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08/07/2018

Stiglitz: “Come e perché si deve uscire dall’euro”

Si moltiplicano le analisi molto scettiche sulla possibilità di tenere in piedi Unione Europea ed Euro, così come li abbiamo conosciuti negli ultimi venti anni. E si tratta di contributi autorevoli che arrivano da figure di primo piano dell’establishment globale, non di sbrigative ricette buttate giù da qualche commercialista in quota Lega.

Come sapete, la lingua batte dove il dente duole. Se si discute molto, e seriamente, di un argomento considerato tabù nel dibattito politico pubblico italiano, vuol dire che i problemi hanno superato la soglia del fisiologico e cominciano a porre in discussione equilibri che sembravano eterni.

Il contributo che qui vi proponiamo arriva da Joseph Stiglitz, ex capo economista e vicepresidente della Banca Mondiale, nonché ex Presidente dei consiglieri economici dell’amministrazione Clinton, premio Nobel per l’economia nel 2001, di orientamento blandamente keynesiano. Un personaggio insomma niente affatto “accademico”, ma operativo. Uno che ha preso decisioni rilevantissime nella storia economica recente del capitalismo “globalizzato” e da qualche anno si è trasformato in critico severo del mondo che anche lui ha contribuito a disegnare.

Per capirsi, uno dei suoi aforismi più fulminanti recita:
«La guerra moderna, fortemente tecnologica, mira ad eliminare il contatto umano: sganciare bombe da un’altezza di 15.000 metri permette di non sentire quello che si fa. La gestione economica moderna è simile: dalla lussuosa suite di un albergo si possono imporre con assoluta imperturbabilità politiche che distruggeranno la vita di molte persone, ma la cosa lascia tutti piuttosto indifferenti, perché nessuno le conosce»
Detto da uno che è stato a capo di diverse squadriglie di bombardieri economici, lo ammetterete, è un’affermazione piuttosto forte. Soprattutto, inconfutabile.

Questo lavoro è stato pubblicato su Politico un paio di settimane fa e ha attirato, oltre alla nostra, l’attenzione del quotidiano di Confindustria, producendo un’intervista dal titolo molto meno radicale di quello originale: «Italexit è l’ultima spiaggia, per l’Italia è meglio restare ma l’euro va riformato». Non sembra una posizione estrema, ma esprime una preoccupazione ormai generale, come abbiamo visto con l’intervista a Claus Offe.

I consigli di Stiglitz, coerenti con la sua biografia da “operativo”, sono molto pratici, ma sulla base di una partizione obbligata: o escono dall’euro la Germania e altri paesi del Nord, oppure ne dovrà uscire l’Italia insieme ai paesi mediterranei. L’unica cosa impossibile – o alla fine devastante – è continuare così.

La “riforma” della moneta unica (e dei numerosi trattati che la regolano o presuppongono) consisterebbe in un rovesciamento completo dell’atteggiamento tedesco nei confronti del resto dell’eurozona, accettando contemporaneamente di aumentare i salari all’interno della Germania, farsi carico di una politica economica e industriale continentale equilibrata (compresa una politica fiscale comune che comprenda la “condivisione dei rischi finanziari” con i paesi più deboli), ecc.

Tutto ciò che l’intero mondo politico, imprenditoriale e finanziario tedesco esclude assolutamente; con toni più o meno ultimativi che permettono a malapena di distinguere Spd, Cdu, Csu e i paranazisti dell’Afd. Se questa è l’unica possibilità per “riformare” la Ue – e teoricamente lo è – allora nessuna riforma è possibile. E bisogna cominciare a ragionare su scenari più radicali e soprattutto realistici.

La rottura dell’Unione e la disarticolazione della moneta unica sono insomma temi chiaramente posti sul tavolo del conflitto politico e sociale tra Stati, classi, interessi sociali diversi.

Perché tanta compagneria rifiuta persino di discutere sulle possibili vie d’uscita da un processo di crisi che rischia di diventare catastrofico? Perché ci si ostina a “ragionare” nei termini imposti dal “pensiero unico” per cui “l’europeismo” sarebbe quasi un succedaneo dell’internazionalismo e la rottura della Ue un “ritorno al nazionalismo”? Persino uno come Stiglitz arriva a spiegare che i paesi mediterranei starebbero molto meglio fuori da questa gabbia... Insieme, non “da soli”.

