossa ondata di violenze che poi si è trasformata in un genocidio a danno delle donne yazide. Mi hanno molto colpito le immagini trasmesse dai tg dove stava un intero popolo a Shengal, città incastonata nell’omonima regione montuosa nell’Iraq, attaccata dall’ Isis. Dopodiché nel 2015 sono andato come osservatore internazionale, durante il newroz, festività curda, a Diyarbakir la capitale curda della Turchia e li ho incontrato nei campi yazidi intere famiglie di profughi, a cui però mancavano le figlie. Queste erano state rapite e costrette a diventare le famose schiave del sesso degli uomini del Califfato, adatte solo al piacere di quelle bestie: per me tutto questo era intollerabile. Quel modo di pensare, l’idea che esistessero ancora realtà organizzate che vedessero le donne come oggetti, come realtà secondarie per me non era più accettabile. Tali motivazioni mi hanno spinto a rischiare la vita in prima persona. Però ci tengo a precisare che l’Isis non è solo un gruppo terroristico. Isis è fascismo, è sessismo, è radicalismo religioso, è l’idea che si possa utilizzare la violenza in politica, insomma tutte cose quelle contro cui ho sempre combattuto in vita mia, chiaramente non col kalashnikov in mano, mentre in Siria era un dovere farlo anche in quel modo.

Perché è stato così affascinato dalla causa curda e in particolare dallo Ypg?

Oltre a combattere contro qualcosa bisogna sempre combattere per qualcosa: diciamoci la verità, io non sarei sceso a rischiare la mia vita solo per combattere l’Isis, l’ho fatto anche per portare qualcosa di meglio. Le Ypg ,le Ypj, le unità femminili e le unità maschili della prima resistenza di Kobane nel 2015, sono forse il motivo principale per cui ho deciso di combattere. Sono state e sono tuttora una speranza per tutto il mondo. Quando il 17 ottobre 2017 Raqqa è caduta, non c’è una persona al mondo che non abbia gioito, che non fosse stata orgogliosa per il sangue delle mie compagne e dei miei compagni caduti per liberarla e per liberare dunque il mondo intero. La causa curda si innesta in questo: i curdi sono il primo popolo oppresso, senza territorialità, hanno dato tutto per noi. Ricordo che la loro battaglia contro l’Isis è una battaglia per tutto il mondo. In più c’è la rivoluzione per le donne, una rivoluzione che il popolo curdo in Rojava sta portando avanti con determinazione e forza.

Attualmente i riflettori dei media sugli accadimenti siriani sembrano essersi oscurati come se l’Isis fosse stato definitivamente sconfitto, eppure ci sono ancora combattimenti in corso, giusto?

Esatto, assolutamente! Prima di tutto vorrei ricordare che l’Isis non è sconfitto come mentalità, infatti in primo luogo è un modo di pensare. Un modo oltranzista che vorrebbe la donna solo ai fornelli, un atteggiamento, una visione delle cose che chiunque anche tra noi può assumere. Ricordo che i terroristi europei che si sono uniti all’Isis, spesso persone disadattate, erano soggetti con quella mentalità. Per cui quella fase lì esiste ancora. Militarmente invece resiste in Afghanistan e in Libia, esistono delle cellule in Bosnia e Albania e minori in Italia, in Belgio, Francia e Libano. Ricordo che solo due mesi fa l’intelligence italiana ha condotto 14 arresti tra le reti jihadiste. Ad Udine un ragazzino si stava facendo saltare in area in una scuola superiore. L’Isis esiste ancora, ma in maniera diversa. Noi abbiamo annichilito il loro centro militare principale, però bisogna ancora combattere ad alti livelli. In Siria, nella zona dell’Eufrate, al confine con l’Iraq ci aspettiamo di catturare nei prossimi mesi Abū Bakr al-Baghdādī ovvero il fondatore dell’Isis. Già il mese scorso abbiamo catturato il loro portavoce e prima ancora uno degli artefici dell’attentato dell’11 settembre, che era finito nelle carceri di Assad e successivamente si era arruolato con il Califfato. Noi continuiamo a combattere, nonostante il mondo si volti dall’altro lato. L’altra zona di lotta attuale in Siria è la zona desertica, dove si trovano dei piccoli villaggi. Attualmente li stanno Botan, un ragazzo di Varese con cui ho combattuto a Raqqa, Paolo “Azadi” e molti altri miei compagni combattenti.

Dalle notizie trapelate, pare che i miliziani del Califfato disponessero di armi sofisticate, moderne, chi li riforniva?

