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30/04/2022

Monsters & Co. (2001) di Docter, Unkrich e Silverman - Minirece

Fascismo con caratteristiche americane

La guerra per procura degli Stati Uniti in Ucraina

Una relazione importante tenuta da John Belamy Foster, professore di sociologia all'Università dell'Oregon e direttore della storica rivista americana Monthly Review, fa chiarezza su un aspetto finora poco esplorato della guerra per procura che si sta svolgendo in Ucraina, quello relativo al rischio nucleare. Questo aspetto della guerra in corso si inquadra nella 'strategia della controforza' e del 'First Strike' pericolosamente esplorata dagli Usa fin dagli anni '60 e poi abbandonata, anche grazie a movimenti pacifisti di massa. Ripescata dopo il crollo dell'URSS e la fine della guerra fredda nell'ambito della strategia del grande impero americano, oggi si sta giocando una partita del cui possibile finale – il grande inverno nucleare e l'olocausto nucleare – bisognerebbe essere tutti consapevoli. Come dice Foster, "c'è molto da capire, in poco tempo". (Preziosa segnalazione di Vladimiro Giacché)

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Quello che segue è il testo di una presentazione di John Bellamy Foster all'Advisory Board del Tricontinental Institute for Social Research del 31 marzo 2022

Grazie per avermi invitato a fare questa presentazione. Parlando della guerra in Ucraina, la cosa essenziale da riconoscere in primo luogo è che questa è una guerra per procura. A questo proposito, nientemeno che Leon Panetta, che è stato direttore della CIA e poi segretario alla difesa sotto l'amministrazione Obama, ha recentemente riconosciuto che la guerra in Ucraina è una "guerra per procura" degli Stati Uniti, sebbene la cosa venga raramente ammessa. Per essere espliciti, gli Stati Uniti (appoggiati dall'intera NATO) sono impegnati da lungo tempo in una guerra per procura contro la Russia, con l'Ucraina come campo di battaglia.

Secondo questa visione il ruolo degli Stati Uniti, come ha insistito Panetta, è quello di fornire sempre più armi e sempre più velocemente, con l'Ucraina che combatte, sostenuta da mercenari stranieri.

Allora come è nata questa guerra per procura? Per capirlo dobbiamo guardare alla grande strategia imperiale degli Stati Uniti risalendo al 1991, quando l'Unione Sovietica si sciolse, o addirittura agli anni '80. In questa grande strategia imperiale ci sono due fronti, uno è l’espansione e il posizionamento geopolitico, incluso l'allargamento della NATO, l'altro è la spinta degli Stati Uniti per il primato nucleare. Un terzo fronte riguarda l'economia, ma non sarà qui considerato.

Il primo fronte: l’espansione geopolitica

Il primo fronte è enunciato nelle “Linee guida per la politica di difesa degli Stati Uniti” di Paul Wolfowitz del febbraio 1992, pochi mesi dopo lo scioglimento dell'Unione Sovietica. La grande strategia imperiale adottata all'epoca e da allora perseguita aveva a che fare con l'avanzata geopolitica degli Stati Uniti nel terreno dell'ex Unione Sovietica e di quella che era stata la sfera di influenza sovietica. L'idea era quella di impedire alla Russia di riemergere come grande potenza. Questo processo di espansione geopolitica USA/NATO è iniziato immediatamente, ed è visibile in tutte le guerre USA/NATO in Asia, Africa ed Europa che hanno avuto luogo negli ultimi tre decenni. Particolarmente importante a questo riguardo è stata la guerra della NATO in Jugoslavia negli anni '90. Già mentre era in corso lo smembramento della Jugoslavia, gli Stati Uniti hanno iniziato il processo di ampliamento della NATO, spostandola sempre più a est per comprendere tutti i paesi dell'ex Patto di Varsavia e parti dell'ex URSS. Bill Clinton nella sua campagna elettorale del 1996 fece dell'allargamento della NATO una parte della sua piattaforma. Washington ha iniziato a implementare questo piano nel 1997, per poi giungere infine ad ammettere nella NATO 15 paesi, raddoppiandone le dimensioni e creando un'Alleanza Atlantica contro la Russia composta di 30 nazioni, anche dando alla NATO un ruolo interventista più globale, come in Jugoslavia, Siria e Libia.

Ma l'obiettivo era l'Ucraina. Zbigniew Brzezinski, che è stato il più importante stratega di tutto questo disegno ed era stato consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, ha affermato nella sua Grande Scacchiera del 1997 che, in particolare in Occidente, l'Ucraina era il "perno geopolitico” e che se fosse stata inserita nella NATO sotto il controllo occidentale, questo avrebbe indebolito così tanto la Russia da bloccarla totalmente, se non provocarne lo smembramento. Questo è stato l'obiettivo da sempre e i pianificatori strategici statunitensi, insieme con i funzionari di Washington e gli alleati della NATO, hanno ripetutamente affermato di voler portare l'Ucraina dentro la NATO. La NATO ha ufficializzato questo obiettivo nel 2008. Solo pochi mesi fa, nel novembre 2021 nella nuova Carta strategica tra l'amministrazione Biden a Washington e il governo Zelensky a Kiev, si è convenuto che l'obiettivo immediato fosse portare l'Ucraina nella NATO. Del resto questa era la politica della NATO ormai da molto tempo. Gli Stati Uniti negli ultimi mesi del 2021 e all'inizio del 2022 si stavano muovendo molto velocemente per militarizzare l'Ucraina e realizzare il loro obiettivo come un fatto compiuto.

L'idea, articolata da Brzezinski e altri, era che una volta che l'Ucraina fosse stata assicurata dentro la NATO, la Russia sarebbe finita. La vicinanza di Mosca con un'Ucraina trentunesima nazione dell'alleanza avrebbe consentito alla NATO un confine di 1200 miglia con la Russia, lo stesso percorso attraverso il quale gli eserciti di Hitler avevano invaso l'Unione Sovietica, ma in questo caso la Russia si sarebbe trovata di fronte alla più grande alleanza nucleare del mondo. Ciò avrebbe cambiato l'intera mappa geopolitica, dando all'Occidente il controllo dell'Eurasia a ovest della Cina.

Il modo in cui questo progetto è stato effettivamente sviluppato è importante. La guerra per procura è iniziata nel 2014, quando in Ucraina ha avuto luogo il colpo di stato di Euromaidan, ideato dagli Stati Uniti, che ha rimosso il presidente democraticamente eletto e messo al potere in gran parte gli ultranazionalisti. Il risultato immediato è stato però che l'Ucraina ha iniziato a dividersi. La Crimea era stata uno stato indipendente e autonomo dal 1991 al 1995. Nel 1995 l'Ucraina ha strappato illegalmente la Costituzione della Crimea e l'ha annessa contro la sua volontà. Il popolo della Crimea non si considerava parte dell'Ucraina ed era in gran parte di lingua russa, con profondi legami culturali con la Russia. Quando si verificò il colpo di stato con il controllo degli ultranazionalisti ucraini, la popolazione della Crimea si è voluta separare. La Russia ha dato loro l'opportunità, con un referendum, di scegliere se rimanere in Ucraina o unirsi alla Russia e hanno scelto la Russia. Tuttavia, nell'Ucraina orientale la popolazione principalmente russa è stata sottoposta a repressione da parte delle forze ultranazionaliste e neonaziste di Kiev. La russofobia e l'estrema repressione delle popolazioni di lingua russa nell'est sono iniziate con il famigerato caso delle quaranta persone fatte saltare in aria in un edificio pubblico dai neonazisti associati al battaglione Azov. In origine c'erano un certo numero di repubbliche separatiste. Due sono sopravvissute nella regione del Donbass, con popolazione prevalente di lingua russa: le repubbliche di Luhansk e Donetsk.

In questo modo in Ucraina è nata una guerra civile tra Kiev a ovest e Donbass a est. Ma è stata anche una guerra per procura con gli Stati Uniti/NATO a sostegno di Kiev e la Russia a sostegno del Donbass. La guerra civile è iniziata subito dopo il colpo di stato, quando la lingua russa è stata praticamente bandita, tanto che le persone potevano essere multate per aver parlato russo in un negozio. È stato un attacco alla lingua e alla cultura russa e una violenta repressione delle popolazioni della parte orientale dell'Ucraina.

Inizialmente, nella guerra civile ci sono state circa 14.000 vittime nella parte orientale del paese, con qualcosa come 2,5 milioni di profughi che si sono rifugiati in Russia. Gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015 hanno portato a un cessate il fuoco, mediato da Francia e Germania e sostenuto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo questi accordi le Repubbliche di Luhansk e Donetsk ricevevano uno status autonomo all'interno dell'Ucraina. Ma Kiev ha continuato sempre a infrangere gli accordi di Minsk, continuando ad attaccare le repubbliche separatiste del Donbass, anche se su scala ridotta, e gli Stati Uniti hanno continuato a fornire addestramento militare e armi.

Tra il 1991 e il 2021 Washington ha fornito un'enorme sostegno militare a Kiev. Dal 1991 al 2014 l'aiuto militare diretto a Kiev dagli Stati Uniti è stato di 3,8 miliardi di dollari. Dal 2014 al 2021 è stato di 2,4 miliardi di dollari, in aumento, e infine è salito alle stelle una volta che Joe Biden è entrato in carica a Washington. Gli Stati Uniti stavano militarizzando l'Ucraina molto velocemente. Il Regno Unito e il Canada hanno addestrato circa 50.000 soldati ucraini, senza contare quelli addestrati dagli Stati Uniti. La CIA in realtà ha addestrato il battaglione Azov e i paramilitari di destra. Tutto questo aveva come obiettivo la Russia.

I russi erano particolarmente preoccupati per l'aspetto nucleare, dal momento che la NATO è un'alleanza nucleare, e se l'Ucraina fosse entrata nella NATO e i missili fossero stati collocati in Ucraina, avrebbe potuto verificarsi un attacco nucleare prima che il Cremlino avesse il tempo di rispondere. In Polonia e Romania ci sono già strutture di difesa anti-missili balistici, cruciali come armi di contrasto in un primo attacco della NATO. Inoltre, è importante capire che i sistemi di difesa missilistica Aegis collocati lì sono anche in grado di lanciare missili nucleari offensivi. Tutto ciò ha influito sull'ingresso della Russia nella guerra civile ucraina. Nel febbraio 2022 Kiev stava preparando un'importante offensiva, con 130.000 soldati ai confini del Donbass a est e sud, con il continuo supporto USA/NATO. Questo superava le linee rosse chiaramente articolate di Mosca. In risposta, la Russia ha prima dichiarato che gli accordi di Minsk erano falliti e che le repubbliche del Donbass dovevano essere considerate stati indipendenti e autonomi. È poi intervenuta nella guerra civile ucraina al fianco del Donbass, in linea con quella che considerava la propria difesa nazionale.

Il risultato è una guerra per procura tra Stati Uniti/NATO e Russia combattuta in Ucraina, sviluppatasi a seguito di una guerra civile nella stessa Ucraina, iniziata con un colpo di stato progettato dagli Stati Uniti. Ma a differenza di altre guerre per procura tra stati capitalisti, questa si sta verificando ai confini di una delle grandi potenze nucleari mondiali ed è provocata dalla prolungata strategia del grande impero di Washington, volta a catturare l'Ucraina per conto della NATO al fine di distruggere la Russia come grande potenza e stabilire, come affermava Brzezinski, la supremazia degli Stati Uniti sull'intero globo. Ovviamente, questa particolare guerra per procura comporta gravissimi pericoli, a un livello mai visto dalla crisi dei missili cubani. In seguito all'offensiva russa, la Francia ha dichiarato che la NATO era una potenza nucleare e subito dopo, il 27 febbraio, i russi hanno messo in massima allerta le loro forze nucleari.