A nostro avviso prendere consapevolezza di quanto sta avvenendo nel mare aperto globale, fuori del ristretto acquario in cui è stata – o si è – confinata la cosiddetta “sinistra radicale” (o “antagonista”, o con altri, e persino senza, aggettivi) è semplicemente necessario. Il vecchio e tranquillo mondo della globalizzazione vincente non esiste già più. La guerra dei dazi è appena iniziata e la sua pressoché inevitabile escalation avrà conseguenze pesanti su equilibri che sembravano sorretti con travi d’acciaio. Il percorso della Brexit sta a sua volta minando buona parte del sistema di trattati europei che si voleva “rafforzare” nel vertice di fine giugno, ma che ha prodotto invece pochi correttivi a vantaggio di Germania, Francia e pochi altri, rivelando che il governo Lega-M5S abbaia molto sui media italiani ma fa come Renzi-Letta-Monti quando si siede a Bruxelles.

Rifiutarsi di prendere atto della realtà non è mai un buon modo di costruire percorsi collettivi, ma sicuramente è un modo per non cambiare di una virgola i rapporti di forza tra capitale e lavoratori. Né ora, né mai...

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Come uscire dall’Eurozona

L’Italia ha la grossa opportunità di fare una scelta che darà uno scossone all’intera Eurozona.

Qual è il modo migliore per affrancarsi dall’Euro? Ora che in Italia è stato dato l’incarico ad un Governo “euroscettico”, almeno sulla carta, questa domanda è tornata sul tavolo delle proposte. Si, è vero, tutti i ministri chiave si sono impegnati a mantenere il Paese nell’area monetaria comune dell’Unione, ma questi impegni non devono essere visti come immutabili; devono essere riconsiderati in un contesto di negoziazione dell’Italia un poco più ampio. Il nuovo Governo vuole che sia chiaro: non è solo un’anticipazione, una sorta di pettegolezzo. Preferirebbe rimanere nell’Eurozona, ma vuole cambiare.

I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona è severamente malata, e che ha bisogno di una riforma. L’Euro è stato carente, limitato dal momento del suo concepimento. A Paesi come l’Italia ha sottratto due meccanismi chiave di regolazione, di un certo adeguamento: il controllo sui tassi di interesse e quello sui tassi di cambio. Invece di mettere correttamente tutto al posto giusto, sono state introdotte forti contrazioni su debito pubblico e deficit, ostacoli ulteriori alla ripresa economica.

L’effetto di tutto questo nell’Eurozona è stato una crescita più lenta, specialmente per le nazioni più deboli. Si supponeva che l’Euro sarebbe stato accompagnato da una crescita maggiore; che avrebbe portato ciascuna nazione, a turnazione, ad un impegno per una più forte e rinnovata integrazione europea. E’ stato fatto esattamente l’opposto: le divisioni all’interno dell’Unione Europea sono cresciute, e specialmente quelle fra Paesi debitori e Paesi creditori.

Le scissioni che ne sono scaturite poi, hanno reso ancora più difficile risolvere altri problemi, in particolare la crisi migratoria, dove le regole europee hanno imposto un onere poco piacevole a quei paesi di confine che ricevono migranti, come la Grecia e l’Italia, che sono anche Paesi debitori, già afflitti da serie difficoltà economiche. Nessuna meraviglia se si respira, quindi, odore di rivolta.

La resistenza della Germania

Quello che si deve fare è ben noto. Il problema però risiede nella riluttanza della Germania a metterlo in pratica.

Nell’Eurozona si è a lungo affermato che c’era bisogno di un Unione Bancaria, ma Berlino ha sempre rimandato la riforma chiave per crearla — una assicurazione comune sui depositi — che avrebbe ridotto la fuga dei capitali dalle nazioni più deboli: la fuga dei capitali è un fattore chiave per spiegare le dimensioni della recessione nelle Nazioni in crisi.

Le politiche economiche tedesche aggravano i problemi dell’Eurozona. La sfida economica fondamentale affrontata dai Paesi nell’Unione Monetaria è nel risolvere l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, attualmente, il peso dell’adeguamento è imposto ai Paesi debitori, che già soffrono per una crescita lenta e bassi redditi. Se la Germania attuasse una politica fiscale e dei salari più espansionistica, un poco della pressione fiscale scivolerebbe via da questi Paesi.

Se la Germania non ha la volontà di mettere le basi necessarie a migliorare l’Unione Monetaria, dovrebbe almeno fare l'unica scelta conseguente: lasciare l’Eurozona. E’ noto come l’ha messa George Soros: la Germania dovrebbe mettersi alla guida, una volta per tutte, o dovrebbe lasciare. Con la Germania (e forse anche altri Paesi del Nord Europa) fuori dall’Unione Monetaria, il valore dell’Euro declinerebbe, diminuirebbe, mentre crescerebbero le esportazioni di Italia ed altri Paesi dell’Europa Meridionale. La causa principale dello squilibrio svanirebbe; allo stesso tempo, l’aumento dei tassi di cambio della Germania contribuirebbe in larga misura a sanare uno degli aspetti più destrutturanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale della Germania.

