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01/04/2016

Il terrorismo che si deve ignorare

Nelle alte maree di comunicazione – i professionisti del settore potrebbero forse obiettare che non di comunicazione si tratta, mancando la reciprocità del processo – da cui rimaniamo quasi affogati ogni minuto e, in particolar modo, in queste ore, è forse naturale (ma non ovvio) che alcuni fatti, invece, boccheggino nelle secche della “disattenzione” dei media di regime. Lo scorso 30 marzo la russa NTV dava notizia di un poliziotto morto e un altro ferito nel tentativo di fermare un’auto, poi esplosa, a un posto di blocco nella provincia del Tabasaran, della Repubblica autonoma russa del Dagestan. Il giorno precedente, lungo la direttrice verso la capitale Makhačkala, due bombe erano esplose al passaggio di un’autocolonna del Ministero degli interni: un ufficiale morto e due feriti. In entrambi i casi l’Isis ha rivendicato i fatti.

E’ sufficiente dare un’occhiata (supponiamo distratta, da parte dei censori del pensiero unico) alla cruda statistica degli attentati compiuti su tutto il territorio russo tra il 1994 e il 2015, per rendersi conto di come il sud del paese e, in particolare, il Dagestan e le altre repubbliche a maggioranza musulmana, siano state le aree che più hanno pagato il tributo di sangue al terrorismo islamista. Se il 2004 è stato forse l’anno più sanguinoso (oltre 600 morti tra Mosca, Samara, Repubblica di Ingušetia, aerei civili fatti saltare su Tula e Rostov e, infine, la scuola di Beslan assalita dai terroristi ceceni), in poco più di vent’anni la Russia ha contato più di 2.000 vittime. Tra gli episodi più sanguinosi in Dagestan, di cui si ha notizia, nella sola Makhačkala: 1 luglio 2005 (10 poliziotti uccisi e 19 feriti); 5 giugno 2009 (un cecchino uccide il Ministro degli interni e un alto funzionario del dicastero, ferendo altre persone); 6 gennaio 2010 (5 poliziotti uccisi e 24 feriti); 3 maggio 2012 (13 morti e 101 feriti tra poliziotti e civili); 20 maggio 2013 (4 morti e 40 feriti) e, a Kizljar, quello del 31 marzo 2010, con 10 morti e 37 feriti. La tecnica è stata quasi sempre quella di far seguire a una prima esplosione, una seconda, all’arrivo dei soccorsi.

Ma non sono notizie che valgano la pena di essere diffuse: le incursioni dei terroristi che dicono di rifarsi all’Islam sono all’ordine del giorno in Dagestan (sulle agenzie russe quasi non passa giorno che non compaiano lanci su operazioni antiterrorismo in questa o quella provincia della repubblica: una noia!), il paese è così lontano e, soprattutto, al 90% musulmano! Tanto più che, risparmiando ai lettori fastidiose punzecchiature quotidiane, si evita anche di dire che, come nel caso dei presunti attentatori fermati pochi giorni fa a Mosca, questi fossero arrivati dalla Turchia. Del resto, sempre dal Dagestan erano giunti gli organizzatori e le kamikaze che nel 2010 (il 29 marzo scorso era l’anniversario) fecero 40 morti e oltre 150 feriti in due esplosioni (a distanza di mezz’ora l’una dall’altra) in due diverse stazioni della linea della metropolitana di Mosca. Ma, non era ancora l’epoca del “Je suis…” e, in definitiva, è ormai risaputo da tempo: Mosca se l’è sempre cercate!

E poi, diciamocela tutta: si dice Russia, ma si intende sempre Unione Sovietica e son passati appena trent’anni da quando in tanti inneggiavano ai “combattenti per la libertà e difensori dell’Islam” e ai “migliori rappresentanti del popolo afghano” del “Jamiat-I-Islami”, che trucidavano gli esponenti delle organizzazioni  progressiste e intere scolaresche solo per il fatto di essere miste femminili-maschili o perché le insegnanti erano donne, bruciavano gli ospedali e le moschee.

Dunque, posta l’equivalenza Russia-Urss, può bene la Polonia, per dire, stabilire che saranno a breve eliminati gli oltre 500 monumenti esistenti nel paese a memoria dei soldati sovietici caduti della Seconda guerra mondiale, a partire da quelli eretti in segno di riconoscimento del popolo polacco all’Urss per la liberazione dal nazismo. E può altrettanto bene il presidente polacco Andrzej Duda, da Washington, pretendere che la Nato si dia più da fare in Europa orientale e che Mosca se ne vada dalla Crimea, terra promessa dell’altrettanto “memore” in fatto di eroicizzazione degli ex SS esteuropei, il suo omologo ucraino Petro Porošenko, anche lui a casa del padrone, per il summit sul nucleare. Anzi, nell’occasione, il vice presidente USA, Joe Biden, gli ha assicurato altri 335 milioni di $ per “l’assistenza dei consiglieri” (leggi: funzionari CIA in Ucraina), “programmi di istruzione” (condotti in Ucraina da ufficiali USA e Nato) e “aiuti non letali” (mezzi tecnici militari). Pare che Biden si sia premurato di dare a Porošenko anche le ultime indicazioni sulla composizione del nuovo governo, adatto a ricevere nuove garanzie USA al credito (per 1 miliardo $) e a obbedire agli ordini del FMI. Anche se, come accade da un po’ di tempo, The New York Times scrive che Washington dovrebbe riflettere seriamente se convenga continuare a “scialacquare soldi a palate nella palude di corruzione” ucraina.

Ma, del resto, corruzione a parte, sui soldi non ci si sputa e Porošenko è uno che sa fare i propri conti, infischiandosene delle miserie del proprio popolo: quelle civili, imposte da FMI e Banca mondiale, e quelle militari, di cui è direttamente responsabile. Secondo Forbes-Ucraina, Petro, nell’ultimo anno, sarebbe diventato più ricco di 100 milioni di $, andando a occupare la 6° posizione tra i magnati del paese, con un patrimonio valutato a 858 milioni di $. E non se la passano male nemmeno gli oligarchi che lo precedono nella classifica, nonostante le perdite dovute a crisi nei vari settori da essi controllati: mantiene il 1° posto Rinat Akhmetov, perdendo però 4,6 miliardi e fermandosi a 2,3 miliardi di $; al 2° posto l’eterno rivale di Porošenko, Igor Kolomojskij (1,3 mld $); a seguire, Gennadij Bogoljubov (1,3 mld $) e Viktor Pinčuk (1,2 mld $). Secondo Forbes-Ucraina, in seguito alla caduta dei prezzi delle materie prime (in particolare metallifere, per quanto riguarda Akhmetov) e alla chiusura di moltissime industrie, non solo nella zona di guerra del Donbass, il patrimonio complessivo dei 100 uomini più ricchi del paese si è ridotto di ¼ in pochissimi anni, fermandosi a circa 20 miliardi di $. Che non pare comunque poca cosa, ma che li ha sicuramente messi in allarme, anche per la perdita del mercato russo.

Forse anche per questo Porošenko ha ieri definito “inimmaginabile” e frutto solamente “dell’iniziativa di qualche deputato” il disegno di legge presentato alla Rada di rottura delle relazioni diplomatiche con la Russia. La guerra contro il proprio popolo nel Donbass è una cosa, ma gli affari e gli investimenti in Russia vengono prima di tutto! Si definiscono nazionalisti, ma, innanzitutto, sono affaristi.

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