Un'altra cosa da capire sulla guerra per procura è che i russi hanno cercato con notevole successo di evitare vittime civili. Le popolazioni di Russia e Ucraina sono strettamente interconnesse e Mosca ha tentato di contenere le vittime civili. I dati delle forze armate statunitensi ed europee indicano che le vittime civili sono notevolmente più basse rispetto allo standard delle guerre statunitensi. Un'indicazione di ciò è che le vittime militari delle truppe russe sono maggiori delle vittime civili degli ucraini, che è l'opposto di come funziona la guerra degli Stati Uniti. Se si guarda a come gli Stati Uniti combattono una guerra, ad esempio in Iraq, si nota che attaccano gli impianti elettrici e idrici e l'intera infrastruttura civile, con la motivazione che ciò creerà dissenso nella popolazione e una rivolta contro il governo. Ma prendere di mira le infrastrutture civili aumenta naturalmente le vittime civili, come in Iraq, dove le vittime civili dell'invasione statunitense sono state nell'ordine di centinaia di migliaia. La Russia, al contrario, non ha cercato di distruggere le infrastrutture civili, cosa che avrebbe potuto fare facilmente. Anche nel bel mezzo della guerra, stanno ancora vendendo gas naturale a Kiev, rispettando i loro contratti, e non hanno distrutto Internet in Ucraina.

La Russia è intervenuta principalmente con l'obiettivo di liberare il Donbass, gran parte del quale era occupato dalle forze di Kiev. Una priorità era ottenere il controllo di Mariupol, il porto principale, per rendere praticabile il Donbass. Mariupol è stata occupata dal battaglione neonazista Azov. Il battaglione Azov ora controlla meno del 20% della città. Si stanno nascondendo nei vecchi bunker sovietici in una parte della città. La milizia popolare di Donetsk e i russi controllano il resto. Ci sono circa 100.000 forze paramilitari in Ucraina. La maggior parte dei paramilitari all'interno delle forze ucraine, che costituivano la maggior parte delle 130.000 truppe che circondavano il Donbass, sono state ora tagliate fuori dall'esercito russo. Oltre a prendere il controllo del Donbass insieme alle milizie popolari, Mosca cerca di costringere l'Ucraina a smilitarizzarsi e ad accettare uno status neutrale, rimanendo fuori dalla NATO.

Se si osserva la situazione dal punto di vista degli accordi di pace – e il Global Times ne ha riportato un buon resoconto il 31 marzo – si può vedere su cosa si svolge la guerra. Kiev ha provvisoriamente accettato la neutralità, che dovrà essere controllata da alcuni garanti occidentali, come il Canada. Ma il punto critico dei negoziati è ciò che Kiev chiama "sovranità". Riguardo il Donbass e la guerra civile, l'Ucraina insiste sul fatto che il Donbass fa parte del territorio sovrano, indipendentemente dai desideri della popolazione nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. La gente nelle repubbliche del Donbass e i russi non possono accettare questo. In effetti, le milizie popolari e i russi stanno ancora lavorando per liberare parti del Donbass occupate da queste forze paramilitari. È questo il principale punto critico dei negoziati, che risale alla realtà della guerra civile in Ucraina. Il ruolo degli Stati Uniti in questo è stato quello di fungere da sabotatore nei negoziati.

Il secondo fronte: la spinta al primato nucleare

Qui è necessario passare al secondo obiettivo della 'Strategia Imperiale' degli Stati Uniti. Finora ho discusso la grande strategia imperiale in termini di geopolitica, di espansione nel territorio dell'ex Unione Sovietica e della sfera di influenza sovietica, che è stata articolata nel modo più efficace da Brzezinski. Ma c'è un altro fronte della grande strategia imperiale statunitense che deve essere discusso in questo contesto, ed è la spinta verso un nuovo primato nucleare. Se si legge Il Grande Scacchiere di Brzezinski, il suo libro sulla strategia geopolitica degli Stati Uniti, non si troverà una sola parola sulle armi nucleari. Il termine nucleare non compare affatto nel suo libro, mi pare. Eppure questo è ovviamente un punto cruciale della strategia generale degli Stati Uniti rispetto alla Russia. Nel 1979, sotto Jimmy Carter, quando Brzezinski era il suo consigliere per la sicurezza nazionale, fu deciso di andare oltre la Mutual Assured Destruction (MAD) e per gli Stati Uniti di perseguire una ‘strategia di controforza’ del primato nucleare. Ciò comportava il posizionamento di missili nucleari in Europa. Nella sua A Letter to America, che appare in Protest and Survive pubblicato dalla Monthly Review Press nel 1981, lo storico marxista e attivista anti-nucleare E.P. Thompson cita Brzezinski, il quale ammette che la strategia degli Stati Uniti si era spostata su una ‘guerra di controforza’.

Per spiegarlo, è necessario tornare un po' indietro. Negli anni '60 l'Unione Sovietica aveva raggiunto la parità nucleare con gli Stati Uniti. C'è stato un grande dibattito all'interno del Pentagono e dell'establishment della sicurezza su questo, perché la parità nucleare significava MAD. Significava ‘Mutua Distruzione Assicurata’. E qualunque nazione, non importava quale, avesse attaccato l'altra, entrambe sarebbero state completamente distrutte. Robert McNamara, il segretario alla difesa di John F. Kennedy, iniziò a promuovere la nozione di controforza per aggirare la MAD. Essenzialmente, ci sono due tipi di attacchi nucleari. Uno è la 'guerra di controvalore' (forza equivalente da entrambe le parti, ndt) che prende di mira le città, la popolazione e l'economia dell'avversario. Questo è ciò su cui si basa la MAD. L'altro tipo di attacco è una 'guerra di controforza' mirata a distruggere le forze nucleari nemiche prima che possano essere lanciate. E, naturalmente, una strategia di controforza è la stessa cosa di una strategia di ‘First Strike’ (colpire per primi, ndt). Gli Stati Uniti sotto McNamara iniziarono a esplorare la controforza. McNamara poi decise che un simile approccio era folle e decise di utilizzare la MAD come politica di deterrenza degli Stati Uniti. Questa situazione è andata avanti per la maggior parte degli anni '60 e '70. Ma nel 1979, nell'amministrazione Carter, quando Brzezinski era il consigliere per la sicurezza nazionale, decisero di attuare una strategia di controforza. Gli Stati Uniti a quel tempo decisero di localizzare i missili Pershing II e i missili da crociera con armi nucleari in Europa. Ciò ha portato alla nascita del movimento europeo per il disarmo nucleare, il grande movimento europeo per la pace.

Washington inizialmente ha messo i missili nucleari intermedi Pershing II, così come i missili da crociera, in Europa. Questo è diventato un grosso problema per il movimento per la pace sia in Europa che negli Stati Uniti. I pericoli di una guerra nucleare erano enormemente aumentati. L'amministrazione Reagan promosse pesantemente la strategia della controforza e aggiunse la sua ‘Iniziativa di Difesa Strategica’ ispirata alla fantascienza (meglio conosciuta con il soprannome di Star Wars), che prevedeva un sistema in grado di abbattere contemporaneamente tutti i missili nemici. Questa era in gran parte una fantasia. Alla fine, la corsa agli armamenti nucleari in questo periodo è stata interrotta dai movimenti di massa per la pace in Europa su entrambi i lati del muro di Berlino e dal movimento per il congelamento nucleare negli Stati Uniti, nonché dell'ascesa di Gorbaciov in Unione Sovietica. Ma dopo lo scioglimento dell'URSS, Washington ha deciso di portare avanti la strategia della controforza e la sua spinta verso il primato nucleare.

Nel corso dei successivi tre decenni, Washington ha continuato a sviluppare armi e strategie di controforza, potenziando le capacità statunitensi in tal senso, al punto che nel 2006 è stato dichiarato che gli Stati Uniti erano vicini al primato nucleare, come spiegato all'epoca in Foreign Affairs, pubblicato dal Council on Foreign Relations, il principale centro della grande strategia statunitense. L'articolo su Foreign Affairs dichiarava che la Cina non aveva un deterrente nucleare contro un primo attacco degli Stati Uniti, visti i miglioramenti nella tecnologia di puntamento e rilevamento degli Stati Uniti, e che nemmeno i russi potevano più contare sulla sopravvivenza del loro deterrente nucleare. Washington stava premendo per raggiungere il primato nucleare completo. Tutto questo è andato di pari passo con l'allargamento della NATO in Europa, perché parte della strategia della controforza consisteva nell'avvicinare sempre più le armi della controforza alla Russia per ridurre il tempo di risposta da parte di Mosca.

La Russia era l'obiettivo principale della strategia. Mentre la Cina era chiaramente destinata a essere l'obiettivo successivo. Poi Trump ha deciso di perseguire la distensione con la Russia e concentrarsi sulla Cina. Ciò ha scombussolato le cose per un po', destabilizzando la grande strategia USA/NATO, poiché l'allargamento della NATO era una parte essenziale della strategia del primato nucleare. Una volta che l'amministrazione Biden è entrata in carica, si è cercato di recuperare il tempo perduto stringendo il cappio dell'Ucraina intorno alla Russia.

In tutto questo i russi – ormai uno stato capitalista che sta riguadagnando uno status di grande potenza – non si sono fatti ingannare. Lo hanno visto arrivare. Nel 2007 Vladimir Putin dichiarò che il mondo unipolare era impossibile, che gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di raggiungere il primato nucleare. Sia la Russia che la Cina hanno iniziato a sviluppare armi che avrebbero aggirato la strategia degli Stati Uniti della controforza. L'idea di un primo attacco è che l'attaccante – e solo gli Stati Uniti hanno qualcosa di simile a questa capacità – colpisce i missili terrestri, sia in silos temprati che mobili, e tracciando i sottomarini è in grado di eliminare anche quelli. Il ruolo dei sistemi missilistici antibalistici è quindi quello di eliminare qualsiasi attacco di rappresaglia rimasto. Naturalmente l'altra parte, ovvero Russia e Cina che sono anch’esse tra le grandi potenze nucleari, sanno tutto questo, quindi fanno tutto il possibile per proteggere la loro capacità di deterrenza nucleare o di attacco di rappresaglia. Negli ultimi anni Russia e Cina hanno sviluppato missili ipersonici. Questi missili si muovono straordinariamente veloci, al di sopra di Mach 5 e allo stesso tempo sono manovrabili, quindi non possono essere fermati da sistemi missilistici antibalistici, indebolendo la capacità di controforza degli Stati Uniti. Gli stessi Stati Uniti non hanno ancora sviluppato tecnologie missilistiche ipersoniche di questo tipo. Questo tipo di arma è ciò che la Cina definisce "colpire l’assassino", il che significa che può essere utilizzata da una potenza inferiore per contrastare un avversario con un potere militare schiacciante. Ciò aumenta quindi il deterrente fondamentale di Russia e Cina, proteggendo le loro capacità di ritorsione in caso di primo attacco contro i rispettivi territori. Questo è uno dei principali fattori che sta contrastando le capacità di primo attacco degli Stati Uniti.

Un altro aspetto in questo braccio di ferro nucleare è il predominio USA/NATO nei satelliti. È in gran parte per questo che la precisione nel colpire il bersaglio del Pentagono ora è così accurata da poter concepire la possibilità di distruggere i silos missilistici temprati con testate più piccole, a causa dell'assoluta precisione del loro puntamento, e prendere di mira anche i sottomarini. Tutto questo ha a che fare con i sistemi satellitari. È opinione diffusa che questo dia agli Stati Uniti la capacità di distruggere silos missilistici rinforzati o almeno centri di comando e controllo con armi che non sono nucleari, o con testate nucleari più piccole, a causa della maggiore precisione. Gli eserciti russo e cinese si sono quindi concentrati molto sulle armi anti-satellite per eliminare questo vantaggio.

