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07/10/2018

Il nemico del mio nemico, se si tratta del PD, rimane mio nemico

La Nota di Aggiornamento al DEF, coi suoi obiettivi riguardanti il deficit pubblico per il prossimo triennio, era stata sbandierata dal governo giallo-verde come uno dei suoi più grandi successi. Di Maio e soci si sono, in principio, vantati di aver ‘sfidato’ i vincoli europei per aver ipotizzato un deficit al 2,4 per cento del PIL per tre anni. Ovviamente, sono bastati i primi borbottii dell’Europa per riportare a più miti consigli il governo dei pagliacci: il 2,4% di deficit – una misura espressamente di austerità – sarà mantenuto solamente per il primo anno; dal 2020 un ulteriore giro di vite sarà applicato ai conti italiani, con un deficit previsto al 2,1%, deficit che poi scenderà ulteriormente all’1,8% nel 2021.

Una manovra, ci hanno raccontato, che dovrebbe spazzare via la povertà e dar vita al più grande piano d’investimenti che l’Italia abbia visto negli ultimi anni. In realtà, anche nella sua prima formulazione, l’ipotesi di manovra grillo-leghista era rivoluzionaria soltanto a parole. Una volta che dal famoso 2,4 per cento vengono tolti gli interessi sul debito, ciò che resta è l’ennesima (ventottesima di fila) sottrazione di risorse all’economia italiana: un nuovo avanzo primario. Con le ultime revisioni, negli anni a venire possiamo aspettarci solamente ulteriori, maggiori avanzi primari.

Eppure, a qualcuno non basta. Il governo è stato criticato, da Forza Italia come dal PD, da Giorgia Meloni come da Benedetto Della Vedova, per aver fatto – udite, udite! – troppo deficit. Avete capito bene. Una manovra di politica economica che drena circa 19 miliardi di euro di spesa pubblica è vista come un esempio di eccessivo deficit.

Ma andiamo con ordine. Tra i difensori dell’austerità troviamo, un po’ a sorpresa, Giorgia Meloni. L’amorevole madrina della “destra sociale” italiana rimprovera al governo di aver fatto una manovra “totalmente finanziata in deficit” che andrà a incrementare la spesa corrente. Per capire bene l’enormità di queste dichiarazioni, conviene riavvolgere il nastro di questi giorni e dare nuovamente uno sguardo ai numeri. La Nota di Aggiornamento al DEF, quando uscirà, prevederà per il 2019 un deficit al 2,4 % del PIL. Basandoci sui documenti contabili degli ultimi anni, possiamo ipotizzare che l’Italia pagherà circa il 3,5 per cento del proprio PIL in interessi sul debito pubblico. Ma questo vuol dire che il famoso 2,4 % di deficit non basterà neanche a pagare gli interessi sul debito e che sarà necessario un ulteriore taglio della spesa pubblica, indicativamente nella misura dell’1,1 % del PIL. La famosa “manovra finanziata in deficit” di cui si lamenta la “destra sociale” non è altro che l’ennesimo esercizio di macelleria sociale. Le misure “espansive” sbandierate dal governo, ammesso che si facciano, saranno finanziate tagliando altrove. Eppure, alla Meloni non basta.

Così come non basta al Partito Democratico, che ha addirittura mobilitato “il suo popolo” per una manifestazione contro la manovra del governo, colpevole, secondo il segretario Martina, di caricare sui “giovani” 100 miliardi di debito pubblico. Ancora la stantia e falsa retorica del debito pubblico come fardello per i posteri. Una preoccupazione, quella per le generazioni future, che curiosamente viene meno quando si tratta di precarizzare il mercato del lavoro, si aumenta l’età pensionistica, si tagliano i fondi per università e ricerca o quando si dipingono i giovani come bamboccioni choosy. Ma ciò che più colpisce, nelle preoccupazioni del segretario dei Democratici, è la somiglianza con le parole del Commissario UE agli Affari Economici, Pierre Moscovici, per il quale ogni euro di debito è un euro tolto ai servizi. Un capolavoro di neo-lingua, uno spettacolare sovvertimento della realtà, dove Moscovici e Martina mostrano di ignorare, in totale malafede, che per fare un euro di servizi lo Stato deve spendere un euro, un euro che prenderà a prestito e diventerà un euro di debito pubblico. È sempre stato così, è così per tutti i paesi del mondo.

Non fanno eccezione, naturalmente, gli esponenti del centrodestra non di governo. Gli uomini in azzurro, in particolare Brunetta, strepitano contro l’aumento del debito pubblico e lamentano l’oltraggio portato all’Europa e ai mercati, evidentemente già dimentichi degli strali lanciati contro l’Europa all’epoca in cui Berlusconi veniva defenestrato a suon di spread per far spazio al governo Monti.

Per non parlare dell’ex Presidente del Consiglio incaricato Carlo Cottarelli, l’uomo che si è guadagnato il poco onorevole soprannome di Mister Forbici. Mai nome fu più adatto, e non solo per il suo precedente incarico da Commissario alla spending review. Carlo Cottarelli lamenta esplicitamente il fatto che la manovra fa troppo poco avanzo primario. Dovrebbe essere al 3,5 – 4%, dice il ragionier Cottarelli. In termini pratici, cosa significa il 4% di avanzo primario? Significa semplicemente prendere dall’economia i soldi necessari al pagamento degli interessi sul debito e, magari, anche qualcosa in più, senza immettere nuove risorse. Possiamo facilmente immaginarci l’effetto della sottrazione di 80 miliardi l’anno alle spese delle pubbliche amministrazioni sullo stato della sanità, degli edifici scolastici, delle infrastrutture e dei trasferimenti alle disastrate casse degli enti locali.

Questo triste spettacolo ha comunque un merito: quello di evidenziare la totale e innegabile adesione di tutti i partiti attualmente rappresentati in Parlamento ai dettami dell’ideologia economica dominante. Assistiamo ad un teatrino dell’assurdo, ad una gara grottesca a chi si dimostra più solerte ed affidabile nel permettere il dispiegamento dei meccanismi distruttivi dell’austerità. Un teatro che vede protagonisti accusati e accusatori, accomunati da una identica visione del sistema economico. Differenziati da mere e secondarie sfumature su come e con quale profondità gestire un piano economico recessivo e regressivo, imposto ed implicato dai vincoli europei, Governo ed opposizioni rappresentano in realtà due facce della stessa medaglia, da contrastare e combattere con uguale forza e con gli stessi argomenti.

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