Isis, o Daesh, è stato supportato da fondi sauditi e dal Qatar; ricordo poi che inizialmente gli Usa e l’Europa hanno anche finanziato gruppi jihadisti in funzione anti Assad. Parte dei soldi derivanti dalle nostre tasse e da quelle degli altri contribuenti europei, sono finiti anche in mano a questi gruppi, alcuni dei quali poi si sono uniti all’Isis. Quando qualcuno dice che l’America ha creato l’Isis, sbaglia: piuttosto è corretto dire che l’America ha creato il background da cui è nato l’Isis. Dobbiamo anche aggiungere che il Califfato ha un forte radicamento internazionale, riesce a ottenere “donazioni islamiche” da diverse parti del mondo. In merito alle armi posso dirti che mentre noi a Raqqa ad esempio utilizzavamo droni con semplici telecamere, l’Isis schierava droni armati, ognuno dei quali ha uno costo che si aggira intorno alle € 60.000. Parliamo dunque di ingenti quantità di denaro a loro disposizione.

Gli americani che a un certo punto avevano foraggiato l’offensiva curda, sembrano ora avere scaricato i loro alleati: cosa le hanno riferito i suoi compagni a riguardo?

Gli americani sono stati sì nostri alleati, ma solo militari. Non abbiamo mai accettato nessun compromesso politico nella rivoluzione del Rojava. Ricordo che anche Castro nella prima fase della sua rivoluzione a Cuba attinse a fondi raccolti negli Usa. Nella fase iniziale una rivoluzione non può sostenersi senza alleati. Sappiamo benissimo che l’America non è un alleato affidabile. Se avete avuto modo di leggere il mio libro avrete letto che già prima che tutto si verificasse, sapevamo che sarebbe arrivato quello che io ho definito “giorno del tradimento”: non perché siamo profeti, ma perché sappiamo leggere la storia, era evidente che sarebbe successo.

Gli americani sono stati la nostra aviazione contro i terroristi islamici, ma non lo sono stati ad Afrin. Il 18 marzo la nostra città libera è caduta, invasa alle spalle dalla Turchia. Gli americani ci hanno abbandonati, lasciando che ci invadessero dopo una guerriglia durata quasi due mesi, condotta contro un contingente bellico che disponeva di dotazioni militari che non eravamo in grado di affrontare. Lì abbiamo perso centinaia tra compagne e compagni. Una cosa che posso aggiungere è che attualmente un’altra presa di posizione è quella francese, che vuole ristabilire una presa globale in geopolitica forte. Hanno delle truppe schierate nel territorio, che non usano; si coordinano con noi dal punto di vista logistico,ma non fanno di fatto niente, al momento. Loro sperano che una volta andati via gli americani potranno prendere il controllo dell’area tessendo un’alleanza con noi. Siamo preziosi sia per gli americani sia per i francesi, perché costituiamo l’ultima realtà solida contro l’Isis, non schierata con Assad che non è nostro alleato, ma al contempo neanche un nostro nemico.

Attualmente, che lei sappia, quanti italiani sono impegnati a combattere tra le fila curda?

Posso dirti che dal 2015 circa venti italiani hanno preso parte all’ offensiva anti-Isis con i militari curdi. A Raqqa eravamo in quattro: io, Botan, un ragazzo torinese e un altro ragazzo di Senigallia.

Ripartirà per il fronte?

Ho dato il mio contributo mettendo in gioco la mia vita, ma la battaglia non si ferma sul campo. Per ora cerco di mettere a disposizione le mie competenze, i miei strumenti di comunicazione per supportare la causa. Se però la Turchia dovesse attaccare la nostra rivoluzione in toto, in particolare se dovessero prendere Qamişlo che per me è molto simbolica perché è la città più grande che abbiamo, se non fosse solo una battaglia persa, ma l’intera rivoluzione a crollare, non so se ce la farei a rimanere qui a guardare.

Un’ultima domanda, di carattere diverso dalle precedenti: in più di un’intervista il giornalista di turno le ha chiesto se lei abbia ucciso dei nemici. Forse sperando nella sensazionalità di una risposta, fanno finta di dimenticare che in guerra non si va per giocare?

Esatto, spesso ponendomi domande del genere vanno alla ricerca del sensazionalismo dimenticandosi che è una guerra. Come ho detto più volte io schifo la guerra: andrebbe sempre evitata essendo il fallimento di ogni diplomazia. Certo vivere in oppressione non è un’alternativa così come non lo è lasciare morire centinaia di migliaia di donne. Quindi non credo la loro sia una domanda pertinente: non è un gioco, non stiamo stati li a giocare. Era un sacrificio che abbiamo fatto e molti di noi sono morti.

Ci terrei a precisare che due figure ispiratrici del mio percorso sono state Nelson Mandela e Fidel Castro. Nel 2008 avevo dato la mia parola che sarei andato ai funerali di entrambi e così è stato. Nel 2013 ero ai funerali di Mandela e nel 2016 a quello di Castro. Questo per spiegare qual è il mio percorso anche psicologico e politico, a come sono arrivato a scegliere di dedicare la vita a qualcosa di così profondo come quello di cui abbiamo parlato.

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