Inverno e olocausto nucleare

Tutto ciò può suonare già abbastanza brutto, ma è necessario dire qualcosa sull'inverno nucleare. L'esercito americano, e immagino che sia vero anche per l'esercito russo, a leggere i loro documenti declassificati, risulta che si sia completamente allontanato dalla scienza sulla guerra nucleare. Nel documento declassificato sugli armamenti nucleari e la guerra nucleare non si fa alcuna menzione delle tempeste di fuoco nella guerra nucleare. Ma in un attacco nucleare le tempeste di fuoco sono in realtà ciò che provoca il maggior numero di morti. Le tempeste di fuoco in un attacco termonucleare possono diffondersi su una città per 150 miglia quadrate. Le istituzioni militari, che sono tutte concentrate sul combattere e prevalere in una guerra nucleare, nelle loro analisi e anche nei calcoli della MAD non tengono conto delle tempeste di fuoco. Ma c'è anche un'altra ragione per questo, poiché le tempeste di fuoco sono ciò che genera l'inverno nucleare.

Nel 1983, quando le armi di contrasto venivano piazzate in Europa, scienziati atmosferici sovietici e americani, lavorando insieme, crearono i primi modelli di inverno nucleare. Un certo numero di scienziati chiave, sia nell'Unione Sovietica che negli Stati Uniti, sono stati coinvolti nella ricerca sui cambiamenti climatici, che è essenzialmente l'inverso dell'inverno nucleare, anche se non così brusco. Questi scienziati hanno scoperto che in una guerra nucleare con tempeste di fuoco in 100 città, l'effetto sarebbe stato un calo della temperatura media globale di una misura che Carl Sagan all'epoca disse arrivare fino a "diverse decine di gradi" Celsius. Successivamente hanno fatto marcia indietro con ulteriori studi e hanno affermato che il calo sarebbe arrivato fino a venti gradi Celsius. Possiamo immaginare cosa significhi. Le tempeste di fuoco porterebbero la fuliggine e il fumo nella stratosfera, bloccando fino al 70% dell'energia solare che raggiunge la terra, il che significherebbe la fine di tutti i raccolti sulla Terra. Ciò distruggerebbe quasi tutta la vita vegetativa, così che gli effetti nucleari diretti nell'emisfero settentrionale sarebbero accompagnati dalla morte di quasi tutti anche nell'emisfero meridionale. Solo poche persone sul pianeta potrebbero sopravvivere.

Gli studi sull'inverno nucleare sono stati criticati dai militari e dall'establishment negli Stati Uniti, in quanto esagerati. Ma nel 21° secolo, a partire dal 2007, gli studi sull'inverno nucleare sono stati ampliati, replicati e convalidati numerose volte. Hanno dimostrato che anche in una guerra tra India e Pakistan, utilizzando bombe atomiche con il potenziale distruttivo di quella di Hiroshima, il risultato sarebbe un inverno nucleare non così rigido, ma capace di ridurre l'energia solare che raggiunge il pianeta in misura tale da uccidere miliardi di persone. Al contrario, in una guerra termonucleare globale, come hanno dimostrato i nuovi studi, l'inverno nucleare potrebbe essere anche peggiore di quanto avevano determinato gli studi originali negli anni '80. E questa è la scienza, accettata nelle principali pubblicazioni scientifiche sottoposte a revisione paritaria e i cui risultati sono stati ripetutamente convalidati. È molto chiaro in termini scientifici che se ci sarà uno scontro termonucleare globale, questo ucciderà l'intera popolazione della Terra, con forse alcuni resti della specie umana che potranno sopravvivere da qualche parte nell'emisfero meridionale. Il risultato sarà un olocausto nucleare planetario.

All'inizio McNamara pensava che la controforza fosse una buona idea, perché era vista come una strategia No-Cities. Gli Stati Uniti avrebbero potuto semplicemente distruggere le armi nucleari dell'altra parte e lasciare intatte le città. Ma questa idea è rapidamente sfumata, e nessuno ci crede più, perché la maggior parte dei centri di comando e controllo si trovano dentro o vicino alle città. Non c'è modo che questi possano essere tutti distrutti in un primo attacco senza attaccare le città. Inoltre per quanto riguarda le maggiori potenze nucleari, non c'è modo che il deterrente nucleare dell'altra parte possa essere completamente distrutto, e anche una parte relativamente piccola degli arsenali nucleari delle grandi potenze può distruggere tutte le grandi città dell'altra parte. Pensare diversamente significa perseguire una fantasia pericolosa che aumenta le possibilità di una guerra termonucleare globale capace di distruggere l'umanità. Ciò significa che i maggiori analisti nucleari, ora profondamente impegnati nelle teorie della controforza, stanno promuovendo la follia totale. I pianificatori della guerra nucleare fingono di poter prevalere in una guerra nucleare. Eppure, ora sappiamo che la MAD, la distruzione reciproca assicurata, come era originariamente immaginata, è meno estrema di ciò che oggi comporta una guerra termonucleare globale. La distruzione reciproca assicurata significava che entrambe le parti sarebbero state distrutte, a centinaia di milioni. Ma l'inverno nucleare significa che praticamente l'intera popolazione del pianeta viene eliminata.

La strategia di controforza, la spinta verso la capacità di primo attacco o primato nucleare, significa che la corsa agli armamenti nucleari continua ad aumentare, nella speranza di eludere la MAD, mentre in realtà minaccia l'estinzione umana. Anche se il numero delle armi nucleari è limitato, la cosiddetta "modernizzazione" dell'arsenale nucleare, in particolare da parte degli Stati Uniti, è progettata per rendere pensabile una controforza e quindi un primo attacco. Ecco perché Washington si è ritirata dai trattati nucleari come il Trattato ABM e il Trattato sui missili nucleari a raggio intermedio, visti come un blocco alle armi di controforza che interferiva con la spinta del Pentagono verso il primato nucleare. Washington ha abbandonato tutti quei trattati, mentre è stata disposta ad accettare un limite al numero totale di armi nucleari, perché il gioco veniva giocato in un modo diverso. La strategia degli Stati Uniti è ora focalizzata sulla controforza, non sul controvalore.

C’è molto da comprendere, in poco tempo. Ma penso che sia importante conoscere i due fronti della grande strategia imperiale USA/NATO per capire perché il Cremlino si considera minacciato, e perché ha agito come ha fatto, e perché questa guerra per procura è così pericolosa per tutto il mondo. Quello che dovremmo tenere a mente in questo momento è che tutte queste manovre per la supremazia mondiale assoluta ci hanno portato sull'orlo di una guerra termonucleare globale e di un olocausto nucleare globale. L'unica risposta è creare un movimento di massa mondiale per la pace, l'ecologia e il socialismo.

Fonte

Le mappe inconfessabili di Kiev

di Fabio Mini

Delle operazioni russe – fallimentari, è ovvio – sappiamo luogo e nomi dei generali. Di quelle ucraine nulla. Svelerebbero la massa di armi fornite dagli Usa dal ’94. E una catena di comando a croci uncinate

Dopo due mesi di guerra, le mappe delle operazioni che ci vengono generosamente offerte dall’Ucraina o dal Pentagono (sono le stesse) sono ancora semi mute. Parlano delle zone conquistate o perdute dagli ucraini, ma non dicono dove e quali sono le forze impiegate. Gli stessi esperti internazionali si sprecano nell’indicare numero, livello e posizione delle forze russe, ma non dicono dove sono quelle ucraine. È sempre più evidente che le cosiddette “mappe delle operazioni” che appaiono sui nostri televisori vogliono presentare una situazione surreale nella quale esiste soltanto un attore irresponsabile. Le mappe dei tecnici e degli “esperti”, più dettagliate, sono sullo stesso livello e, senza indicare nessuna unità ucraina, tendono a presentare come brutali e criminali le operazioni russe riuscite e “fallite” quelle che non si sono svolte come da loro stessi anticipato, previsto, auspicato e sognato. È chiaro l’intento di disinformare facendo riferimento a una sola parte, ma è legittimo il “sospetto” che si voglia aumentare la propria credibilità con numeri sempre rigorosamente dispari (prima regola della manipolazione: i numeri pari non sono credibili) e precisando gli identificativi dei reparti russi in combattimento, nomi e cognomi dei comandanti e delle loro famiglie.

Del resto gli hacker hanno già compilato le liste di proscrizione su 120.000 soldati russi ricavate dalle liste di leva e nemmeno aggiornate. Se fossimo sicuri che gli ucraini leggono i nostri giornali e guardano le nostre televisioni dovremmo aspettarci ringraziamenti per questa partecipazione attiva più di quanto dovrebbero fare (ma non fanno) per l’invio di armi. Un altro legittimo sospetto che nasce dalle mappe semi mute è che il motivo dell’omissione non sia soltanto una misura di sicurezza operativa: in ogni guerra, a partire da quella di Troia, gli Stati maggiori non sono mai arrivati ad “ammutolire” completamente la rappresentazione delle forze contrapposte. La ragione vera può invece stare al livello superiore a quello militare e locale. E qui sicurezza operativa e censura sono obbligate non tanto per evitare l’effetto sull’avversario quanto quello sul proprio fronte interno e su quello esterno degli alleati e simpatizzanti. Nel lanciare l’invasione, la Russia per bocca del suo presidente ha indicato subito, fra gli altri (i.e. neutralità e non adesione alla Nato), gli obiettivi strategici di demilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina. Entrambi non riguardano la popolazione “civile”, ma chi combatte: militare, paramilitare, civile, volontario o obbligato, a contratto o a gratis. Potrebbero sembrare parole ovvie, retoriche o sibilline a chi partecipa agli eventi da lontano, con bibita e pop corn in mano non sapendo cosa succede e perché; ma chi le ascolta e valuta in base a quello che sa ha un’impressione diversa. Zelensky le ha infatti prese molto sul serio perché sa a cosa e chi si riferiscono. Le grandi mappe dell’ucraina che gli hanno mostrato i suoi stati maggiori quando ha assunto la carica nel 2019 e quelle mostrate dal Pentagono nel 2021, e successivamente dagli inviati della Nato e della Ue comprendevano tutte le risorse disponibili e quelle che si sarebbero rese disponibili in caso di guerra.

In particolare, le carte dell’intelligence politico-militare indicavano chiaramente chi era nel mirino dei russi. Se nei giorni precedenti l’invasione il presidente Zelensky ostentava sicurezza e giocava al ribasso nel giudizio sulle intenzioni dei russi e se addirittura durante i primi giorni di conflitto intendeva trattare su tutto, non era soltanto perché era stato convinto che i russi stavano bluffando, o che avrebbe ricevuto il sostegno militare necessario alla vittoria, ma perché era certo che nessuno dei suoi alleati e sostenitori avrebbe sindacato su quante e quali forze avrebbe messo in campo. Tuttavia proprio quelle mappe avrebbero avuto un effetto disastroso sull’immagine del presidente eroe dell’ucraina democratica sottoposta a una invasione illegale e immotivata. L’annunciata demilitarizzazione russa si riferiva in particolare a tutte le forze armate regolari e irregolari, a tutte le armi fornite negli otto anni precedenti dagli americani e dalla Nato e significava render conto del fiume di denaro ricevuto dall’ucraina a partire dal 1994. La denazificazione si riferiva a tutte le forze e le istituzioni controllate dagli estremisti ultranazionalisti e neonazisti, ai contractor pagati dal Pentagono e dagli oligarchi. Il presidente Zelensky non poteva e non può permettersi di mostrare in una mappa qualsiasi nessuna di tali forze e se volesse farlo non glielo permetterebbero proprio coloro che da vent’anni hanno puntato sull’Ucraina per fottere la Russia e l’Europa. Cancellando dalle mappe operative gli obiettivi della demilitarizzazione e della denazificazione sarebbe rimasto di “presentabile” soltanto ciò che riguardava i russi: esattamente ciò che si vede da due mesi. Le parole demilitarizzazione e denazificazione hanno fatto entrare in tilt anche l’Europa e la Nato. La demilitarizzazione dell’ucraina porterebbe allo scoperto e al fallimento l’intensa attività di militarizzazione di quel Paese svolta dalla Nato e dall’Europa e renderebbe inutile lo sforzo di completare la militarizzazione dell’intero continente: un cuscinetto neutrale e disarmato in Ucraina, oltre a essere contagioso, impedirebbe il riarmo europeo chiesto e ottenuto dagli Stati Uniti. Per questo ogni trattativa in tal senso deve essere bloccata.

