di Giovanni Iozzoli
La
pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli
italiani. Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella e
pomodoro; un po’ di agrari, reduci e sottoproletari –, il condimento di
mani sapienti et voilà: la creatività italiana si esporta in tutto il
mondo, diventa tradizione, diventa trend. Il “Made in Italy” come
modello di una qualità riconosciuta nel tempo.
Da alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza,
orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità produttiva è
assicurata da un reparto celere messo cortesemente a disposizione
dell’azienda. Il presidio poliziesco pressoché permanente, il sistema
sanzionatorio, la sicurezza interna e un clima pre-bellico, rendono
Italpizza un’azienda sostanzialmente militarizzata, come capita alle
industrie strategiche in tempo di guerra. Gas tossici, mazzate, denunce,
gipponi lampeggianti, provvedimenti disciplinari, licenziamenti. Tutto
questo non avviene in una maquiladora messicana; e neanche nelle
campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old manners”.
Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario strategico
che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi dei
manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i
finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo
sfondo, ben visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su
uno stabilimento moderno e blindato, in cui in passato politici e
amministratori hanno fatto spesso visite devote.
Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San
Donnino, tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi:
un’azienda che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo
perché decine di robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del
personale che sciopera e picchetta.
La storia dell’organizzazione del lavoro in Italpizza è tristemente
comune: circa 600 dipendenti, di cui solo 80 assunti direttamente; il
resto tutti precari in capo a un paio di pseudo cooperative
riconducibili alla proprietà; ritmi, turni, orari massacranti decisi in
modo unilaterale dal committente, sottoinquadramento contrattuale
(contratti delle pulizie for ever) che garantisce risparmi anche del 40%
sui costi del lavoro vivo. Vivo e povero.
Italpizza, come da tradizione marchionnesca, decide unilateralmente
chi sono gli interlocutori sindacali, in un gioco a geometrie variabili,
che comunque lascia fuori qualsiasi rappresentanza che metta in
discussione i suoi interessi. Queste pratiche accumulano un enorme
ammontare di elusione fiscale e contributiva (già 700.000 euro sono
stati comminati dagli organi ispettivi), ma queste sanzioni sono
evidentemente messe nel conto dall’azienda, come altrettante multe per
divieto di sosta.
Italpizza sta diventando metafora del modello emiliano 4.0: uffici
stampa, presenza social, adesione a tutti i blandi protocolli che
rimandano a una qualche memoria concertativa nella ex Emilia rossa. E
operai sfruttati, precarizzati, mortificati e gestiti manu militari. In
sovrappiù l’azienda si permette anche di disertare una convocazione
presso il Ministero del Lavoro, perché non gradisce al tavolo la
delegazione Cobas: una specie di dichiarazione d’indipendenza dalle
vecchie pastoie sottogovernative, una rivendicazione dell’autonomia del
comando d’Impresa. Abbiamo il grano, i programmi di investimento, gli
accordi sul piano regolatore: non rompete i maroni sulla forza lavoro –
quella è roba nostra. Per un sottosegretario Cinquestelle che convoca
tavoli, c’è un sottosegretario leghista che manda la polizia. È il
governo dei tempi moderni.
Centinaia di ore di sciopero, centinaia di candelotti lanciati
addosso ai presidi, decine di cariche, un numero indefinito e crescente
di denunciati, secondo le regole del nuovo Decreto Sicurezza.
Il bello è che i lavoratori in agitazione – spesso donne e straniere –
stanno solo chiedendo la corretta osservanza di leggi e norme:
l’applicazione del giusto contratto collettivo, un minimo di confronto
sulla prestazione. Insomma: i bastonati/gasati/denunciati stanno
oggettivamente difendendo il feticcio della legalità borghese, mentre
l’imprenditore e gli organi polizieschi, garantiscono ogni giorno la
reiterazione del reato – con un enorme investimento di spesa, peraltro, a
carico del contribuente (anche dei mazziati, evidentemente). Ecco il
genio italico in azione: la Giornata della Legalità in prima pagina e
nel contempo l’esibizione pubblica e muscolare dell’Impunità d’azienda.
