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08/09/2018

Le scelte dell’8 settembre


Il ricordo dell’8 settembre, crocevia decisivo per la storia d’Italia, deve accompagnarsi necessariamente con la rappresentazione della Resistenza.

La memoria della Resistenza è direttamente connessa con le scelte compiute in quella giornata.

Scelte individuali e collettive.

La più importante fra queste scelte fu adottata il giorno dopo l’annuncio dell’Armistizio e l’abbandono completo dello Stato da parte di chi avrebbe dovuto rappresentarlo e costituirne l’autorità: la Monarchia e il Governo.

Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9 settembre 1943 a Roma.

L’indomani della “fellonia” della casa reale e del governo Badoglio.

È il momento più difficile della storia nazionale unitaria: il territorio italiano, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in Calabria e quello a Salerno – che avviene lo stesso 9 settembre – è diventato una delle aree di guerra in cui le truppe anglo-americane e quelle tedesche si affrontano direttamente.

L’annuncio dell’armistizio, il giorno 8, non è stato preparato in alcun modo e le forze armate italiane si trovano completamente allo sbando.

E’ la scelta più difficile, i partiti si sono appena ricostruiti dopo venti anni di dittatura.

Eppure si trova la forza di proclamarsi rappresentanza e guida dell’intero popolo italiano.

La costituzione del CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti dell’antifascismo storico, ognuno con un suo rappresentante.

Sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi rappresentante di Democrazia del Lavoro antico socialista riformista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del Partito Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana (Alcide De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito Liberale (Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica” della lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani alla resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni».

Era la giornata del 9 settembre 1943, mentre la divisione Granatieri era impegnata nella difesa ad oltranza del ponte della Magliana, nella città, abbandonata a se stessa, in mezzo alla ridda delle voci contrastanti, i gruppi politici antifascisti cercavano faticosamente d’orientarsi sulla situazione e di prendere contatto con gli organi del governo Badoglio. Il Comitato delle opposizioni delega a questo scopo nelle prime ore del mattino Bonomi e Ruini, i quali si recano al Viminale e vi apprendono la notizia della fuga del re. Li ha preceduti una missione dell’Associazione combattenti richiedendo la distribuzione di armi per potersi battere a fianco dell’esercito. La richiesta, benché appoggiata dagli emissari del Comitato delle opposizioni, è «respinta con un no freddo. Anzi qualcuno, da parte monarchica, aggiunge che non bisogna esasperare gli invasori».

Posto di fronte alla più drammatica delle situazioni, con la sensazione di avere dinnanzi a sé il vuoto più assoluto d’ogni «autorità costituita» il Comitato delle opposizioni reagisce immediatamente; constatando la frattura decisiva determinata dall’8 settembre e traendo da questa constatazione l’indicazione delle sue nuove responsabilità, alle ore 14,30 esso approva la seguente mozione:
“Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.”
Si trattò del passaggio decisivo questo della costituzione del CLN perché si verificasse l’indispensabile connessione tra l’individuale e il collettivo in una dimensione politica plurale: una grande novità dopo l’imposizione ventennale del totalitarismo fascista.

Si può ben dire che in quell’occasione si cominciò a costruire l’Italia repubblicana superando anche i limiti del Risorgimento (la gramsciana “rivoluzione mancata”) dai tanto vituperati, in seguito, partiti: fra i quali i grandi partiti di massa, il cui modello è stato incautamente abbandonato per abbracciare l’idea dei partiti personali, della governabilità esaustivamente intesa quale unica cifra dell’agire politico nell’omissione della necessità di rappresentanza come si sta pericolosamente imponendo in questa difficile fase storica.

La costituzione del CLN corrispondeva a un insieme di scelte individuali che le donne e gli uomini stavano compiendo in tutto il Paese: al Nord si andavano già costituendo le prime formazioni partigiane. Migliaia di militari sbandati si concentrano in zone di montagna con le armi di ordinanza pronti a difendersi, soprattutto in Piemonte per la dissoluzione della IV Armata dal rientro dalla Francia.

Era il momento delle scelte.