Ma ancora più devastante sarebbe la denazificazione. Se sulla mappa dell’Ucraina si applicassero i simboli filonazisti che normalmente usano i miliziani dell’Azov, e non solo, in corrispondenza delle più alte sfere di governo e parlamentari, della classe politica, finanziaria e imprenditoriale, degli enti paramilitari, di polizia e civili fino ai sindaci e capi villaggio che pretendono di essere nazionalisti ma che in realtà sono sotto il controllo di gruppi e individui neonazisti, la carta geografica dell’Ucraina sarebbe disseminata di croci uncinate e simboli simili. E se gli stessi simboli si applicassero sulle mappe dell’Europa, della Nato e degli Stati Uniti in corrispondenza di governi, gruppi e individui ultranazionalisti, guerrafondai, maccartisti, intolleranti, razzisti, sovranisti, primatisti, nazifascisti e seminazisti la nostra presunzione collettiva d’innocenza, libertà e democrazia cadrebbe assieme a quella dell’Ucraina e in modo ancor più rovinoso. E allora dobbiamo renderci conto che Zelensky ha ragione: l’Ucraina è Europa, è Nato e insieme dobbiamo combattere fino all’ultima goccia di sangue perché le mappe continuino a essere semi mute. Dai poli all’equatore.

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In Ucraina partiti d’opposizione fuorilegge per dieci anni

In Ucraina, un progetto di legge vuole bandire l’opposizione per i prossimi dieci anni. Il 26 aprile 2022, un disegno di legge, registrato nel Consiglio Supremo dell’Ucraina, proibisce a tutti i membri della sinistra, così come ai membri di alcuni partiti di opposizione, di partecipare alle elezioni presidenziali, alle elezioni parlamentari, comunali e persino ai consigli di villaggio.

Se questa legge sarà approvata, tale divieto sarà in vigore per 10 anni.

Il divieto si applicherà ai fondatori e ai membri ordinari di tali partiti:

– Partito Comunista d’Ucraina,

– Partito Socialista d’Ucraina,

– Partito dei “Socialisti”

– Unione delle Forze di Sinistra,

– Opposizione di Sinistra,

– Partito Socialista Progressista,

– Partito Socialdemocratico d’Ucraina (unito),

– Piattaforma dell’Opposizione – Per la vita,

– Partito della Sharia,

– “Our” (Nostro, ndt),

– Partito delle Regioni,

– Blocco d’Opposizione,

– Derzhava,

– Vladimir Saldo Block.

La maggior parte di questi partiti sono stati banditi il 20 marzo dal decreto incostituzionale di Zelenskiy per la durata della legge marziale.

Il Parlamento dell’Ucraina è anche pronto ad adottare un disegno di legge che semplificherà la procedura di messa al bando dei partiti che hanno un’opinione diversa dalle autorità di Kyiv e dalle formazioni di estrema destra su ciò che sta succedendo in Ucraina.

Ci sono pochi dubbi che questa legge sarà approvata. E dopo questo, tutti i partiti menzionati sopra saranno completamente vietati per un mese (tale periodo è specificato nel progetto di legge).

Un altro progetto di legge propone di privare del loro mandato tutti i deputati della fazione della “Piattaforma dell’opposizione – Per la vita”. Questa è la seconda compagine più grande, che rappresenta l’opposizione sistematica alle autorità.

Così, nel prossimo futuro, qualsiasi movimento di sinistra, anche solo di opposizione alle autorità e all’ultradestra, sarà vietato in Ucraina.

C’è anche un progetto di legge nel Consiglio Supremo dell’Ucraina per vietare la Ukrainian Orthodox Church (UOC), la più grande organizzazione religiosa in Ucraina.

Lo speaker Ruslan Stefanchuk ha detto però che il parlamento non prenderà in considerazione questo disegno di legge fino alla fine della guerra, poiché potrebbe “dividere la società“.

Ma dopo la fine delle ostilità, l’UOC potrebbe essere legalmente bandita.

Nel frattempo, i sacerdoti dell’UOC e i suoi sostenitori, come il poeta Yan Taksyur, sono sottoposti a repressione, e le chiese dell’UOC sono sequestrate da rappresentanti di formazioni armate di estrema destra per trasferirle alla Orthodox Church of Ukraine, che sostiene le autorità.

Il “modello ucraino”, costruito dal 2014, non può esistere senza divieti di canali televisivi, siti web, partiti, chiese. Senza odio, repressione e “immagine del nemico”.

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Ucraina: “persone normali trasformate in virus”

Già all’epoca dei fatidici anni ’90 – dopo il complotto della Belovežskaja Pušča e l’inizio (meglio sarebbe: l’aperta riproposizione) della “ucrainizzazione” dell’Ucraina, questa volta, però, in chiave non sovietica, bensì basata sul nazionalismo più reazionario – un caro amico moscovita era solito dire che non è pensabile costruire una identità nazionale a partire dall’odio per un’altra nazione, tantomeno per una nazione vicina.

Se questo era già così evidente trent’anni fa, oggi, otto anni dopo il golpe nazista del febbraio 2014 e dopo due mesi di guerra (pardon: di “resistenza”) che Kiev dice di combattere in nome della «nazione ucraina», ma in realtà facendosi strumento degli obiettivi euro-atlantici USA-UE-NATO – condotti, dalle formazioni naziste, all’insegna e coi metodi che furono di OUN-UPA negli anni ’40 e una buona metà degli anni ’50, sacrificando centinaia di propri connazionali per allestire le “stragi delle truppe russe” – oggi, si diceva, non solo è evidente, ma gli stessi nazionalisti ucraini non fanno nulla per nasconderlo.

Anzi, mentre obbediscono agli ordini e agli interessi d’oltreoceano, mettono in pratica le idee di uno dei primi rappresentanti del nazionalismo ucraino, quel Dmytro Dontsov che “teorizzava” guerra, violenza, razzismo, xenofobia, in particolare la russofobia.

Oggi, dunque, scrive ad esempio Platon Besedin sulla russa IARex, le forze russe hanno il dovere di battersi non con gli ucraini, non con le infrastrutture e nemmeno con il cosiddetto “Occidente collettivo” (su quest’ultimo punto, ci permettiamo qualche dubbio), bensì innanzitutto con «il demone del nuovo fascismo, contro il demonio della menzogna».

Con questo obiettivo, è importante chiedersi se sia mai esistita una diversa Ucraina, senza nazismo e odio per le persone. Secondo Besedin, l’Ucraina giusta è quella «intellettuale e creativa», rappresentata dai suoi scienziati, pensatori, luminari, che hanno dedicato la vita a “creare” e non a “lottare contro” qualcuno.

Ma un’Ucraina simile, indipendente, non rientrava nei disegni esterni: non a caso Zbigniew Brzezinski, nel suo La grande scacchiera, le assegnava il ruolo di cellula chiave nel gioco contro la Russia. E in quella cellula, in quella gabbia, afferma Besedin, i primi a pagare sono stati gli intellettuali, gettati in galera o eliminati, come Oles Buzina o Oleg Kalašnikov.

Oggi, il fascismo di tipo nuovo opera per cancellare dalle menti degli ucraini i crimini commessi, sia in passato, che più di recente: dai massacri a Babij Jar nel 1941 e Khatyn’ nel 1943, in Volinija, fino alla Casa dei sindacati a Odessa il 2 maggio 2014, alla strage di Mariupol del successivo 9 maggio.

Con tutte quelle stragi, conclude Besedin, in Ucraina si è cercato di rimuovere tutto quanto di creativo, di intellettuale contribuisse a creare un’Ucraina diversa dal ruolo di “pigmeo” assegnatole sulla scacchiera, distruggendo la razionalità e lasciando solo il lato selvaggio, primitivo, brutale del paese.

Non a caso, l’espressione più aperta di tanta brutalità è data dalle formazioni naziste ucraine che, a parere dello scrittore Aleksej Kočetkov, autore di Il sole nero dell’Ucraina, costituiscono degli “ordini pagani”, spietati nei confronti non solo dei nemici, ma anche del proprio popolo e dei propri seguaci.

Esemplare il caso del “battaglione Azov”, che in occidente era definito nazista fino a qualche anno fa, ma che oggi, quando c’è bisogno del suo “lavoro”, viene ri-qualificato come “di estrema destra”.

Prima del golpe del 2014, le diverse formazioni nazionaliste avevano cercato di dar vita a una “casa comune”, dando forma politica a Pravyj sektor, ma non fu trovato un accordo e, con l’attacco al Donbass, tutti i diversi conglomerati “politici” presero a creare propri battaglioni armati, sostenuti dalle strutture statali e dai vari oligarchi.

Nel caso di “Azov”, si trattava di difendere gli interessi, pubblici e privati, tanto dell’ex Ministro degli interni Arsen Avakov, che del miliardario Igor Kolomojskij.

Oggi, è lecito mettere un segno di uguaglianza tra le categorie di “ucrainismo” e di nazismo, nella sua versione ucraina, ereditata dalle concezioni di Dmytro Dontsov (nel 1923 scriveva «Siamo noi fascisti? Lo spirito politico e morale-psicologico che anima i nazionalisti ucraini è indiscutibilmente fascista») divenute, dopo il 2014, patrimonio di quasi tutti i partiti ucraini e volte a eliminare – dice Kočetkov – da quella “massa biologica” che è il moderno popolo ucraino, tutto ciò che sia legato a cultura e civiltà russe, dichiarate ostili alla natura stessa della “ucrainicità”.

Tutti gli adepti di tale “nuova religione”, sebbene costituiscano una minoranza, sono animati dalla lotta della razza bianca contro le manifestazioni aliene dell’oriente, le orde ostili e il loro dominio sul suolo ucraino, di cui la Russia, nella loro comprensione, «non è che l’incarnazione», mentre l’Ucraina sarebbe «l’avanguardia della civiltà occidentale nella lotta contro la barbarie orientale».

I russi, cioè, non sarebbero nemmeno slavi, ma asiatici, discendenti addirittura non dei mongoli, ma di tribù cannibali preistoriche. Queste “tesi” sono messe nero su bianco nella “Filosofia e ideologia della rivoluzione ucraina”, pubblicata da “Azov” in lingua russa.

Nella rappresentazione di una “Ucraina per gli ucraini”, che scaturisce direttamente dagli scritti di Dontsov, la grande “bio-massa” del popolo deve solo servire i bisogni dei “veri ucraini”, che occupano le due caste superiori della nazione: sacerdoti e combattenti.

La brutalità di “Azov” è legata al fatto che essi credono che la morale moderna, da distruggere, sia stata creata dai giudeo-cristiani per tenere sottomessi i veri ariani, incatenare i veri istinti di razza degli autentici dominatori.

In questa cornice, i riti occulti occupano un posto di rilievo, con rituali satanici e “Sole nero”, fiaccolate notturne, culto del sangue e persino sacrifici umani, senza risparmiare nemmeno propri adepti, se non corrispondono ai dogmi stabiliti.

Tutto questo, in Occidente, viene visto come arma perfetta contro la Russia: questa “ideologia” distrugge la società, la sconvolge dall’interno come una cellula cancerosa; «in Ucraina, in meno di dieci anni, persone normali si sono trasformate in “virus”».

Ma è impensabile che ciò sia vero per tutti gli ucraini. Dunque, si chiede il corrispondente di Komsomol’kaja pravda, Aleksandr Kots, dove sta il “secondo fronte” delle operazioni russe? Perché gli ucraini non costituiscono reparti partigiani per rovesciare la junta? Ci sono rimasti in Ucraina dei “pasionari” anti-benderisti e pro-russi che diano vita a organizzazioni clandestine per prendere il potere?