Perché uscire

Il problema, naturalmente è che la Germania si rifiuta ostinatamente di prendere una decisione, e questo lascia i cittadini di Paesi come la Grecia e l’Italia ad un bivio che non avrebbero mai voluto affrontare: essere membri dell’Eurozona o avere la prosperità economica.

Il governo greco, timido e con così poca esperienza, ha scelto a suo tempo di rimanere nell’Unione Monetaria. Il risultato è stata la stagnazione. Dal 2015 il Pil greco è sceso a picco, ha perso il 25% dai livelli pre-crisi. E da allora si è a malapena spostato di qualche millimetro.

L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta differente: in assenza di riforme sostanziali, i benefici per il Paese appaiono semplici da raggiungere, palesi e anche considerevoli.

Un tasso di cambio più basso permetterebbe all’Italia di esportare di più. I consumatori sostituirebbero merci fatte in Italia con altre d’importazione. I turisti troverebbero il Paese anche una destinazione più interessante; tutto questo stimolerà la domanda ed andrà ad incrementare il gettito del Governo. La crescita migliorerà, e diminuirà quello che è il più alto livello di disoccupazione di sempre nel Paese: l’11% totale, con il 33.1% della disoccupazione giovanile.

Naturalmente ci sono molte altre ragioni per leggere il malessere italiano e potrebbero ricondurre solo parzialmente, all’uscita dall’Euro. Governi come quello USA a guida di personaggi come il Presidente Donald Trump, o quello italiano del ex primo ministro Silvio Berlusconi – dominati da faccendieri corrotti senza alcuna concezione delle semplici basi per una crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e durevole.

Allo stesso tempo, la crescita lenta e diseguale che l’Italia ha registrato per effetto dell’Euro, ha quasi sicuramente fornito terreno fertile per i populisti di ogni risma.

Più avanti però, si raggiungeranno anche dei vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe più possibilità di cooperare in altri settori chiave, nei quali l’Europa ha bisogno di lavorare insieme ad altre nazioni: immigrazione, una forza di difesa europea, le sanzioni verso la Russia, la politica commerciale.

Le politiche di immigrazione e quelle commerciali possono produrre benefici per intere nazioni, anche se rimangono paesi che ne subiscono il peso; i vincoli fiscali imposti dall’Eurozona hanno fatto l’impossibile per fornire protezione adeguata a questi paesi perdenti, in sofferenza. Un Italia fuori dall’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per dividere i benefici delle proprie politiche internazionali, ed allo stesso tempo allevierebbe la sofferenza associata al Paese.

Come fare

Naturalmente la sfida consisterà nel trovare un modo per abbandonare l’Eurozona che riduca al minimo i costi politici ed economici. Sarà essenziale un massiccio risanamento del debito, prestando particolare attenzione agli effetti che potrebbero colpire le istituzioni finanziarie nazionali. In assenza di questo risanamento, il peso dell’Euro, quello che si chiama “debito”, decollerebbe, assorbendo gran parte dei potenziali guadagni.

Questi tentativi di risanamento, di ristrutturazione, sono parte integrante dei grandi processi di svalutazione. Alcune volte vengono attuati in silenzio, fra le quinte, come hanno fatto gli USA quando uscirono dal Sistema Aureo, altre più apertamente, come in Islanda o Argentina, con le folle dei debitori che gridarono allo scandalo. Questi tentativi di risanamento del debito dovrebbero essere visti come un rischio del tutto calcolato per gli investimenti transfrontalieri; in questo risiede una delle ragioni per cui i bond (tipo di obbligazione, o titolo di Stato NdT) “stranieri” rendono spesso solo un cosiddetto “premio di rischio”.

Da una prospettiva strettamente economica, la cosa più semplice per le entità italiane (siano essi governi, multinazionali o singole persone) sarebbe quella di riformulare il debito, trasformandolo da “debito in Euro” in “debito in una Nuova Lira”. A causa di difficoltà legali interne all’UE e degli obblighi internazionali appartenenti proprio all’Italia, sarebbe auspicabile promulgare un nuovo “articolo 11” della legge sulla bancarotta, che garantirebbe un ricorso al risanamento del debito in tempi brevi per chiunque e qualunque struttura od ente, per il quale la valuta corrente presenta seri problemi economici. Come ben si sa, le leggi sulla bancarotta rimangono un’area di competenza dei soli stati-nazione nella UE.

L’Italia potrebbe anche scegliere di nascondere il proprio intento di lasciare l’Eurozona; molto semplicemente potrebbe emettere dei titoli (chiamiamoli “bond governativi”) che verrebbero accettati come pagamento per ciascuna obbligazione debitoria del valore di un Euro. Una flessione nel valore di questi bonds, equivarrebbe ad una svalutazione e, allo stesso tempo, ristabilirebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: i cambi, nella politica della Banca Centrale, influenzerebbero il valore nominale dei “bonds”.

