Pubblichiamo la prima parte del
nostro intervento sul complesso intreccio tra immigrazione e lotta di
classe. Molti, troppi, propongono una stretta sui flussi migratori
invocando Marx: Marx si maneggia con cura, e quindi proviamo a fare un
po’ di chiarezza. Seguirà nei prossimi giorni la seconda parte.
L’arrivo di Matteo Salvini al Viminale ha portato, in maniera non sorprendente, a un imbarbarimento del dibattito riguardo agli sbarchi di immigrati. Ci sono pochi dubbi sul fatto che i propositi e gli atti bellicosi del Ministro dell’Interno siano soprattutto un modo per nascondere l’inconsistenza del governo gialloverde riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione Europea: appena si è trattato di scegliere se prendersela con le istituzioni che in questi anni ci hanno condannato a recessione, disoccupazione e bassi salari, o con gli immigrati, la Lega non ha avuto dubbi. Per condurli a miti consigli, è bastato poco.
Ciò che è più sorprendente è che molti, a
sinistra, sembrano essere d’accordo con le dichiarazioni e le scelte
del ministro leghista, in maniera più o meno esplicita. La ragione per
questa innaturale convergenza tra persone sedicenti di sinistra e un
ministro notoriamente razzista e di destra va ritrovata nel fatto che,
secondo gli esponenti di questa strana corrente di pensiero gli
immigrati contribuirebbero automaticamente alla riduzione dei salari dei
lavoratori autoctoni. Per giustificare questa conclusione, essi
ricorrono addirittura a Marx e al suo concetto di “esercito industriale
di riserva”. Gli immigrati contribuirebbero ad alimentare tale
“esercito”, offrendosi di lavorare per un salario sensibilmente
inferiore rispetto a quello dei lavoratori italiani, e finirebbero per
far ridurre i salari di tutti i lavoratori.
Chiaramente, non si può negare che il
fenomeno migratorio ponga oggettivamente grandi difficoltà quando si
ragiona in termini di lotta di classe. Non ci si può nascondere il fatto
che un grande afflusso di immigrati possa essere sfruttato in modo tale
da favorire il capitale a scapito dei lavoratori (immigrati e non).
Vedremo, però, che molti dei ragionamenti utilizzati per adottare una
posizione di irrigidimento e regolamento dei flussi migratori poggiano
su basi incerte, se non palesemente sbagliate.
In questo articolo, in particolare,
sosterremo quanto segue: 1) utilizzare Marx per giustificare le
politiche di Salvini è superficiale, quando non intellettualmente
truffaldino; 2) l’afflusso di lavoratori stranieri non provoca necessariamente un abbassamento dei salari reali.
Per sviscerare questi punti, partiremo da
uno dei tanti dibattiti sull’argomento che si stanno svolgendo a
sinistra negli ultimi tempi. Particolarmente rilevante per ciò di cui
vogliamo parlare è quello tra Giorgio Cremaschi e Moreno Pasquinelli.
Utilizzeremo alcuni passaggi del dibattito per chiarire alcuni punti, ma
molte delle argomentazioni che contestiamo sono estremamente diffuse,
anche a sinistra. Lo scambio tra Pasquinelli e Cremaschi va considerato
soltanto come esempio delle discussioni a sinistra.
No, Marx non dice che le frontiere andrebbero chiuse
Cremaschi si è scagliato, con parole inequivocabili, contro coloro i quali utilizzano Marx per sostenere che bisogna chiudere le frontiere agli immigrati.
A sentirsi chiamato in causa è stato in particolare Moreno Pasquinelli,
il quale ha ribadito che, secondo Marx, a operare in modo tale da far
sì che l’afflusso di lavoratori immigrati provochi l’abbassamento delle
retribuzioni dei lavoratori sarebbe nientepopodimeno che la legge della domanda e dell’offerta. Il lavoro, scrive Pasquinelli, vedrebbe il suo prezzo ridursi all’aumentare dell’offerta, a parità di domanda, come qualsiasi altra merce.
Ciò è fondamentale. Se ciò fosse vero, infatti, non vi sarebbero
alternative: gli interessi dei lavoratori autoctoni sarebbero
contrapposti a quelli degli immigrati, e la difesa dei primi passerebbe
necessariamente per la limitazione dei flussi migratori. Per questa
ragione, egli scrive, bisogna impedire che tutti questi disperati
raggiungano il suolo italiano. «Ferma restando la più ferma condanna di
razzismo e xenofobia, è nell’interesse del proletariato contrastare la
deportazione di massa causata dall’anarchia capitalista che produce
miseria nei paesi che depreda e controllare i flussi dei nuovi schiavi —
che qui, in tanti, andrebbero ad ingrossare le file del
sottoproletariato».
Per giustificare tale conclusione, Pasquinelli cita alcuni passaggi de Il Capitale:
«La domanda di lavoro non è tutt’uno con l’aumento del capitale, l’offerta di lavoro non è tutt’uno con l’aumento della classe operaia, in modo che due potenze indipendenti fra di loro agiscono l’una sull’altra. I dadi sono truccati. Il capitale agisce contemporaneamente da tutte e due le parti. Se da un lato la sua accumulazione aumenta la domanda di lavoro, dall’altro essa aumenta l’offerta di operai mediante la loro “messa in libertà”, mentre allo stesso la pressione dei disoccupati costringe gli operai occupati a render liquida una maggiore quantità di lavoro rendendo in tal modo l’offerta di lavoro in una certa misura indipendente dall’offerta di operai. Il movimento della legge della domanda e dell’offerta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale».