Nel 2014, nonostante la superiorità ucraina in artiglierie e carri armati, questa fu impotente di fronte ai minatori in armi. Oggi, di fronte a un esercito ben addestrato, forte di armi occidentali e dei servizi segreti NATO, armamenti che arrivano su piattaforme ferroviarie, carburante, interi convogli di carri armati: ecco, finché questi canali di rifornimento non saranno bloccati, «per ogni testa dell’idra tagliata, continueranno a spuntarne due nuove». E allora, perché Mosca non può organizzare e coordinare il lavoro di gruppi diversivi?

Oggi, però, l’Ucraina non è più la stessa di 8 anni fa, quando erano ancora possibili manifestazioni con bandiere russe a Odessa, meeting per il mondo russo a Khar’kov o discorsi a sostegno del Donbass a Zaporož’e.

In questi otto anni, scrive Kots, è stata approntata «una macchina del terrore così repressiva, che ha soffocato senza pietà qualsiasi dissenso. Uno degli articoli del CP più “popolari” è diventato quello per “tradimento” e “sostegno ai terroristi” e oggi quella macchina repressiva opera con forza triplicata».

Le persone scompaiono; vengono prelevate da casa dai reparti nazisti e non se ne conosce la sorte: non fanno eccezione i preti, se del patriarcato moscovita. Arrestati artisti, studiosi, semplici cittadini, con l’accusa di “sostegno al nemico” o “spionaggio”. Così che, ogni tentativo degli ucraini di organizzare una qualsiasi rete clandestina è stato finora sventato o dai servizi speciali, forti di attrezzature e programmi NATO, oppure da bande di neonazisti.

Anche nei territori liberati dalle forze russe, le persone cercano di non mostrare aperta simpatia per l’esercito russo, perché non credono che questo rimarrà per sempre, e allora si avrà a che fare con Servizi e nazisti.

Così, la guerra va avanti e le prospettive sono sempre più cupe.

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Il “mondo libero” degli schiavi impoveriti

Avete presente quando fate una critica al cosiddetto «mondo libero» e vi sentite rispondere che «potete sempre andare a vivere a Mosca/Pechino/Pyongyang»?

Una volta era una battuta da bar, adesso è diventato un argomento che viene usato seriamente dai governi del cosiddetto mondo libero e dai vari non sempre disinteressati cantori della libertà e della democrazia.

All’inizio di questa guerra, una nota rivista statunitense aveva fatto una copertina con un carro armato russo e il titolo «The return of history», il ritorno della storia.

Una risposta ai tanti che credevano – qualcuno lo crede ancora – che la storia fosse finita con il crollo dell’Unione Sovietica: il mondo libero ha vinto e questo è il suo ordine. Obama una volta disse che «questo è il miglior momento storico di sempre per vivere». Il concetto è quello.

Ovviamente la storia non è mai finita, e solo da questa parte del mondo lo abbiamo pensato sul serio. Il dibattito sul ritorno della storia è morto sul nascere – troppo difficile -, stroncato da quello sulla necessità di armare il popolo ucraino aggredito dall’invasore russo.

Tutto bene, ma due giorni fa il capo del Pentagono Lloyd Austin ha chiarito che al suo paese – e anche ai nostri – degli ucraini gliene frega fino a un certo punto, perché l’obiettivo finale è, cito, «indebolire Putin per impedirgli di fare altre guerre».

[State tranquilli, di tutto questo non terremo conto quando a breve il nostro parlamento discuterà di un nuovo pacchetto di finanziamenti per fornire armi all’Ucraina: si dirà ancora che è per foraggiare la loro “resistenza”]

La verità è che, nella seconda metà del XX secolo, la sola esistenza dell’Unione Sovietica aveva portato il mondo libero a concedere diritti sociali e civili in discreta quantità: bisognava dimostrare che il paradiso socialista non era tale, e che i lavoratori e i poveri stavano meglio da questa parte del mondo che da quell’altra. Era vero, peraltro.

Adesso però le cose sono cambiate. I diritti sociali vengono considerati come un inutile orpello ideologico che frena l’impetuosa avanzata della nostra libertà. Il conto del tanto che abbiamo perso e del nulla che abbiamo guadagnato negli ultimi trent’anni non è difficile da fare. Riforme, pacchetti, liberalizzazioni, tagli: avete capito, no?

Tutto questo per dire cosa? Che da qui in avanti tendenzialmente si abbandonerà la retorica della resistenza ucraina e si passerà a quella della difesa del mondo libero contro i suoi nemici. Perché, almeno nelle dichiarazioni, la guerra in Ucraina pare destinata ad allargarsi (o a durare moltissimo) e ognuno verrà chiamato a fare la propria parte.

Ci sarebbe da chiedersi quale “mondo libero” si vorrebbe difendere. E soprattutto a quanti milioni di persone verrà chiesto di soffrire per farlo.

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Culture e pratiche di sorveglianza. Leviatano 4.0 e società onlife della prestazione

di Gioacchino Toni

Digitalizzazione, intelligenza artificiale e tutto ciò che vi ruota attorno prospettano mondi nuovi che però non mancano di rifarsi a dinamiche di potere non necessariamente nuove, su ciò si concentra il volume di Mirko Daniel Garasic, Leviatano 4.0. Politica delle nuove tecnologie (Luiss University Press, 2022). Accolte come possibilità di estrema valorizzazione dell’autonomia e delle opportunità degli individui, capaci di aprire loro inedite possibilità di interfacciarsi con contesti, realtà, paesi e individualità altre, a distanza di tempo gli entusiasmi per queste trasformazioni digitali sembrano essersi sgonfiati di fronte al manifestarsi di una crescente perdita di ciò a cui si guardava come direttamente rappresentativo della libertà e dell’autonomia dell’individuo. Se tale “cambio di umore” nei confronti della rivoluzione digitale è percepibile tra gli studiosi, non si può forse dire che qualcosa di analogo accada a livello diffuso o che, perlomeno sin qua, sia adeguatamente percepita e problematizzata la portata della trasformazione in atto.

L’obiettivo che si pone l’analisi di Garasic è quello di «integrare gradualmente l’analisi della tecnologia in maniera “neutra”, incentrata quindi su valutazioni oggettive di impatto e uso delle stesse, con la presa di coscienza di come questi cambiamenti sistematici abbiano finito per modificare il modo di relazionarsi con gli altri (la polis) e con sé stessi» (p. 26).

Dopo aver velocemente passato in rassegna le ideologie classiche a cui fa o ha fatto riferimento la politica moderna, compresa la più recente, lo studioso approfondisce il ruolo che algoritmi, tecnologie ed applicazioni quali robot, droni, 5G, Internet of Things, Blockchain, ecc., hanno ed avranno non solo sulle dinamiche lavorative e politiche, ma anche a livello etico e antropologico.

Garasic si sofferma, come esempio, sull’estensione, in piena emergenza pandemica, del “raggio d’azione” della app Dreamlab di Vodafone, sino ad allora utilizzata per raccogliere dati durante il sonno dei clienti affetti da cancro (che ne avevano dato il consenso) utili, se combinati con altri parametri comportamentali (stile di vita, sedentarietà, abitudini alimentari) alla ricerca scientifica.

Il rapido “riciclo” di una app, come questa, pianificata per raccogliere informazioni riguardanti individui in condizione di malattia al fine di verificare l’incidenza di certi comportamenti su di essa ad uno scopo di tipo “preventivo” – il diffondersi di un virus non ancora contratto – non può che sollevare numerose perplessità.

Volgiamo davvero consentire a qualsiasi azienda di iniziare a raccogliere i nostri dati solo perché potrebbero potarci a dei risultati utili in futuro? Che dire di tutti quei dati che le aziendale private raccolgono e utilizzano per il loro profitto? Non prestare attenzione a questa distanza inquietante tra ciò che già sappiamo e ciò che speriamo di trovare, potrebbe rendere il nostro consenso informato limitato sin dalla sua genesi. […] L’intento generale di Dreamlab e di altri progetti simili pare nobile da un certo punto di vista, ma, alla luce del fatto che questa iniziativa è portata avanti da una società privata che si basa anche su studi di neuromarketing che hanno come obiettivo principale quello di scoprire le debolezze del consumatore, alcuni dubbi sull’obiettivo non svelato dell’esperimento (perché di questo si tratta) rimangono (p. 81).

Ad essere affrontate dal volume sono anche le cosiddette città intelligenti, a proposito delle quali l’autore mette in risalto come a fronte di una presentazione entusiastica che le vuole esempi virtuosi di ecologismo e, persino, di democrazia diretta, si diano, però, non poche preoccupazioni a proposito dell’annientamento della privacy, di un crescente divario digitale che rischia di condurre a far vivere la cittadinanza in maniera completamente differente e di discriminazioni derivanti dalla non neutralità della tecnologia. Su quanto il razzismo sia radicato in molte tecnologie, l’autore riprende il volume di Ruha Benjamin, Race After Technology: Abolitionist Tools for the New Jim Code ‎(Polity Pr, I. ed. 2019) – il “nuovo codice Jim” richiama le leggi razziste “Jim Crow” in uso fino agli anni Sessanta del Novecento negli Stati Uniti del Sud – in cui vine mostrato il razzismo soggiacente agli algoritmi utilizzati dalle autorità pubbliche statunitensi circa la “propensione al crimine”.

In particolare nel volume si prendono in esame, oltre al “sistema di credito sociale di stato” cinese, di cui i media occidentali hanno dato conto – più in funzione propagandistica che di reale denuncia di un meccanismo che in realtà si sta diffondendo anche tra gli autoproclamati “esportatori di democrazia” – anche sistemi utilizzati da piattaforme come Alibaba, che con il suo Sesame Credit struttura un sistema di “moralizzazione dei consumi” premiante permettendo, ad esempio, ai clienti che acquistano con regolarità attrezzature sportive per tenersi in forma, di ottenere “crediti” vantaggiosi nel noleggio di automobili, nella prenotazione di alberghi e persino forme ascesso privilegiato negli ospedali. «Per esempio in Giappone l’assicurazione sanitaria nazionale richiede alle persone di vedere uno specialista se il girovita supera determinati parametri mentre il punteggio della Fair Isaac Coroporation (FICO) con sede negli Stati Uniti fornisce analisi di credit score (che permette l’accesso o meno a mutui, prestiti, e altro) a tantissimi paesi occidentali» (p. 96).

Il volume si sofferma anche sulla complessa relazione tra corpo, tecnologia e politica. Oltre all’indagato impatto di dispositivi tecnologici separati e indipendenti dall’individuo, è infatti importante analizzare situazioni in cui tale separazione si affievolisce comportando un’inedita, quanto marcata, incidenza non solo sulla concettualizzazione del sé ma anche del più generale sistema giudiziario e politico.

Si può prendere come esempio il ricorso agli esoscheletri sui luoghi di lavoro: se da un lato è indubbio che il ricorso a tali dispositivi può comportare reali benefici sulla salute dei lavoratori e delle lavoratrici, riducendo in parte i loro sforzi fisici, dall’altro, “quel che esce dalla porta può rientrare dalla finestra” sotto forma di incremento dei ritmi produttivi. Inoltre, se l’utilizzo di dispositivi tecnologici nell’accudimento degli anziani o dei malati può alleviare le fatiche fisiche del personale sanitario, dall’altro possono anche comportare una diminuzione dei rapporti umani tra i soggetti in causa, rendendo le cure e l’accudimento sempre più spersonalizzati.

La tecnologia tende ad essere piegata all’ossessione per la prestazione che permea la contemporaneità. «Dall’economia, all’educazione, passando per il mondo lavoro, il potenziamento del livello delle nostre attività è visto, in Occidente almeno, come un obiettivo positivo e ricercato» (p. 112). Esemplare in tal senso è la ricerca prestazionale in ambito militare e non solo a proposito di protesi tecnologiche volte ad esempio alla visione aumentata1 ma anche al ricorso a farmaci di ogni tipo per il potenziamento performante – DDP, performance enhancing drugs – a cui sono stati sottoposti i soldati già nel corso della seconda guerra mondiale, poi gli statunitensi in Vietnam e ancora in epoca contemporanea, compresi i combattenti dell’ISIS.

