di Chiara Cruciati – Il Manifesto
C’è chi ieri, sulla stampa
internazionale, parlava di «drone kamikaze» per descrivere il velivolo
saltato in aria ieri mattina sopra la base militare di al-Anad, nel sud
dello Yemen (qui il video).
Il quintale di esplosivo che portava è finito sul podio della
parata militare che l’esercito governativo yemenita e le forze della
coalizione anti-Houthi avevano organizzato. Subito è scoppiato il caos tra i vertici militari, riuniti sotto la tenda accanto a una gigantografia del presidente Hadi. Sabanet,
agenzia vicina agli Houthi, responsabili dell’attacco, l’ha definito
«un’azione contro invasori e mercenari». Il governo ufficiale yemenita,
filo-saudita, ha parlato di «crimine» compiuto da «milizie che non sono
pronte alla pace».
Di certo quel drone fa tremare la fragile tregua sulla città di
Hodeidah, strappata dall’Onu alle due parti alla fine dello scorso anno.
Non tanto per il numero di morti (sei quelli confermati) o per quello
di feriti (fonti governative parlano di 20, gli Houthi di oltre 100),
quanto per le personalità colpite: tra i feriti ci sono il capo
di stato maggiore dell’esercito yemenita Abdullah Nakhi, il suo vice
Zandani, il capo dell’intelligence militare Saleh Tamah e il governatore
della provincia di Lahj Ahmed al-Turki.
Il messaggio inviato dai ribelli Houthi è enorme: non c’è tregua che tenga senza una vera transizione politica.
Quella che il movimento politico della minoranza sciita, Ansar Allah,
chiede da anni e che da anni l’Arabia Saudita, padre padrone dello
Yemen, rispedisce al mittente. Ma il livello militare raggiunto –
impossibile negare un ruolo iraniano nella diffusione di certe armi –
spiega bene le difficoltà che i Saud incontrano nel paese, nel porre
fine alla resistenza Houthi.
Non aiuta la confusione che ancora regna ad Hodeidah, la città
portuale sul Mar Rosso oggetto dei più feroci scontri degli ultimi mesi e
della conseguente tregua sponsorizzata dalle Nazioni unite: gli Houthi
hanno accettato di ritirarsi dal porto, ma non si capisce bene a chi
dovrebbe passare il controllo dello scalo. L’inviato Onu Martin
Griffiths fa la spola tra Riyadh e Sana’a nel tentativo di tramutare
quel cessate il fuoco in un processo di pace politico. Finora senza
successo.
Solo 24 ore prima, mercoledì, Griffiths spiegava al Consiglio di
Sicurezza che l’accordo siglato nella cittadina svedese di Rimbo stava
conducendo a una significativa de-escalation del conflitto. Così non è e
non solo per l’esplosione del drone. La coalizione a guida
saudita e l’esercito governativo proseguono nelle operazioni militari
(come accaduto in questi anni, spesso contro civili: le ultime due
vittime ieri nella provincia di Hajjah) e lo stesso fanno i combattenti
Houthi, con Sabanet che su base quotidiana riporta di uccisioni di soldati yemeniti o della coalizione.
Griffiths lo sa bene e al Consiglio di Sicurezza lo ha ribadito: gli
scontri si sono attenuati, ma è anche vero che senza «sostanziali
progressi» quell’accordo cadrà nel vuoto. Nel mirino dell’inviato ci
sono i ritardi nell’accesso di aiuti umanitari e nel ritiro delle due
parti da Hodeidah.
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