Peccato, però, che Pasquinelli trascuri
di riportare il passaggio immediatamente successivo, nel quale Marx fa
capire in maniera abbastanza inequivocabile cosa pensi della “legge”
della domanda e dell’offerta, soprattutto per quel che riguarda il
lavoro:
«non appena quindi [gli operai] cercano mediante sindacati ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe, — il capitale e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della «eterna» e per così dire «sacra» legge della domanda e dell’offerta. Ogni solidarietà fra gli operai occupati e quelli disoccupati turba infatti l’azione «pura» di quella legge».
Marx, dunque, non sostiene affatto, come
alcuni sembrano suggerire, che la legge della domanda e dell’offerta
c’è, vale anche per il lavoro e ce la dobbiamo tenere. Tutt’altro: il
modo in cui ne parla fa capire chiaramente come egli le consideri poco
più che artifici retorici e strumenti apologetici dei rapporti di forza
vigenti nelle economie capitalistiche. Sostiene che la legge in
questione non è né eterna, né sacra e che il modo migliore per evitare
di portare alla riduzione dei salari è la cooperazione, non
l’antagonismo, tra operai occupati e disoccupati. Nel nostro caso, di
solidarietà tra operai italiani e disoccupati stranieri.
Il contesto in cui avvengono le migrazioni: decisivo, ma non immutabile
L’idea per la quale l’afflusso di lavoratori immigrati provocherebbe, sic et simpliciter, una riduzione dei salari non è solo incompatibile con quanto affermato da Karl Marx. Se il problema fosse soltanto questo, i vari “cattivisti” interessati potrebbero uscirsene dicendo che è comunque vera, che Marx lo dicesse o no. In realtà non è neanche vera: è quantomeno semplicistica.
Sull’effetto che un’aumentata disponibilità di forza lavoro può avere sui salari dei lavoratori locali influiscono diversi fattori. In particolare, ci riferiamo alle leggi che regolano i contratti di lavoro, all’effettiva applicazione di tali leggi, alla libertà dei movimenti di capitale e a una miriade di altri fattori. Questo viene spesso dimenticato da molti degli autori di cui stiamo parlando, che assumono come dato immutabile ciò che in realtà non lo è, scambiando il particolare ordine sociale in cui viviamo per uno stato di natura, proprio come desidera l’ideologia dominante che essi si vantano di voler contrastare.
Scrive ancora Pasquinelli, ad esempio, in un altro articolo,
che l’attuale flusso migratorio “non è sostenibile perché, oltre ad
avere un effetto deflattivo sui salari e i diritti dei lavoratori, nel contesto dato
— austerità, pareggio di bilancio, smantellamento del welfare e dello
stato sociale, rispetto dei vincoli ordoliberisti europei — è fattore di
emarginazione crescente e sottoproletarizzazione, di spappolamento del
tessuto sociale, civile e repubblicano.”
Questo modo di pensare, molto diffuso tra
coloro che, da sinistra, spingono per un cambiamento di visione di
quest’area politica rispetto alla questione immigrazione, sconta due
errori.
Il primo è pensare che il “contesto dato”
agisca soltanto su emarginazione e sottoproletarizzazione, mentre il
fatto che i flussi migratori possano avere “un effetto deflattivo sui
salari e i diritti dei lavoratori” sembrerebbe una legge naturale,
indipendente dal contesto. Non è così, e lo abbiamo appena visto in
riferimento alla possibilità che occupati e disoccupati collaborino tra
loro in difesa dei salari di tutti. Inoltre, affinché i flussi migratori
possano avere tale effetto deflattivo, è necessario che i migranti
possano offrirsi a condizioni più convenienti (per i capitalisti)
rispetto a quelle alla quale lavora la popolazione autoctona. È però
chiaro che la flessibilità delle condizioni di lavoro dipende in maniera
critica dalle leggi che regolano i rapporti di lavoro. Se vi è una
legge sul salario minimo e quest’ultima viene fatta rispettare,
non vi è modo attraverso il quale i migranti possano esercitare il
suddetto effetto deflattivo sui salari. Allo stesso modo, se vi è una
legge sull’orario di lavoro e quest’ultima viene fatta rispettare, non è chiaro come i lavoratori immigrati possano influire sulle condizioni materiali di lavoro.
Il secondo errore consiste nel fatto di
giustificare l’insostenibilità degli attuali flussi migratori sulla base
del contesto dato. Sia chiaro: il contesto è quello e limita la
sostenibilità degli afflussi di migranti. Il contesto, però, non è
immutabile. Si può scegliere di combattere il contesto (austerità,
disoccupazione, arretramento dello stato sociale) o le migrazioni che
tale contesto rende insostenibili. Combattere le migrazioni chiudendo le
frontiere, soprattutto una volta che ci si sia resi conto che il
problema è il contesto delle politiche di austerità, è una scelta
inequivocabilmente reazionaria, indubbiamente di destra.
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