Se in ambito militare il ricorso alle droghe si pone storicamente l’obiettivo di vincere la paura, sedare le truppe di ritorno dal campo di battaglia e vincere la fatica, in ambito civile è proprio a questo ultimo fine che vi viene fatto ricorso, ad esempio, in ambito aeronautico, si ricorre a sostanza per “far reggere” ai piloti i turni sempre più massacranti a cui sono sottoposti. Inoltre, sottolinea Garasic, se per quanto riguarda gli ambienti militari il ricorso a farmaci performanti tende ad essere giustificato in virtù della sua eccezionalità, nell’universo civile-lavorativo la motivazione risiede nel dover ottemperare quotidianamente – e non eccezionalmente – all’imperativo della prestazione produttiva finalizzata al profitto.

La portata dei cambiamenti sin qua tratteggiati comporta anche la necessità di confrontarsi con i nuovi diritti e doveri che attraversano la società contemporanea anche alla luce del fatto che «la possibilità di poter leggere il pensiero di qualcuno senza il suo consenso sta diventando ogni giorno una possibilità più concreta» (p. 28). Converrà tornare su questa ultima questione su cui si sofferma la parte finale di Leviatano 4.0.

Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza

Note

Cfr. Ruggero Eugeni, Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia, in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano, 2018. [Su Carmilla].

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Guerra in Ucraina - Ucciso “ex militare” britannico. Evacuazione da Mariupol. Missili su Kiev durante visita del Segretario dell’Onu. Biden decuplica i fondi per la guerra in Ucraina

Evacuazione dei civili da Mariupol

L’ufficio di presidenza ucraino ha fatto sapere che è stata pianificata “un’operazione” per oggi per evacuare i civili dall’acciaieria Azovstal a Mariupol. Il maggiore Serhiy Volyna, comandante della 36a brigata dell’esercito ucraino asserragliata nell’acciaieria, ha riferito che all’interno “La situazione è difficile”, sostenendo che ci sono nell’area circa 600 persone ferite più o meno gravemente, e tra questi anche civili. Ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva dichiarato, dopo l’incontro con Zelensky a Kiev, che erano in corso intense trattative sulla possibilità di evacuare militari e civili dai tunnel sotterranei dell’industria siderurgica Azovstal.

Putin, parlando con il segretario dell’Onu Guterres, aveva affermato che i civili possono uscire liberamente dall’impianto, mentre i militanti devono deporre le armi, così ha risposto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov alle dichiarazioni del presidente ucraino Vladimir Zelensky, secondo cui Kiev è pronta per negoziati immediati sull’evacuazione delle persone da Azovstal. “Il presidente è stato molto chiaro: i civili possono uscire e andare dove vogliono. Anche i militanti devono deporre le armi e uscire. Le loro vite saranno preservate. Tutti i feriti e i malati riceveranno assistenza medica”, ha detto Peskov. “Cosa c’è da negoziare in questo caso?”

Ucciso un “ex militare britannico”. Un altro risulta scomparso

Un “ex militare britannico”, Scott Sibley, è rimasto ucciso a Mariupol e un altro, sempre britannico, è scomparso: lo ha reso noto il Foreign Office. I due combattevano con reparti dell’esercito ucraino. Sibley è un ex militare delle forze armate britanniche. Il ministero degli Esteri di Londra non ha fornito dettagli su cosa i due facessero in Ucraina. Fonti diplomatiche citate dalla BBC hanno affermato che molto probabilmente i due erano volontari stranieri in servizio con le forze armate ucraine a Mariupol o altrove nel Donbass.

Altri due “ex militari” britannici sono stati catturati sempre a Mariupol nelle scorse settimane. Si tratta di Aiden Aslin e Shaun Pinner che si sono arresi dopo che la loro unità ha esaurito le munizioni.

Secondo quanto riferito dalla BBC, tre ex membri delle forze speciali britanniche sono stati uccisi a marzo durante un attacco missilistico russo contro un centro di addestramento militare vicino al confine con la Polonia, ma ciò non è mai stato confermato ufficialmente dalle autorità britanniche.

Biden chiederà altri 33 miliardi di dollari al Congresso per l’Ucraina

Il presidente Usa, Joe Biden chiederà al Congresso l’autorizzazione per altri 33 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina, 20 dei quali per assistenza militare. Lo ha riferito una fonte dell’amministrazione.

La proposta ammonta a dieci volte quanto stanziati fino ad oggi e a più del doppio del pacchetto iniziale da 13,6 miliardi di dollari che il Congresso ha varato il mese scorso.

Il fronte militare

Le forze militari russe stanno facendo registrare “alcuni progressi nel nuovo attacco alla parte orientale dell’Ucraina”. È quanto riportano funzionari dell’amministrazione Biden e della Nato. Secondo gli Stati Uniti ci sarebbero “alcune prove” del miglioramento della capacità russa di combinare attacchi aerei e via terra, così come quella di rifornire le truppe impegnate al fronte. “Il miglioramento – dice una fonte del Pentagono, secondo la CNNè lento e irregolare” ma avrebbe permesso ai russi di avanzare “per molti chilometri” ogni giorno. Una parte delle forze russe sta iniziando a lasciare Mariupol, spostandosi verso Nord e Nord-Ovest, ha riferito un funzionario della difesa Usa. “Non abbiamo un numero esatto di quante forze russe stiano lasciando Mariupol, ma non crediamo che il numero sia insignificante”.

Missili russi su Kiev durante visita del segretario dell’Onu

Due missili hanno provocato forti esplosioni a Kiev durante la conferenza stampa del presidente ucraino Zelensky insieme al segretario generale dell’Onu Guterres. Il Consiglio di sicurezza “ha fallito” nei suoi sforzi per “prevenire e porre fine” alla guerra in Ucraina ha ammesso il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, durante la sua visita a Kiev. “Vorrei essere molto chiaro: il Consiglio di sicurezza non è riuscito a fare tutto ciò che era in suo potere per prevenire e porre fine a questa guerra. E questo è fonte di grande delusione, frustrazione e rabbia”, ha detto Guterres nella conferenza stampa congiunta con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.

I presidenti turco e russo, Tayyip Erdogan e Vladimir Putin, hanno discusso telefonicamente della situazione in Ucraina. Lo ha reso noto l’ufficio del leader turco come riferisce l’agenzia Anadolu.

Per la Nato “la guerra potrà durare anni”

La Nato è pronta a sostenere l’Ucraina per anni nella guerra contro la Russia, anche aiutando Kiev a passare dalle vecchie armi dell’era sovietica alle moderne attrezzature militari occidentali. Lo ha dichiarato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, “C’è assolutamente la possibilità che questa guerra si trascini e duri per mesi e anni”, ha sottolineato il segretario generale.

Sanzioni alla Russia su gas e petrolio. Nella Ue non c’è unanimità

L’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, Josep Borrell ha dichiarato che “Nessuno stato membro dell’Unione farà nulla che implicherà l’elusione delle sanzioni. I contratti indicano i termini previsti. Se dicono che i pagamenti sono in euro o in dollari, così avverranno. Naturalmente la Russia cercherà di fare di tutto per metterci in difficoltà. La nostra risposta sarà unità e solidale”. Ma Borrell ha anche dovuto ammettere che quanto alla decisione di interrompere drasticamente l’acquisto del petrolio e del gas russi “non c’è ancora la necessaria unanimità degli Stati membri”. Intanto i funzionari della Ue fanno sapere che “Le linee guida inviate dalla Commissione europea agli Stati membri sono molto chiare: aprire un secondo conto bancario in rubli” presso Gazprombank per assecondare il decreto russo sul pagamento in rubli delle forniture di gas “sarebbe una violazione o un’elusione delle sanzioni” imposte dall’Ue a Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina.

Dal canto suo la compagnia energetica russa Gazprom sta fornendo regolarmente il gas in transito attraverso l’Ucraina, in conformità con le richieste dei consumatori, per un importo di 65,4 milioni di metri cubi. Lo riferisce questa mattina la stessa Gazprom in un comunicato. Il dato odierno si mantiene sopra la media rispetto agli obblighi massimi contrattuali di Gazprom con la parte ucraina, che ammonta a circa 109,6 milioni di metri cubi di gas al giorno.

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29/04/2022

Superdeep (2020) di Arseny Syuhin - Minirece

Quando il Donbass era un “entusiasmo”

Quasi quotidianamente, all’interno della bolla mediatica che si è creata in forma martellante sulla guerra in Ucraina, viene nominato il “Donbass” e viene affermato dai media che Putin, per giungere a una tregua, considera tale territorio come irrinunciabile. La parola “Donbass” è la contrazione di “bacino del Donec” ed è una regione geografica dell’Ucraina sud-orientale i cui centri più importanti sono Donec’k, Mariupol’ e Luhans’k. Si tratta di una ricca area mineraria (con giacimenti di metalli adesso largamente utilizzati nell’industria hi-tech) in cui è particolarmente sviluppata la siderurgia (per una visione d’insieme si può vedere la voce di Wikipedia dedicata al Donbass).

La parola “Donbass”, però, a chi un po’ si intende di arte cinematografica, può far venire in mente anche uno dei documentari più significativi della cinematografia sovietica, Sinfonia del Donbass/Entusiasmo (1931) di Dziga Vertov, che nacque per celebrare il piano quinquennale di Stalin, operativo dal 1928 al 1932. Il film pone l’accento sull’importanza delle risorse naturali (il carbone innanzitutto) per il completo sviluppo del Donbass. Esso si può dividere in due parti: la prima è dedicata al tema della religione e all’obnubilamento mentale che ne deriva; la seconda, invece, è la descrizione delle attività lavorative e dei processi produttivi che si svolgono nel Donbass.

Nella prima parte, il regista mostra le immagini di una folla di credenti durante una cerimonia religiosa. Gli atti dei rituali e le stesse inquadrature delle icone sacre appaiono come dei fantasmi onirici che avvolgono la folla tenendola come prigioniera di un vero e proprio abbrutimento della mente. Alla fine della cerimonia, diversi uomini tracannano vodka e si danno all’alcol: vediamo immagini di ubriachi che barcollano, che stramazzano a terra, che si muovono come stupide marionette. La colonna sonora si estende in un accumulo di suoni: il rintocco della campana, gemiti, preghiere e canti liturgici che si uniscono in una sorta di folle carnevale.

Il passaggio alla seconda parte avviene in modo brusco. La chiesa viene ‘ripulita’ dalle icone e dai candelieri e viene trasformata in un circolo operaio. Mentre sfila una processione laica da cui emerge l’enorme figura di un pontefice di cartapesta, cominciamo a sentire urlare una sirena di fabbrica e il film si catapulta di colpo nel mondo del lavoro, nelle officine, negli altiforni e nelle acciaierie del Donbass. I processi produttivi del bacino del Donbass sono descritti meticolosamente in tutte le fasi, dall’estrazione del minerale fino alla sua trasformazione in prodotto. Il film è dominato dall’idea della produttività a ogni costo, simboleggiata dal ritmo martellante per mezzo del quale si susseguono le immagini. La stanchezza degli operai si trasforma in entusiasmo ed essi stessi prendono quasi la forma di macchine, mostrati mentre si muovono meccanicamente al ritmo di una produzione lanciata al massimo per “raggiungere e sorpassare i paesi capitalistici”. Come scrive Nikolaj Abramov, collaboratore dell’Istituto di Storia delle Arti presso il Ministero della Cultura Popolare, in un suo saggio del 1962, Vertov “riprendeva le macchine con entusiasmo perché erano macchine sovietiche, perché le facevano funzionare cittadini sovietici. Per mostrare la bellezza del ritmo dei movimenti di lavoro egli faceva uso di tutto il suo talento e di tutta la sua esperienza. Per la prima volta venivano registrate sincronicamente le voci degli uomini, dei realizzatori del primo piano quinquennale”.

