30/06/2025
L’ordine è di sparare sugli affamati. Il genocidio confermato dai militari israeliani
Un’inchiesta del giornale israeliano Haaretz ha rivelato che i soldati delle IDF hanno ricevuto l’ordine di sparare ai civili palestinesi in fila per ricevere gli aiuti umanitari. Uno dei militari, che hanno parlato coi giornalisti in forma anonima, ha descritto le zone intorno ai centri di distribuzione come “killing fields”: ‘campi della morte’, in cui i sionisti mietono vittime.
I soldati hanno detto che più di una volta hanno sparato ai civili che si ammassavano intorno ai punti per l’elargizione di cibo, prima e dopo la loro chiusura, come strumento per disperdere la folla. Appare evidente che non c’è alcuna ragione di sicurezza, né una ragione di gestione dei flussi, ma solo l’utilizzo della disperazione dei gazawi per massimizzare l’effetto delle stragi.
Uno dei soldati che ha parlato con Haaretz ha detto: “quando ero stanziato lì, venivano uccise ogni giorno da una a cinque persone. Erano trattate come forze ostili, non c’erano misure di controllo della folla o gas lacrimogeni, solo spari con qualsiasi arma a disposizione”. Ha anche aggiunto: “il fuoco era la nostra forma di comunicazione”.
Secondo altre fonti, a sparare sui civili sono state anche le milizie locali finanziate da Tel Aviv. Nessun palestinese ha mai risposto agli spari, mentre tra le fila dell’IDF queste operazioni vengono chiamate, in maniera macabra, come il gioco ‘un, due, tre, stella’. Per chi ha visto Squid Game, sa di cosa si tratta: chi si muove viene ucciso.
Un riservista della Divisione 252, una delle principali che opera intorno ai centri per gli aiuti, ha detto che anche solo domandare il perché di tali azioni “irrita i comandanti”, aggiungendo che “Gaza è un universo parallelo”. Un comandante delle forze armate israeliane, sentito da Haaretz, ha affermato che “questa cosa di uccidere persone innocenti è stata normalizzata”.
Dunque, tali massacri non sono il frutto di un errore, di un’incomprensione, o dei timori che può aver suscitato quella folla di persone, ammassata per poter mangiare qualcosa. È stato un atto deliberato di genocidio, in cui una grave responsabilità è da affibbiare anche alla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), anche se le stragi sono avvenute anche intorno ai pochi centri di distribuzione ONU.
A tale organizzazione non governativa, finanziata da Washington e da Israele, è stato affidato il compito di distribuire gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. A queste notizie se n’è aggiunta un’altra che ha tratti altrettanto inquietanti. Venerdì l’ufficio stampa del governo di Gaza ha dichiarato che sono state scoperte pillole di ossicodone all’interno dei sacchi di farina distribuiti dalla GHF.
Sono almeno quattro le testimonianze, fino ad ora, del ritrovamento di pasticche di questo oppiode, usato per il trattamento del dolore intenso e prolungato. Crea una forte dipendenza e può provocare allucinazioni e complicazioni respiratorie. In sostanza, potrebbe essere usato come ulteriore strumento per distruggere dall’interno la consapevolezza, l’unità e la resistenza del popolo palestinese.
Varie denunce, provenienti persino dall’ONU, hanno però evidenziato come essa sia diventata uno strumento della pulizia etnica sionista. “Non abbiamo bisogno di un rapporto di questo tipo per riconoscere che ci sono state violazioni massicce del diritto internazionale”, ha dichiarato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, rispondendo a una domanda di Al Jazeera sulle informazioni diffuse da Haaretz.
Ma sicuramente, queste notizie completano il quadro di operazioni portate avanti con un ragionato intento genocida. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Israel Katz, hanno condannato l’inchiesta di Haaretz, come riportato dal quotidiano The Times of Israel. Bisogna comunque dire che, al di là di queste ‘operazioni non necessarie’, buona parte della comunità israeliana è saldamente favorevole al processo di pulizia etnica.
Fonte
I soldati hanno detto che più di una volta hanno sparato ai civili che si ammassavano intorno ai punti per l’elargizione di cibo, prima e dopo la loro chiusura, come strumento per disperdere la folla. Appare evidente che non c’è alcuna ragione di sicurezza, né una ragione di gestione dei flussi, ma solo l’utilizzo della disperazione dei gazawi per massimizzare l’effetto delle stragi.
