di Felice Laudadio
Per uno come Gian
Maria Volonté (9.03.1933-6.12.1994) che per tutta la vita – ancorché
alquanto breve: morire a 61 anni è morire giovani – ha preteso da se
stesso coerenza politica, ideologica e comportamentale sarebbe stata
impresa dura, oggi, lottare per contrapporsi – lui che era un “uomo
contro”, un “attore contro” – al pantano nel quale questo Paese, il suo,
va inesorabilmente sprofondando. Ma in qualche modo, ho ragione di
credere, avrebbe trovato il modo di lottare, lui intellettuale,
nell’impressionante silenzio degli intellettuali che ci accerchia.
Volonté era prima di tutto, prim’ancora che un grande attore, un
militante politico colto, molto colto. E duro e puro. Duro fino
all’estremo, e in qualche guisa fino all’estremismo. E puro al punto da
sembrare (e talora essere) ingenuo e disarmato dietro la sua scorza di
burbero ‘rompicoglioni’ – qualcuno lo vedeva così – facile preda di
entusiasmi e di slanci impulsivi ma ideali che talvolta offrivano il
destro a chi sapeva e voleva strumentalmente usarne e abusarne. Nella
vita politica non meno che in quella professionale e privata.
Se un merito grande ha questo ricchissimo e documentato studio di Mirko Capozzoli semplicemente intitolato Gian Maria Volonté
(Add Editore, 2018, pp. 336, € 19) è quello di ripercorrere con estrema
puntualità, e puntualmente assistito dalle interviste curate da
Alejandro de la Fuente, il cammino che porterà Volonté fin da bambino, e
poi da adolescente introverso e fortemente condizionato dalla memoria
sepolta (non ne parlava mai) di suo padre – un fascista finito in galera
e condannato a morte quale criminale di guerra (sentenza mai eseguita)
– a diventare un irrequieto esponente di primo piano, per quanto molto
indipendente e autonomo, di quella vasta galassia di intellettuali e di
cineasti che ruoteranno attorno e dentro al Partito comunista italiano,
soprattutto quello di Enrico Berlinguer.
Un cammino accidentato
segnato in età ormai adulta da un’altra tragedia: quella dell’unico suo
fratello, Claudio, di poco più giovane, che, in origine fascista anche
lui, Gian Maria era riuscito poco alla volta, pazientemente, a
“convertire” alla sinistra. Ma, dopo essersi reso responsabile di un
omicidio involontario, Claudio s’era suicidato in carcere. Anche il loro
padre aveva tentato il suicidio in carcere. Fu forse per questa
“predisposizione” familiare, diciamo così, che alcuni dei suoi amici più
cari temettero (a torto, per fortuna) un gesto estremo da parte di Gian
Maria quando apprese d’esser stato colpito da una grave patologia
oncogena.
La memoria che il comune spettatore conserva di
Volonté è fondamentalmente legata alle sue mirabolanti apparizioni sul
grande schermo del cinema. In realtà Gian Maria nutriva, fin da
giovanissimo, una naturale vocazione a “fare teatro”. Aveva appena 17
anni quando cominciò a studiare recitazione, ma anche a recitare, presso
lo Studio Drammatico Internazionale di Edoardo Maltese, a Torino, per
poi approdare al teatro itinerante, i mitici Carri di Tespi con i loro
sterminati cartelloni (che Volonté ricordava spesso con sorridente
nostalgia), e ancora per aggregarsi nel 1953 alla compagnia di Alfredo
De Sanctis con la quale calcherà le tavole dei maggiori teatri italiani e
infine realizzare il grande sogno: l’agognata ammissione all’Accademia
Nazionale d’Arte Drammatica di Roma sotto le ali di Orazio Costa, forse
il massimo “formatore di attori” della scena (e del cinema) italiano, e
del suo direttore, lo scrittore Raul Radice, i quali, consapevoli
dell’enorme talento del ragazzo, si opporranno, contro il parere degli
altri docenti, alla sua espulsione dall’Accademia. Ma Volonté, che era
poverissimo, era venuto meno alle regole dell’istituzione fondata da
Silvio d’Amico: vietato recitare all’esterno dell’Accademia. E dunque,
quando non seguiva i corsi, lavorava. Recitando. Per campare.
Cozzopoli indaga approfonditamente e con molta cura la lunga fase di
formazione culturale e teatrale di Volonté che culminerà – dopo molte performances
e sempre più appaganti esperienze di palcoscenico con registi quali
Guido Salvini e soprattutto Franco Enriquez – nell’incontro con Giorgio
Albertazzi che lo proporrà per il ruolo di Rogozin ne L’idiota
di Dostoevskij nelle sei puntate dirette da Giacomo Vaccari trasmesse
dalla (allora unica) rete RAI-TV in settembre-ottobre 1959. Fu un grande
successo di pubblico, e per il 26enne Gian Maria un trionfo. Albertazzi
commentò: “Si impose immediatamente e già dopo la seconda puntata fu
subissato di richieste cinematografiche”. E Anna Maria Guarnieri: “Un
attore d’una bravura raffinatissima e di incredibile versatilità”.