Nel film giocava un ruolo importante anche la colonna sonora, costituita in gran parte da suoni industriali, provenienti dalla fabbrica e dai macchinari. Charlie Chaplin, che assistette alla proiezione del film nel novembre del 1931, scrisse: “Non avrei mai immaginato che i rumori industriali potessero essere sistemati in modo da sembrare tanto belli. Ritengo il film Entusiasmo una delle sinfonie più conturbanti che abbia mai sentito”.

Oggi, che tanto si parla di Donbass in un contesto in cui di “entusiasmo” non c’è proprio niente, probabilmente non farebbe male riguardarsi questo film-documentario di uno dei più grandi registi e teorici del cinema sovietici.

Riferimenti bibliografici:

N. Abramov, Dziga Vertov, a cura di M. Verdone, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1963.
P. Montani, Dziga Vertov, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

Fonte

I dolori della borghesia europea, costretta a una guerra che la danneggia

La persone che pensano autonomamente sono utili al genere umano, anche se non sempre se ne condividono le opinioni. Perché illuminano aspetti della realtà che altrimenti – e per volontà di potenza – resterebbero nascosti, impedendo una più precisa comprensione del contesto in cui agiamo.

Massimo Cacciari fa parte di questa ristretta cerchia, e ci è capitato spesso – quasi sempre, ci par di ricordare – di dissentire  verso di lui in modo anche radicale. È stato sindaco di Venezia, europarlamentare del PD, ex PCI ed ex Potere Operaio, filosofo e molte altre cose. Un membro dell’establishment, insomma, un “europeista” senza se e senza ma, come si dice, ma nonostante tutto “critico”.

I nostri lettori sono ormai abituati a vedere che prendiamo spesso spunto da queste rare eccezioni – per esempio spiluccando sulle testate di economia, costrette per necessità (consigli e informazioni per gli imprenditori) a lasciar da parte l’ideologia.

Quindi non si stupiranno se prendiamo spunto, oggi, da un lungo editoriale di Massimo Cacciari apparso su La Stampa, e che possiamo definire fin dal titolo – La nostra Europa vicina al tramonto – il grido di “dolore della borghesia europea” in questo frangente.

La ragione è semplice. Cacciari coglie con precisione – conoscendoli dall’interno – sia i rapporti di potere tra frazioni diverse della borghesia (italiana, europea, euro-atlantica), comprese le relazioni istituzionali relative (Stato nazionale, Unione Europea, Nato); sia alcuni effetti di questa struttura di potere sulle dinamiche elettorali, che costituiscono il punto di partenza della sua analisi.

Incidentalmente spazza via ogni sciocchezza sia stata detta, da 30 anni a questa parte, sul cosiddetto “voto utile”, che tanto affascina i “sinistri” quando devono entrare (una volta l’anno, in pratica) in una cabina elettorale.

Affronta, all’interno della crisi aperta con la guerra in Ucraina, proprio il “respiro di sollievo europeo” di fronte al voto francese, che ha bocciato ancora una volta l’estrema destra di Marine Le Pen, confermando obtorto collo il banchiere Macron. Ma lo fa in modo davvero originale, rispetto al coro dei media italiani di regime.
“Le elezioni francesi insegnano, come, nello stesso senso, insegnano anche le vicende italiane, e prima ancora quelle greche, spagnole, ecc. ecc. Casi diversi, certo, in base anche alla forza dei diversi Stati, ma un filo rosso li unisce. Le Marine Le Pen potranno provare altre dieci volte a vincere e mai vinceranno.

Pericolo felicemente scampato; meno felici forse le ragioni per cui ne siamo immuni. Semplicemente, i nostri concittadini europei hanno compreso in grande maggioranza che non è possibile governare un Paese occidentale senza l’esplicito sostegno delle grandi potenze finanziarie ed economiche globali. Votare le Le Pen significa votare per aprire una crisi.

I cittadini europei votano oggi, e del tutto ragionevolmente, per coloro che pensano in grado di difendere, grazie alla autorevolezza di cui godono proprio ‘a casa’ di quelle potenze, quel poco o tanto di benessere e sicurezza che è loro rimasto. Le Le Pen non sono votate – o non sono votate abbastanza – non perché culturalmente indigeribili, ma perché sicuri fattori di sicura insicurezza”.
Non c’è alcun dissenso strategico con la prospettiva europeista, si apprezza questo voto “conservatore”; semplicemente constata che “i cittadini” hanno ormai introiettato quei rapporti di forza sovranazionali che rendono ogni elezione e amministrazione nazionali una semplice ratifica del dominio esistente.

In altre parole: ci si è in maggioranza rassegnati ad accettare che non si può cambiare nulla davvero, in nessun paese, ma bisogna assecondare decisioni di livello più alto per non rischiare un peggioramento drastico delle normali condizioni di vita (aumento dello spread, austerità più rigida, chiusure, tagli alla spesa pubblica, ecc.).

Nel nostro linguaggio, simo soliti dire che l’Unione Europea è “una gabbia” fatta di trattati e istituzioni sovranazionali, che condizionano le scelte politiche nazionali esattamente come un governo centrale condiziona le amministrazioni regionali e comunali.

Questa constatazione – espressa in passato con toni nazionalistici e reazionari soprattutto dalla Lega e dai postfascisti della Meloni (ma anche dai Cinque Stelle pre-”prova di governo”, brandendo gli interessi tipici di una “borghesia italiana” il cui orizzonte di business non supera i confini, per carenza di capitale, know how, innovazione, ecc. – è un riconoscimento della condizione di fatto, non una “questione ideologica”.

Tanto è vero che quel potere “sovranazionale” si esprime nello stesso modo contro qualsiasi governo venga formato in contraddizione con le proprie politiche economiche ed interessi. È stato per esempio violentissimo contro la sinistra greca dello Tsipras I (il governo con Varoufakis ministro dell’economia). E si è detto “per forza, la Grecia è un paese debole...”.

Ma il gioco si è ripetuto col governo “giallo-verde”, il Conte-Salvini, su tutt’altro orientamento politico-sociale. E l’Italia, ancorché la più fragile, è la terza economia della UE, dopo Germania e Francia. Dunque il “peso” di un paese conta per la dimensione e le forme dell’attacco, ma non cambia il senso dell’operazione.

Detto ancora in altre parole: ogni paese della UE non possiede alcuna “libertà” di scegliere il proprio destino – di destra o di sinistra che sia – ma si deve muovere in uno spazio decisionale limitato ai temi non “strutturali”. Ossia non attinenti ad economia, rapporti di proprietà, relazioni internazionali, autonomia strategica, politiche sociali e fiscali, ecc.

Ricordiamo sempre che il cosiddetto “Recovery Fund”, poi concretizzatosi in PNRR, concede prestiti vincolati alla realizzazione di ben 528 “condizionalità”. Altrimenti nisba.

In questo Cacciari è preciso.
“In tutte le elezioni che contano, in altre il voto può essere più ‘libero’ e la protesta nei confronti dell’establishment alzare la voce. Se però la alza troppo vedi affermazioni grilline – la situazione diviene ingovernabile e si provvede, come da noi, con i Ciampi, i Dini, i Monti, i Draghi (e conseguente ravvedimento dei rottamatori incredibile addirittura nel caso dei vari Di Maio nostrani). Provvedimenti provvidenziali, magari, ma la morale della vola non cambia: in Occidente non sì governa se non sulla linea politico-economica che questi nomi rappresentano”.
Dal nostro punto di osservazione – di comunisti, o anche da quello dei semplici “progressisti” – questo significa che nessun cambiamento sociale è possibile all’interno di questi vincoli e di queste istituzioni sovranazionali. Che a Cacciari vanno naturalmente bene, ma di cui mette in luce la scarsa attenzione nei confronti dei problemi sociali che vanno sollevando con la propria azione (ma questo è un discorso più lungo, che ci porterebbe fuori tema).

La parte importante, per oggi, è infatti la demolizione dell’argomento “voto utile”, strettamente connesso al “buco nero in cui è scomparsa la sinistra”. Sentiamolo:
“La scomparsa della cosiddetta “sinistra” è il prodotto di tale destino, ben più che della incapacità e smemoratezza dei suoi leader. E la nostalgia per quel nome, rimasto un puro flatus vocis, semplicemente patetica”.
Chiunque vinca una elezione, non ha alcuna possibilità di fare un gioco – e politiche sociali – diverse da quelle stabilite a Bruxelles, Francoforte e Washington. Il voto utile, insomma, non è mai servito a “sbarrare il passo alla destra” – che, come dimostra Marine Le Pen, “non può vincere” – ma semplicemente a distruggere qualsiasi ipotesi e visione alternativa di cambiamento sociale. Anche non radicale.

Poi, certo, anche Cacciari deve a suo modo riconoscere che – vinta la guerra economica contro i lavoratori, annullata l’autonomia degli Stati nazionali, affermata la superiorità della borghesia europea nel Vecchio Continente – tuttavia quest’ultima sta perdendo la sua scommessa di “autonomia strategica” nella competizione internazionale.
“La riduzione dell’Europa a Provincia atlantica è l’altrettanto inevitabile conseguenza che poi, per rendere la legge meno dura, si dipinga la Nato come una grande forza di pace non è, si sarebbe detto una volta, che trascurabile sovrastruttura ideologica.”
I compagni che ancora oggi si baloccano con gli “stati nazionali” che sarebbero autonomi nelle proprie decisioni e con lo “spazio europeo” come se fosse neutro e “scalabile”, prendano nota. E ci riflettano sopra, direbbe Zaia...

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Venti di guerra: su Wikipedia la strage di Odessa del 2014 diventa un “casuale incendio”

Il 2 maggio 2014, a Odessa, avvenne una terribile strage, ad opera di sostenitori del governo golpista guidati da squadre di neonazisti ucranini, davanti e all’interno della Casa dei sindacati, che ufficialmente provocò 48 vittime ma che, secondo stime non ufficiali, potrebbero essere state anche 150, cui vanno aggiunti diversi centinaia di feriti scampati per poco all’eccidio.

Le autorità ucraine non effettuarono alcuna indagine approfondita come accertato da un rapporto delle Nazioni Unite.

Ebbene, se andate a vedere ora la pagina di Wikipedia sulla strage alla Casa dei sindacati di Odessa del 2014 scoprirete che è stata stravolta già a partire dal titolo della pagina che da “Strage di Odessa” è stato cambiato in “Incendio della Casa dei sindacati di Odessa”. Anche il contenuto stesso della pagina è stato completamente cambiato e stravolto.

Se nella versione precedente la “strage di Odessa” veniva definita: “un massacro avvenuto il 2 maggio 2014 ad Odessa presso la Casa dei Sindacati, in Ucraina, ad opera di estremisti di destra, neonazisti e nazionalisti filo occidentali ucraini ai danni dei manifestanti sostenitori del precedente governo filo russo”, nella nuova versione troverete scritto: “il rogo di Odessa è un incendio verificatosi a seguito di violenti scontri armati fra fazioni di militanti filo-russi e di sostenitori del nuovo corso politico ucraino”.

Il numero delle fonti utilizzate è sceso da 23 a 13 e sono cambiate quasi tutte ad eccezione di un paio (evidentemente utili alla nuova versione). Peraltro, le fonti utilizzate nella versione precedente alla modifica comprendevano rapporti dell’ONU oltre una serie articoli di testate mainstream di carattere nazionale e internazionale quali il New York Times, Bloomberg, Panorama e Radio Free Europe.

Sulla strage alla camera del lavoro di Odessa vedi qui.