Si dice in giro che il gigante Italpizza (120 milioni di fatturato
esportazioni in 55 paesi del mondo) per difendere il privilegio di fare
quello che gli pare, olii generosamente la politica e la stampa:
sponsorizzazioni, inserzioni, piani di sviluppo scritti di concerto
all’amministrazione, una fama “democratica” che traballa ma gode ancora
di solidi supporti politici. Gente organizzata, insomma – non i pirati
della logistica con le loro cooperative spurie. Dio solo sa come abbiano
convinto la Questura a mettersi sostanzialmente a disposizione
dell’azienda come una qualsiasi agenzia di guardie giurate – non solo,
immaginiamo, con sostanziose donazioni alla Befana della Polizia, ma
anche grazie alla consapevolezza che a quei cancelli si gioca una
partita importante sulla rappresentanza e sui diritti: e che, su questo
crinale, è meglio che le truppe armate dello Stato diano una mano agli
intrepidi esportatori di pizza e alla benemerita opera di
modernizzazione che stanno promuovendo.
Come potremo definire questa allucinante quarta dimensione del
degrado italiano, questa metafora dell’eccellenza che ha, come al
solito, nell’enorme moloch post-moderno del “food” il suo terreno
originale di coltura? “Pizza e Fascismo”, sarebbe una buona sintesi?
Oggi “l’antifascismo”, soprattutto nei periodi di fibrillazioni pre-elettorali, conosce rinnovati momenti di gloria: l’Espresso e Repubblica
in testa, si sbracciano per evocare il pericolo rappresentato dai
gruppuscoli di destra, ne raccontano con raccapriccio e sincero sdegno
democratico le gesta e i canali di finanziamento, ne ingigantiscono il
peso e il profilo (vedi le incursioni anti-rom nei quartieri romani
raccontati come l’invasione dei mongoli secondo un format mediatico
ormai collaudato). Si sa che questa esaltazione del “fascista
all’attacco” è funzionale alla costruzione di ipotetici “fronti
antisovranisti” – ormai è un giochino svelato. Questi antifascisti della
tredicesima ora, nel calduccio delle loro redazioni, non colgono (o
colgono fin troppo bene) l’essenza dei tempi: il fascismo vero oggi è
rappresentato dai reparti celere che sparano gas lacrimogeni addosso ai
lavoratori che presidiano sindacalmente la loro azienda; altro che
Casapound e simili utili idioti – di volta in volta legittimati o
mostrificati alla bisogna.
I nuovi assetti di potere stanno manifestando, oggi, un approccio
pragmatico, moderno, assolutamente estraneo alla demagogia sulla
“cacciata dello straniero”, buono solo per le campagne elettorali – ma
poco utile nelle campagne del foggiano o del crotonese, dove lo schiavo
nero è alla base della filiera agroalimentare. Nessuno li vuole
cacciare, quello che si vuole è la loro sottomissione, l’invisibilità
sociale, il disciplinamento nelle loro funzioni: a spennellare pizze o
pulire cessi (tanto il contratto è lo stesso). Il razzismo, la xenofobia
“der popolo” è solo folclore. La forza lavoro è petrolio: si è mai
visto qualcuno gettarlo via? Bisogna solo saperlo incanalare nelle
tubature giuste. È fascismo, questo? È post-fascismo? Pre-fascismo? Lo
leggeremo sui libri di storia. Intanto la polizia e la magistratura
italiana stanno dando il loro contributo al dibattito, attraverso una
stretta repressiva silenziosa, infame e implacabile, che conosce pochi
precedenti. Purtroppo avremo il tempo di riflettere ed elaborare, circa
questo nuovo stato delle cose.
Per il presente, ricordiamo a noi stessi che il manganello sulla
schiena operaia è l’essenza del fascismo, quello metastorico, che
attraversa le epoche: oltre le mitologie, le coreografie, le estetiche
decadenti o virulente, il fascismo è fatto sempre degli stessi genuini
ingredienti di una volta: il contrasto alla lotta di classe, il
sabotaggio degli scioperi, il crumiraggio organizzato, il
disciplinamento della forza lavoro, la bastonatura di chi mette in
discussione le gerarchie di classe.
Tutta roba semplice, cose di una volta. Come gli ingredienti della pizza.
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