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12/09/2019

Il motore grippato dell’Occidente capitalistico

Il sistema si è inceppato. La crisi dell’Occidente capitalistico ha il suo fulcro negli Stati Uniti e il suo corollario principale in Germania. Entrambe hanno perseguito per decenni un modello di crescita basato sui rapporti di forza – economici e commerciali – e sul “minimo sforzo” per le imprese nazionali.

Il modello statunitense ha visto lo Stato federale, il più potente del mondo e senza avversari dopo la caduta dell’URSS, mettersi al servizio degli interessi delle multinazionali con base negli States e della finanza speculativa, che aveva il suo baricentro in Wall Street.

L’effetto, stranoto, è stato duplice: le multinazionali hanno tutte delocalizzato al massimo la produzione materiale, mantenendo “in patria” soltanto i centri di ricerca (ma neanche quelli del tutto); mentre la finanza, dopo aver incassato da Bill Clinton l’abolizione del Glass-Steagall Act (che vietava dagli anni ‘30 la commistione tra banche commerciali e banche d’affari), ha dato vita a una spettacolare stagione di “euforia irrazionale” conclusasi con il grande botto del 2007-2008 e l’ufficializzazione della crisi globale (e della “globalizzazione”).

La Germania, invece, ha imposto a tutta Europa un modello “mercantilista”, sagomando per questo anche i trattati dell’Unione Europea, basato sulla compressione della domanda interna (in tutto il continente, tramite il congelamento dei salari e la precarizzazione del lavoro) e la prevalenza assoluta delle esportazioni. Date le caratteristiche dei diversi sistemi produttivi, questo orientamento ha visto le multinazionali tedesche in posizione di traino per tutta l’industria europea, ridisegnando le filiere produttive e le catene del valore nel Vecchio Continente.

In più, stante la centralità data al debito pubblico come criterio fondamentale per valutare la stabilità finanziaria dei vari Stati della UE, la Germania ha potuto per un paio di decenni rifinanziare quasi a gratis il proprio debito pubblico, mentre altri paesi (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ecc.) dovevano comprimere quote di spesa (sociale o per investimenti) per sostenere il peso enorme degli interessi da pagare in base allo spread.

Ora, da qualche anno, entrambi i modelli sono arrivati al capolinea.

Soprattutto negli Stati Uniti la situazione sociale è diventata insostenibile, con 100 milioni di senza lavoro che soltanto criteri statistici furbetti riescono a malapena a nascondere: con 5 milioni di “disoccupati ufficiali” in quanto alla ricerca di un lavoro, e 95 milioni di “scoraggiati” che neanche lo cercano più. Una popolazione così enorme di poveri e poverissimi certo non può dare un grande contributo alla domanda interna, visto che non può proprio consumare.

Gli Usa di Trump hanno provato a ridarsi una “protezione” dell’industria nazionale aprendo la guerra dei dazi (e delle monete), sia nei confronti della Cina che, in modo più sfumato, della Germania (e di tutta la UE). Ma i primi dati messi a disposizione da Moody’s, dopo quasi due anni di minacce e atti formali, restituiscono un quadro contrario: 300.000 posti di lavoro persi, nel manifatturiero Usa, a causa dell’aumento dei costi susseguenti al dover sostituire fornitori cinesi con altri “patriottici”.

Far ripartire un “mercato nazionale”, per quanto ampio come quello yankee, è molto più difficile di quanto un nazionalista stupido possa supporre. Ma se non ci riesci, emerge con molta più nettezza la tua fragilità complessiva. E la tua leadership mondiale appare davvero immotivata, o almeno in via di superamento. Anche se hai un sacco di armamenti, devi ridurre la tua scala di intervento (e vai via dall’Iraq, dall’Afghanistan, licenzi i consiglieri più guerrafondai come John Bolton, ecc).

In Europa, e soprattutto in Germania, la situazione è meno tragica ma altrettanto critica. Un “nuovo modello”, più attento al mercato interno, potrebbe partire solo se ci si decidesse a spendere quel surplus ventennale in investimenti, aumentando i salari per ricreare una domanda interna (tagliando un po’ i profitti delle imprese, non con i soldi dello Stato come con il “taglio del cuneo fiscale” che si vorrebbe fare in Italia), ricostruendo il welfare demolito dalle politiche di austerità.

Ma questo richiederebbe una unità di intenti – tra Stati nazionali, sistemi di imprese, movimenti politici di alto profilo, “statisti” di livello, ecc. – di cui non si vede traccia. L’Unione Europea è una macchina orientata dalla competizione interna a vantaggio dei membri più forti, che non trovano motivo – neanche nella crisi – di rinunciare al proprio vantaggio a favore del “benessere comune”.

Il resto del mondo capitalistico viaggia su altri binari.

La Russia riscopre tardivamente i “piani quinquennali” sovietici: nel periodo 2019-2024 i progetti del piano prevedono un investimento di ben 400 miliardi di dollari tra risorse del bilancio federale ed investimenti esteri. Raddoppio delle esportazioni di prodotti agricoli ed alimentari, dimezzamento del numero di cittadini russi in condizione di povertà, miglioramento complessivo dell’accessibilità alle cure sanitarie (fissando l’obiettivo di almeno un controllo medico annuale per ognuno dei 140 milioni di cittadini della Federazione Russa). Sono solo alcuni degli obiettivi fissati dal piano che, a livello generale, si inserisce pienamente nella strategia di integrazione euroasiatica sostenuta da Mosca.

Ancora più radicale – per dimensione degli interventi e capacità di mobilitare risparmio – l’iniziativa cinese. Non paghi di aver fatto decollare i redditi con il continuo aumento dei salari e drastici sgravi fiscali in busta paga, stamattina il premier cinese Li Keqiang ha “evidenziato l’assoluta necessità di garantire un ulteriore miglioramento della vita del popolo, così da rispondere alle sue preoccupazioni”. Tra le misure, l’immediato varo dei rimborsi per l’assicurazione medica per l’ipertensione e il diabete dei residenti urbani e rurali, riducendo l’onere finanziario per centinaia di milioni di pazienti, e la promozione dell’”integrazione tra le cure mediche e l’assistenza agli anziani, in modo da soddisfare meglio le esigenze sanitarie di questi ultimi”.

In pratica, il ritorno piano piano alla sanità pubblica e gratuita per tutti, almeno fino a una certa soglia di reddito.

Il tutto con l’obiettivo di potenziare al massimo il mercato interno in una congiuntura di rallentamento del commercio mondiale, dovuto anche alla “guerra dei dazi”.

La differenza tra i vari continenti si può vedere, quasi toccare, mettendo in campo i numeri. Se hai un miliardo e 400 milioni di persone che ti fanno il “mercato interno”, in via di rapidissimo sviluppo, chi ha puntato tutto sulla depressione competitiva del proprio – Usa e Germania-Ue – non ha molte speranze di competere al meglio...

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