In queste due notazioni dei suoi autorevolissimi colleghi è inscritto
il futuro di Volonté: il cinema, che di quella bravura e di quella
versatilità si gioverà moltissimo, e moltissimo gioverà a Gian Maria che
tuttavia, come nota Cozzopoli, “non considerava il cinema lo strumento
adatto per esprimere le proprie idee.” E invece, dal 1960, “il cinema
finirà per soppiantare” il teatro e la TV, nello stesso anno del fatale
incontro, sul palcoscenico dell’Arena di Verona, con la giovanissima
Carla Gravina, che non sarà per lui, Romeo, solo Giulietta, ma per anni
la sua compagna di vita e la madre della loro figlia Giovanna.
La versatilità. È la chiave di volta per afferrare l’arte e
l’intelligenza interpretativa (e non solo) di un attore che ben presto
si confermerà un mostro di bravura. Ma dietro le sue eccezionali
interpretazioni non c’è solo il mestiere, un grande mestiere che affonda
radici profonde nella sua formazione culturale e nella sua militanza
teatrale. C’è lo studio accurato, l’analisi approfondita e documentata
dei personaggi che interpreta sullo schermo, non diversamente da come
aveva studiato e approfondito i personaggi interpretati sulla scena. È
il “metodo Volonté”, un metodo personalissimo e irripetibile
cristallizzato nella dimensione creativa dell’attore-autore.
Pressoché tutti i ruoli che Gian Maria riveste – anche i più
insospettabili, vedi il feroce pistolero nei film di Leone o il mafioso
italo-americano Lucky Luciano nel film di Rosi – si fondano su una
finanche fanatica lettura analitica, e anzi psicoanalitica, e anzi
politica, del carattere e della psiche del personaggio da interpretare,
da studiare, da capire. E dietro la sua strepitosa capacità di mimesi e
di recitazione c’è una formidabile attitudine alla narrazione, al
“racconto” intimo e più segreto della personalità indagata e
interpretata. Alla narrazione del carattere e dei comportamenti, fino a
dettagli per altri insignificanti, Volonté dedica settimane, addirittura
mesi, di indagini, di letture, di inchiesta.
Un lavorìo
certosino e per certuni (produttori, registi, sceneggiatori, colleghi
attori) incomprensibile, tanta fatica esso comporta: da qui l’indole di
“autore” dei suoi lavori. Ma per riuscirvi Volonté ha a sua volta
bisogno di collaborare con talenti come il suo, seppur diversi: i
registi, in particolare. E lo sa talmente bene che non a caso, quando
deve scegliere, sceglie sì la sceneggiatura da interpretare, ma anche
chi la realizzerà. Fra i grandi attori italiani suoi contemporanei Gian
Maria è quello che ha fatto meno film, per scelta: 60 crediti fra cinema
e TV, secondo il portale IMDb, contro i 146 di Marcello Mastroianni (il
collega in qualche modo a Volonté più assimilabile), i 130 di Vittorio
Gassman, i 140 di Ugo Tognazzi. Versatilità, dunque, ma anche capacità e
volontà di scelta o di rifiuto, qualche volta autolesionistico come
quando rifiutò di lavorare ne Padrino di Francis F. Coppola, non foss’altro che per (tanti) soldi che pur gli erano necessari.
Denaro del quale, pur infischiandosene nella sua notoria generosità, ha
sempre comunque avuto bisogno. Per sostenere i compagni in difficoltà, e
talora in clandestinità. Per affrontare certi suoi cataclismi
famigliari. Per soddisfare la sua insopprimibile passione per la barca a
vela, uno dei suoi rarissimi lussi. Per pagare costosi interventi
chirurgici per il cancro ai polmoni vendendo un’amata casa sul mare di
Fregene. Per produrre in prima persona, perdendo casa e tutto – e
pagando anche le quote dei suoi latitanti “coproduttori” (si fa per
dire) – qualche strampalato film senza senso (ne ha fatti pure di
quelli, costretto da ragioni, diciamo così, “sentimentali” e/o
economiche). Ma senza mai perdere l’allegria e l’autoironia, e talora
una pungente cattiveria, pur in un permanente processo di camuffamento
da burbero e severo castigamatti.
Se un peccato grave Volonté
ha commesso, e Capozzoli lo segnala delicatamente nel suo bel libro, è
quello d’aver assecondato una pulsione, forse genetica e forse
inconsapevole, all’autodistruzione. Troppe fatiche, troppe sigarette
anche dopo l’intervento ai polmoni, troppa vis polemica e troppa
passione. Nella vita, nella politica, sul lavoro.
Un po’ come Molière, Volonté morirà a 61 anni sul set del suo ultimo film, Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos.
Morire a 61 anni è morire giovani.
Fonte
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