Prima di tutto non si può affermare che l’8 settembre rimanga come un nodo irrisolto nella storia d’Italia: atti, ruoli, protagonisti, responsabilità sono chiari e restano incontrovertibili nel delineare l’identità del nostro Paese per un’intera fase storica.

Si verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi.

In quel drammatico frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali.

In questo senso Claudio Pavone, nel suo fondamentale “Una guerra civile, saggio storico sulla moralità della Resistenza” cita opportunamente Hobbes, riferendolo direttamente all’Italia del 1943:
“L’obbligo dei sudditi verso il sovrano s’intende che dura fino a che dura il potere, per il quale esso è in grado di proteggerli, e non più a lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato a nessun patto.”
La scelta doveva, infatti, esercitarsi fra una disobbedienza per la quale apparivano altissimi i prezzi da pagare e le lusinghe della pur tetra, “normalizzazione” nazifascista.

Il primo significato di libertà che assunse la scelta resistenziale fu implicita nel suo rappresentare un atto di disobbedienza.

Non si trattò tanto di ribellione a un governo legale, perché su chi detenesse la legalità non c’erano dubbi e la legalità non stava certo dalla parte dei nazifascisti, ma di ribellione verso chi disponeva, in quel momento, della forza per farsi obbedire.

Per la prima volta nella storia dell’Italia Unita le italiane e gli italiani vissero, in forme diverse anche rispetto alle realtà territoriali nelle quali si trovarono a dover vivere e operare, un’esperienza di disobbedienza di massa.

La solitudine, cioè la piena responsabilità individuale della decisione (“ho fatto di mia spontanea volontà, perciò non dovete piangere” scrive a 19 anni Vito Salmi, partigiano garibaldino, fucilato a Bardi il 4 maggio 1944) è come esaltata e insieme riscattata dalla percezione dell’ineliminabile necessità di scegliere tra comportamenti che recavano iscritti valori che come ha scritto Massimo Mila portavano a una “rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita”.

Questa somma di scelte soggettive trovò allora il suo punto di coagulo, il suo riferimento, nella costituzione del CLN, nella capacità dei partiti antifascisti di costituire comunque un saldo elemento di coesione e di legittimità, sostituendosi immediatamente al vuoto creato dalla fuga del Re e di Badoglio e respingendo la pretesa dei nazisti e dei fascisti di colmarlo rappresentando un nuovo potere del terrore.

Così nacque la Resistenza tra scelte individuali e grande disegno collettivo di costruzione di una nuova Italia.

Di tutto questo dobbiamo mantenere e trasmettere memoria.

Una memoria che continua a intrecciarsi con quella dei fatti storici fondamentali non soltanto per l’identità di un Paese, ma dei singoli soggetti che la vivono.

E’ allora che si assiste, si legge, si riflette attorno ad un fenomeno collettivo: un patrimonio “nostro” dei valori comuni che ci appartengono e che determinano – appunto – la nostra identità.

Nel rievocare la Resistenza si può, allora, affermare che la memoria nasce dal dolore: dalla profondità del dolore, quello del quale si sente, quasi, la rappresentazione fisica della sofferenza morale, dell’afflizione dell’animo, dell’affanno.

Come se, tutti assieme, ci trovassimo lì a vegliare i nostri morti.

Non tutto però può esaurirsi nel dolore quando questo incontra la memoria: un intreccio da cui nasce la volontà di costruire il futuro.

La storia non era finita, dal sacrificio dei martiri poteva nascere l’attesa di una vita diversa, di una era di giustizia e di libertà alla fine di tante sopraffazioni.

Memoria, dolore, futuro legate assieme da un’unica idea di una nuova costruzione sociale, di una diversa identità.

Non si cadde allora, e non dobbiamo neppure farlo adesso, in una visione semplificato di un cosiddetto pessimismo leopardiano (o speranze, speranze, ameni inganni) perché i nostri martiri vivranno in eterno, non in un’immortalità solitaria ma per continuare a testimoniare l’idea, la necessità, l’urgenza di costruire un’altra costruzione sociale, diversa e alternativa da quella fondata sulla sopraffazione e lo sfruttamento.

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