Il 2018 si è chiuso, per l’Italia, con l’ennesima manovra improntata all’austerità.
Dopo una lunga ed inutile pantomima, la partita si è chiusa con un
miserrimo 2.04% di deficit rispetto al PIL. Come ben sappiamo, ciò
implica un significativo avanzo primario – cioè una sottrazione netta di risorse
– e di conseguenza un impatto molto negativo sulla domanda aggregata
della nostra economia. Sappiamo anche che, vista la disoccupazione a due
cifre, la situazione delle nostre infrastrutture (autostrade, scuole,
ospedali) ed uno stato sociale sempre più in sofferenza (salute,
istruzione, ambiente), ciò che servirebbe è un robusto stimolo pubblico all’economia, che si tradurrebbe in un deficit di diversi punti percentuali sopra i parametri imposti da Maastricht e, successivamente, dal Fiscal Compact. Per poter fare questo, la rottura della gabbia europea
è un necessario ed ineludibile primo passo.
Solamente in questa
maniera, infatti, si può ribaltare la prospettiva tossica delle ‘risorse scarse’
– che viene strumentalmente usata per impedire, di fatto, la spesa in
deficit come strumento di politica economica – ed adottare una
conseguente strategia fatta di politiche industriali e spesa pubblica,
finanziata da una banca centrale accomodante tramite la creazione di
nuova moneta. C’è però un fantasma che incombe e che viene brandito
contro chi propone questo tipo di intervento: l’inflazione. L’argomento
si potrebbe sintetizzare così: “Sarebbe bellissimo che lo Stato spenda
per tutta una serie di cose meritorie quali la salute, l’istruzione, i
viadotti autostradali, etc., ma come faremmo poi a controllare
l’inflazione che ne deriverebbe?”.
Ma attraverso quale meccanismo la creazione di moneta, al fine di
finanziare la spesa pubblica, dovrebbe generare inflazione? Ipotizzando
di trovarsi in una situazione di pieno impiego delle risorse produttive
(non c’è disoccupazione, i macchinari vengono utilizzati a pieno ritmo),
l’immissione di nuovo potere d’acquisto tramite la creazione di nuova
moneta genera una extra domanda di beni di consumo e di investimento.
Questa extra domanda, tuttavia, non può essere accomodata da un aumento
della produzione. In una situazione di pieno impiego, infatti,
l’economia starebbe già producendo il massimo possibile, poiché non ci
sarebbero ulteriori lavoratori disponibili da assumere per produrre di
più, né margini di utilizzo più intensivo della capacità produttiva
installata. Se non può essere accomodata da un incremento della
produzione, la nuova domanda si scaricherà quindi in una pressione al
rialzo sui prezzi. Se l’immissione di moneta continuasse ad un ritmo
sostenuto, questo causerebbe anche un aumento dell’inflazione, che è il
tasso di crescita del livello dei prezzi.
Nonostante la teoria economica dominante
tenda a nascondere sotto il tappeto questo aspetto, la vulgata (così
tanto facilmente sbandierata dai media) dello “stampando moneta creiamo
inflazione” si regge in maniera cruciale sull’ipotesi di pieno impiego
delle risorse prduttive, la quale non ha evidentemente nessun riscontro nella
realtà che abbiamo di fronte tutti i giorni. In diversi Paesi
dell’Eurozona la disoccupazione viaggia, infatti, persistentemente sulla
doppia cifra. E anche gli Stati Uniti, che apparentemente si trovano
nei paraggi della piena occupazione in virtù di un tasso di
disoccupazione minore del 4%, ad uno sguardo attento si rivelano
intessuti di sottoccupazione, lavori precari e part time, ed un esercito di scoraggiati che il lavoro neanche lo cercano e quindi non vengono annoverati tra i disoccupati.
Abbiamo visto come, al di fuori del caso estremo di pieno impiego, non vi sia alcun meccanismo diretto
che colleghi le immissioni di liquidità nell’economia e l’aumento
dell’inflazione. Possiamo quindi dire che le fondamenta del discorso mainstream
su questo tema, discorso che purtroppo ha fatto breccia anche nel campo
non liberista, sono molto poco solide. D’altro canto, non è certo una
novità che una particolare interpretazione di un fatto economico si
affermi e perduri per ragioni prettamente meta-scientifiche. La lettura
che la teoria economica dominante propone dell’inflazione non è
ovviamente neutra, ma serve piuttosto a celare la natura reale di questo
fenomeno. Lungi dal derivare dalla immissione di moneta nel
sistema, l’inflazione è anch’essa frutto della contrapposizione tra
capitale e lavoro. Se l’imprenditore vede aumentare i salari
della propria forza lavoro, esso vorrà aumentare i prezzi dei prodotti
venduti, al fine di mantenere elevati i propri profitti. Di converso,
alti prezzi dei prodotti acquistati spingeranno i lavoratori a
richiedere aumenti dei salari, in modo da poter mantenere inalterato il
proprio tenore di vita. Ma salari più alti comprimeranno i profitti, e
così via. Una bassa inflazione è quindi collegabile a una lotta di
classe che si affievolisce, e questo è il vero elemento da tenere in
conto. Per questo motivo l’inflazione, in un sistema economico
capitalistico, non è certo un indice di una gestione dissennata delle
finanze pubbliche, ma lo specchio di una dinamica conflittuale nel
processo di distribuzione del reddito tra le classi sociali. In quanto
tale, il problema che l’inflazione pone alla politica economica è quello
di imporre la piena indicizzazione dei salari ai prezzi per evitare la
perdita di potere di acquisto dei redditi da lavoro e, in alternativa,
un controllo dei prezzi sui beni e servizi prodotti, per spezzare
all’origine il tentativo da parte dei capitalisti di aumentare i
profitti tramite una strada extra-contrattuale.
Colleghiamo ora il tassello mancante: il ruolo della domanda aggregata e della spesa pubblica. Se la domanda aggregata cresce, sostenuta dalla spesa pubblica in deficit, la disoccupazione diminuisce ed i lavoratori riprendono forza nel conflitto di classe.
Ad una minore disoccupazione corrisponde un minor potere di ricatto per
i padroni ed un maggior vigore della classe lavoratrice nel reclamare
aumenti salariali. Ecco perché il sostegno della banca centrale ai
programmi di spesa pubblica deve essere un obiettivo di lotta per le
classi popolari. La spesa pubblica è essa stessa frutto della lotta di classe,
storicamente un compromesso che le classi dominanti sono costrette ad
accettare quando il mondo del lavoro preme ed esercita il conflitto in
maniera efficace. Ogni parziale arretramento che il capitale è costretto
ad accettare è un piccolo passo in avanti per il lavoro, che mette in
moto un circolo virtuoso di riduzione della disoccupazione, ulteriore
aumento del potere contrattuale dei lavoratori ed ulteriori margini da
strappare al capitale nella spartizione del prodotto sociale, fino ad
avere la forza necessaria per mettere in discussione le fondamenta
stesse del sistema economico dominante.
In quest’ottica, robuste dosi di
spesa pubblica in deficit sono nulla più che un obiettivo intermedio,
ma un obiettivo intermedio con implicazioni materiali enormi, come
milioni di poveri e precari ci ricordano quotidianamente. Occorre
riappropriarsi di queste armi, senza farsi intimorire da spauracchi come
l’inflazione. Il cammino di emancipazione delle classi subalterne è
costellato da sottili tranelli come questo e continuare a farsene
intrappolare rappresenta un errore che non possiamo più permetterci.
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