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“Rinnovare i contratti? mai!”, ulula Assolombarda

Una volta gli “imprenditori” cercavano di nascondere la propria natura di grassatori sotto un velo di parole accomodanti, mentre provvedevano – se necessario – a “ungere” gli ingranaggi della decisione politica per volgerla a proprio favore.

Poi, con la lunga stagione neoliberista, i freni inibitori sono venuti meno. E anche le movenze della “buona creanza”. I governi passano loro ormai apertamente valanghe di “ristori”, oltre a incentivi e finanziamenti agevolati di ogni tipo, e non basta loro mai.

Quando poi qualche ministro – preoccupato dalla ancora silenziosa ma montante insofferenza sociale – chiede loro di lasciar cadere qualche spicciole di questi finanziamenti anche nelle tasche dei lavoratori dipendenti. Apriti cielo!

Il ministro del lavoro più accomodante che potessero trovare, il piddino Andrea Orlando, ha proposto l’ennesima valanga di aiuti alle imprese per aiutarle a far fronte alle difficoltà create dalla guerra in Ucraina (aumento dei prezzi delle materie prime, ecc).

Ma ha osato anche proporre che tali finanziamenti a fondo perduto fossero almeno vincolati al rinnovo e al rispetto dei contratti da parte delle aziende, e a qualche sia pur timido aumento salariale. Del resto, con il tasso di inflazione ormai al 7,5%, una misura del genere – fosse anche inferiore a quel limite – sarebbe il minimo per cercare di placare il malessere.

“Non se ne parla proprio!”, ha subito tuonato Assolombarda, la frazione regionale di Confindustria che ha espresso recentemente il nuovo presidente nazionale – Carlo Bonomi – ed è simpaticamente nota nell’ambiente come il ridotto dei “nazisti dell’Illinois”.

«In una fase estremamente critica per l’industria lombarda e italiana generata dall’aumento dei costi delle materie prime, dalle speculazioni sui prezzi dell’energia, dalle sanzioni che indirettamente impongono sacrifici e difficoltà nell’approvvigionamento anche alle nostre imprese e da un contesto internazionale di instabilità, vincolare gli aiuti economici al rinnovo dei contratti è per Confindustria Lombardia irricevibile».

Il nuovo presidente di Confindustria Lombardia, Francesco Buzzella, non si è però fermato alla condanna della timidissima proposta di Orlando. Ha subito pure sfoderato una richiesta supplementare.

«Questa impostazione da “premialità sociale” [orrore!!!], oltre a non considerare che le criticità colpiscono trasversalmente tutte le imprese, ignora completamente la realtà del mondo produttivo che vede a rischio chiusura il 30% delle imprese a causa dell’insostenibilità dei costi di produzione.

Le imprese, ovviamente, condividono la necessità di un aumento dei salari per sostenere le famiglie e i lavoratori in questo momento di forte difficoltà, oltre che per far fronte alla crescente inflazione; la via per l’aumento dei salari, come ribadito più volte da Confindustria, è il taglio delle tasse attraverso un intervento strutturale finalmente incisivo sul cuneo fiscale»
.

Una traduzione per i non esperti di busta paga è necessaria. Il taglio del “cuneo fiscale” porterebbe in effetti (a seconda della dimensione) qualche soldo in più nelle tasche dei lavoratori. L’unico “problemino” è che, tagliando tasse e contributi, quei soldi dovrebbe metterceli lo Stato, sottraendoli ad altre voci della già risicata spesa sociale (pensioni, assistenza sociale, ecc.).

Insomma: gli “imprenditori non devono mai scucire un centesimo“. O li paga lo Stato, oppure che i lavoratori crepino pure di fame.

Domanda ingenua: ma ci prendono davvero tutti per scemi? Mica siamo tutti dirigenti di CgilCislUil.

Constatazione seria: questi sono rapinatori senza limiti. Si può stopparli solo facendosi sentire con forza immensa nelle piazze. Il 22 aprile abbiamo cominciato. Non basta, ovviamente. Ma ogni grande viaggio comincia con un passo.

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Alla canna del gas, davvero. Non era un bluff...

È scattata la guerra del gas

I giocatori di poker sanno che c’è un solo modo per scoprire se uno degli avversari bluffa: “andare a vedere”. Ossia puntare i soldi necessari a far calare le carte sul tavolo. Il rischio è ovviamente quello di perdere l’intera puntato, se il bluff non c’è.

È proprio quello che sta avvenendo in questi giorni in Europa, dove tutti i leader euro-atlantici avevano garantito che Mosca non avrebbe mai fermato l’erogazione del proprio gas verso i paesi Ue, perché “è troppo importante per la Russia, non possono rinunciare a quelle entrate”.

Questa litania è risuonata anche dopo che Mosca aveva disposto che Gazprom accettasse soltanto rubli in cambio del gas, a partire dal primo maggio.

“Bluffa!”, gridavano da von de Leyen a Mario Draghi, dicendosi certi che ci sarebbe stato tutto il tempo necessario per diversificare le forniture di gas di cui l’Europa ha un disperato bisogno, non possedendo riserve proprie di dimensioni significative.

Curioso modo di ragionare, se ci è consentito. Un insieme di paesi importatori dichiara guerra (economica, per ora) al paese fornitore, nel mentre imbottisce di armi il paese che quello ha invaso. Decide delle sanzioni per il fornitore e mette in moto i rapporti politico-economici con mezzo mondo per trovare in tempi ragionevolmente rapidi forniture alternative.

Per quale cavolo di motivo il fornitore “nemico” – la Russia, insomma – dovrebbe continuare a rifornirti di gas fin quando non hai trovato altrove i quantitativi che ti servono? Solo perché gli dai dei soldi nella tua moneta?

È risaputo che la guerra cambia radicalmente le cose, e anche le relazioni economiche. E quindi Mosca è partita in contropiede assai prima che i paesi dell’Unione Europea fossero pronti al gas change.

Lo ha fatto anche con una certa ironia, visto che per ora ha chiuso i rubinetti soltanto a Polonia e Bulgaria, due dei paesi vicini e più dipendenti dai propri prodotti energetici, ma anche più “invasati” nel chiedere di più contro la Russia. Ma per ora ha lasciato i rubinetti aperti per il resto d’Europa...

Un avvertimento, insomma, verso i “clienti” più grandi – Germania e Italia in testa – che ancora si cullavano sull’impressione del bluff.

“L’annuncio di Gazprom che interromperà unilateralmente la consegna del gas ai clienti in Europa è l’ennesimo tentativo della Russia di utilizzare il gas come strumento di ricatto” e “questo è ingiustificato e inaccettabile. E mostra ancora una volta l’inaffidabilità della Russia come fornitore di gas“.

Queste le parole con cui la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha risposto all’annuncio di Gazprom. Si potrebbe ricordarle che Mosca fin qui, era stato il più affidabile e il meno caro dei fornitori, grazie ai numerosi gasdotti costruiti nei decenni scorsi grazie anche ai buoni rapporti con il governo tedesco, compresi quelli di cui proprio von der Leyen aveva fatto parte (alla famiglia, al lavoro e alla difesa...).

Ma la presidente ha deciso di coprirsi di ridicolo insistendo sulla propaganda: «Le nostre linee guida sono molto chiare: pagare in rubli se non è previsto nel contratto è una violazione delle nostre sanzioni», ha sottolineato la presidente della Commissione europea. «La richiesta da parte russa di pagare in rubli è una decisione unilaterale e non è in linea con i contratti».

Curioso ragionamento, ammettiamolo. Chiedere di essere pagati in una moneta diversa da quella prevista dal contratto è una violazione del contratto stesso, certamente. Ma anche decidere sanzioni verso la controparte contrattuale lo è, e su un piano ben più pesante.

Non è finita. Fare quella richiesta è certamente un “atto unilaterale”, ma è paradossale affermare che questa sarebbe “una violazione delle nostre sanzioni“.

Ricordiamo ai non addetti ai lavori che l’unico organo internazionale legittimato ad erogare sanzioni è l’Onu. Qui le decisioni sono state prese dagli Usa, che controllano il sistema di pagamenti Swift incentrato sul dollaro, e avallate dai paesi europei con parecchi distinguo, molte lentezze e qualche mal di pancia (sanzionare la Russia significa bloccare ampie parti della propria economia).

Dunque le sanzioni occidentali alla Russia non hanno alcuna “base legale”, ma sono solo un atto politico. “Violare le nostre sanzioni” è quasi uno scioglilingua senza logica: la violazione unilaterale di una violazione altrettanto unilaterale.

Insomma, pretendere di essere “dalla parte giusta della legge” nel mentre la si viola altrettanto unilateralmente, fa quasi ridere.

Ma siccome siamo dentro una guerra, non c’è proprio nulla da ridere.

Nel 2021 l’Ue ha importato il 45% del gas dalla Russia. Ovvero oltre 380 milioni di metri cubi (mcm) al giorno tramite gasdotto, per un totale di circa 140 miliardi di metri cubi all’anno, secondo l’Iea. Altri 15 miliardi di metri cubi sono stati consegnati sotto forma di gas naturale liquefatto (gnl).

Una volta bloccato l’import da Mosca, la difficoltà principale per l’Europa sarà quella di armonizzare le politiche (e le dipendenze) energetiche europee che sono allo stato differenti e scollegate le une dalle altre. E dopo lo stop ufficiale delle forniture di Gazprom a Polonia e Bulgaria il prezzo del gas naturale in Europa è schizzato del 16% a 119,75 euro per megawattora, per poi ripiegare a +4% sopra i 106 euro. La settimana scorsa i prezzi si stavano invece stabilizzando sotto quota 100 euro, dopo aver toccato all’inizio della guerra vertici impensabili (anche 159, a fine febbraio).

La situazione più critica in Europa, oltre ad alcuni paesi dell’Est, è quella della Germania che nel 2020 importava dalla Russia circa il 65% del gas (dati Iea) pari a 42,6 miliardi di metri cubi, seguita dall’Italia con 29,2 miliardi di metri cubi.

La dipendenza energetica tedesca nei confronti della Russia è peggiorata dall’11 marzo del 2011, data dell’incidente nella centrale nucleare giapponese di Fukushima. A seguito dell’evento, Berlino ha deciso di uscire dal nucleare, incrementare l’import di gas dalla Russia con il Nord Stream 2 e puntare forte sull’eolico offshore.

A fine anno il Paese avrebbe dovuto spegnere le ultime tre centrali nucleari in funzione (erano 8 nel 2011) ma il governo sta seriamente valutando di lasciarle accese.

Il secondo Paese europeo maggiormente dipendente dal gas di Mosca è l’Italia, che importa il 38% del gas che consuma pari a circa 29 miliardi di mc. La dipendenza è aumentata negli anni se si pensa che nel 2012 la percentuale era intorno al 30%.

La produzione nazionale è scesa ai minimi, circa 3 miliardi di metri cubi ma il governo ha intenzione di aumentarla dai giacimenti in funzione (senza nuove trivellazioni). L’Italia importa il 95% del gas che consuma (circa 72 mld di mc). Ma nelle ultime settimane il Governo italiano ha stretto accordi per aumentare le importazioni di gas con Algeria, Egitto, Repubblica del Congo, Angola.

Austria, Ungheria, Slovenia e Slovacchia ottengono circa il 60% del loro gas naturale dalla Russia.

Quattro acquirenti europei di gas russo hanno invece già pagato in rubli le forniture a Gazprom e in totale 10 Paesi hanno finora aperto i conti speciali presso Gazprombank necessari per assecondare le condizioni di Mosca di pagare in valuta locale. Lo riporta Bloomberg, citando una fonte “vicina a Gazprom”.

In totale, l’elenco degli acquirenti di gas russo nell’elenco dei Paesi considerati “ostili” da Mosca comprende 21 Stati tra cui anche l’Italia. Ieri, dopo lo stop dei flussi a Bulgaria e Polonia, il presidente della Duma russa, Vyacheslav Volodin, si era espresso a favore dell’interruzione delle forniture a tutti i Paesi non amici.

Fonte