Qui non vogliamo assolutamente difendere un diritto “al parco” o ad uscire di casa nel nome di un’idea astratta di libertà individuale. Se l’emergenza impone di chiudersi in casa e non uscire, pensiamo che sia giusto farlo, per tutelare la salute di tutti. Né vogliamo invitare chicchessia ad infrangere i decreti: lo ripetiamo, è giusto stare a casa per tutelare la collettività.
Il punto, però, è la schifosa ipocrisia di un sistema mediatico, economico e politico che fa la voce grossa contro i suoi cittadini e non ha il coraggio di imporre il blocco della produzione alle industrie non essenziali. Opinionisti da due soldi, che trovano sempre il tempo di sbraitare contro il cittadino che fa una corsetta ma che stanno muti di fronte alla colossale ingiustizia insita nel tenere aperte le fabbriche: il profitto di pochi industriali, difeso da Confindustria, vale sempre più della salute collettiva. Poi, se le cose vanno male, c’è sempre la possibilità di prendersela con il popolo “irresponsabile”.
Tutto questo ci sembra tanto più sgradevole se ci si rende conto che, a livello scientifico, l’effetto sulla diffusione del virus portato dalle attività produttive potrebbe essere decisamente più grande di quello delle uscite individuali, e quindi, se si vuole veramente contenere l’epidemia, giornali e politicanti nostrani forse dovrebbero svegliarsi e far valere le ragioni collettive nei confronti di Confindustria.
Proviamo a quantificare, con un modellino idealizzato, l’importanza relativa dei due effetti. Questo chiaramente non è un vero modello della diffusione del virus, ma ci serve semplicemente a confrontare l’importanza relativa di due fattori in termini numerici. Supponiamo che, quando due persone interagiscono a distanza minore di 2 metri per un tempo superiore ai 5 minuti, ci sia una certa probabilità P di contagiarsi. Questa probabilità cresce linearmente con il tempo, quindi se siamo in contatto con una persona per 5 minuti la probabilità di contagio sarà P, per 10 minuti sarà 2P, per 15 minuti 3P e così via.
Bene, vediamo alla luce di questo conto quanto pesa la famigerata corsetta. Immaginiamo che una persona corra per un’ora e, pur mantenendo le distanza, non possa fare a meno di incrociare almeno una persona a distanza minore di 2 metri per cinque minuti (ci sembra già una sovrastima, sia chiaro!). Supponendo che tutte le persone, vadano a fare una corsetta di un’ora, il contributo totale all’infezione in un giorno sarebbe:
Ma, lavorando, ogni persona che è costretta in una fabbrica tendenzialmente deve a stare a contatto minore di 2 metri con almeno una decina di persone. Ed è costretta a farlo per otto ore. Questo senza contare gli spostamenti inevitabili per raggiungere il luogo di lavoro, per i quali molti devono prendere i mezzi pubblici, o della pausa pranzo in mensa. Ora non abbiamo il dato esatto di quanti italiani stiano lavorando non in forma di telelavoro oggi, ma solo gli operai che lavorano nell’industria in senso stretto, sono circa 4,5 milioni, che su una popolazione di 60 milioni significa (approssimando) il 7,5% del totale!
Alla luce di questo dato, la probabilità di infezione per il lavoro diventa:
Quanto vale il rapporto fra i rischi generati dai due casi?
Cioè, il rischio dovuto dal tenere aperte le fabbriche è 6 volte più grande rispetto al rischio che si correrebbe se TUTTI gli italiani (vecchi, giovani, malati compresi) corressero per un’ora al giorno.
La conclusione che dovrebbe essere chiara a livello numerico è che misure più dure di quelle che già applichiamo sulla mobilità dei singoli cittadini NON possono avere un effetto serio nell’arginare il virus se non sono accompagnate da una chiusura delle attività produttive non essenziali.
Se ci si vuole preoccupare della diffusione del coronavirus, questo è il dato da cui partire, con buona pace di Confindustria e del mondo del giornalismo e della politica italiana.
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