Un gran frastuono

Ovviamente, tutto questo scatenerebbe urla e proteste degli altri membri dell’Eurozona.

L’introduzione, anche in via del tutto informale, di una valuta parallela violerebbe quasi certamente le regole dell’Eurozona e andrebbe sicuramente contro il suo spirito; così facendo, però, l’Italia passerebbe agli altri paesi membri la scomoda decisione della sua espulsione.

Roma potrebbe correre questo rischio, sperando che i membri dell’unione monetaria non mettano mai in atto un’azione così forte, il che confermerebbe il deterioramento dell’Eurozona. L’Italia in realtà vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca, come si suole dire. Rimanere parte dell’Eurozona ma, allo stesso tempo, ottenere una svalutazione. Se l’Italia, di contro, perdesse la scommessa, l’onere politico dell’uscita dall’Eurozona ricadrebbe chiaramente sui suoi “partners”. Sarebbero loro destinati a fare il passo finale.

La Grecia è stata strangolata dalla BCE. Non ce ne era bisogno. Atene era già ad un passo dal creare una infrastruttura (un meccanismo di pagamento elettronico attraverso una nuova dracma) che avrebbe facilitato il passaggio verso l’uscita dall’Eurozona.

I progressi della tecnologia, negli ultimi tre anni, hanno fatto sì che si creassero dei sistemi monetari elettronici più facili ed efficaci. Se l’Italia scegliesse di usarne uno qualsiasi, non dovrebbe neanche affrontare le difficoltà di stampare una nuova valuta.

L’Italia potrebbe anche smussare le asperità della sua dipartita, se la sua uscita fosse coordinata con altri Paesi nelle sue stesse condizioni.

Il variegato gruppo di Paesi che ora formano l’Eurozona è lontano da quello che gli economisti chiamano “un area monetaria ottimale”. Ci sono così tante differenze, tali diversità che per fare in modo che funzioni si è dovuti ricorrere al veto della Germania su alcuni accordi istituzionali.

Una eurozona degli Stati europei meridionali sarebbe la soluzione migliore per un’area monetaria ottimale. Sarebbe invece difficile organizzare un’uscita coordinata nel breve periodo; ma se l’Italia riuscisse a trovare con successo la via dell’allontanamento dall’Euro, altre Nazioni sicuramente ne seguirebbero l’esempio.

Costi e benefici

Ad essere realisti, non si devono sottostimare i costi di una grande svalutazione. In economia anche una piccola variazione nei prezzi chiave è una perturbazione significativa.

Naturalmente, il prezzo della valuta estera è essenziale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto a cascata sui prezzi di tutti i servizi e di tutte le merci. Alcune aziende (forse molte) dichiarerebbero bancarotta; alcune persone (forse molte), vedrebbero diminuire i loro redditi reali.

Ma è altrettanto importante non sottostimare i costi del malessere italiano al momento: se l’economia italiana fosse cresciuta al ritmo dell’Eurozona in generale, nei 20 anni passati dalla creazione della moneta unica ad ora, il Pil sarebbe aumentato almeno del 18% in più.

Il costo di una disoccupazione persistente, costante, specialmente fra i più giovani, è enorme. I giovani nella fascia fra i 20 ed i 30 anni, dovrebbero potersi impegnare a perfezionare le proprie competenze in una vera formazione sul posto di lavoro, invece di starsene a casa seduti a far niente; molti di loro così sviluppano rancori verso le élites e le istituzioni che, secondo loro, sono responsabili della situazione difficile nella quale si trovano. Il risultato è che anche la mancanza di formazione del capitale umano frenerà la produttività per molti anni a venire.

In un mondo ideale, perfetto, l’Italia non penserebbe di lasciare l’Eurozona; l’Europa potrebbe pensare di riformare l’Unione Monetaria e fornire una protezione maggiore, un ombrello economico per tutti i Paesi danneggiati in modo serio dal mercato e dai flussi migratori.

In assenza di un cambio di direzione da parte dell’UE, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica, e che esistono dei modi per lasciare l’Eurozona i cui benefici probabilmente supererebbero i costi.

Se il Governo neo-eletto fosse capace di gestire con successo un’uscita di questo tipo, l’Italia farebbe molto meglio ad andarsene. E così dovrebbe fare il resto di Paesi aderenti all'UE.

Joseph Stiglitz, da POLITICO “Laboratorio per la politica globale”, 26 giugno 2018. Traduzione e cura di Francesco Spataro

Joseph Stiglitz, è oggi professore alla Columbia University. E’autore del volume: “L’Euro: come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa” edito da Einaudi.

Il Laboratorio di Politica Globale “POLITICO” è un progetto di giornalismo in collaborazione in cerca di soluzioni ai pressanti problemi politici.

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