Uno dei soldati che ha parlato con Haaretz ha detto: “quando ero stanziato lì, venivano uccise ogni giorno da una a cinque persone. Erano trattate come forze ostili, non c’erano misure di controllo della folla o gas lacrimogeni, solo spari con qualsiasi arma a disposizione”. Ha anche aggiunto: “il fuoco era la nostra forma di comunicazione”.
Secondo altre fonti, a sparare sui civili sono state anche le milizie locali finanziate da Tel Aviv. Nessun palestinese ha mai risposto agli spari, mentre tra le fila dell’IDF queste operazioni vengono chiamate, in maniera macabra, come il gioco ‘un, due, tre, stella’. Per chi ha visto Squid Game, sa di cosa si tratta: chi si muove viene ucciso.
Un riservista della Divisione 252, una delle principali che opera intorno ai centri per gli aiuti, ha detto che anche solo domandare il perché di tali azioni “irrita i comandanti”, aggiungendo che “Gaza è un universo parallelo”. Un comandante delle forze armate israeliane, sentito da Haaretz, ha affermato che “questa cosa di uccidere persone innocenti è stata normalizzata”.
Dunque, tali massacri non sono il frutto di un errore, di un’incomprensione, o dei timori che può aver suscitato quella folla di persone, ammassata per poter mangiare qualcosa. È stato un atto deliberato di genocidio, in cui una grave responsabilità è da affibbiare anche alla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), anche se le stragi sono avvenute anche intorno ai pochi centri di distribuzione ONU.
A tale organizzazione non governativa, finanziata da Washington e da Israele, è stato affidato il compito di distribuire gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. A queste notizie se n’è aggiunta un’altra che ha tratti altrettanto inquietanti. Venerdì l’ufficio stampa del governo di Gaza ha dichiarato che sono state scoperte pillole di ossicodone all’interno dei sacchi di farina distribuiti dalla GHF.
Sono almeno quattro le testimonianze, fino ad ora, del ritrovamento di pasticche di questo oppiode, usato per il trattamento del dolore intenso e prolungato. Crea una forte dipendenza e può provocare allucinazioni e complicazioni respiratorie. In sostanza, potrebbe essere usato come ulteriore strumento per distruggere dall’interno la consapevolezza, l’unità e la resistenza del popolo palestinese.
Varie denunce, provenienti persino dall’ONU, hanno però evidenziato come essa sia diventata uno strumento della pulizia etnica sionista. “Non abbiamo bisogno di un rapporto di questo tipo per riconoscere che ci sono state violazioni massicce del diritto internazionale”, ha dichiarato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, rispondendo a una domanda di Al Jazeera sulle informazioni diffuse da Haaretz.
Ma sicuramente, queste notizie completano il quadro di operazioni portate avanti con un ragionato intento genocida. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Israel Katz, hanno condannato l’inchiesta di Haaretz, come riportato dal quotidiano The Times of Israel. Bisogna comunque dire che, al di là di queste ‘operazioni non necessarie’, buona parte della comunità israeliana è saldamente favorevole al processo di pulizia etnica.
Fonte
La “sicurezza” di chi comanda
Prepariamoci a vivere in uno stato de/costituzionalizzato. Le argomentate critiche della Corte di Cassazione e l’operazione di infiltrazione e spionaggio a danno di una forza politica e dei giornalisti da parte degli apparati di stato, hanno svelato in poche settimane quello che era diventato leggibile negli ultimi anni.
Siamo cresciuti in un contesto politico “costituzionale” in cui ogni governo, anche i peggiori, procedevano con cautela nella promulgazione di leggi e provvedimenti che minassero oltre un certo limite l’agibilità politica e democratica nel paese.
Non sempre però. Ci sono state anche “eccezioni”– per questo definite “d’emergenza” – accettate in modo totalmente bipartisan da destra e sinistra, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, con le leggi speciali in nome dell’antiterrorismo in cui fu consentito di tutto e di più, tortura inclusa.
Va anche detto che la logica dell’emergenza, ed anche alcuni suoi meccanismi, non sono affatto finiti con la “fine della fase acuta” ma sono rimasti come norma, mentalità, postura vendicativa sulla storia recente del Paese.
Ma questo assetto, formalmente costituzionale spesso oltre il limite dell’ipocrisia, ha retto fino a qualche anno fa, quando la crisi economica di sistema e il crollo di credibilità delle classi dirigenti hanno via via reso questo incerto equilibrio non più compatibile con le esigenze di dominio, a fronte dell’incapacità di assicurarsi il consenso.
“Se non ci obbedite per convinzione, ci obbedirete per forza”, sembrano essersi detti ai piani alti della classe dirigente...
La natura del Decreto sicurezza voluto e approvato dall’attuale governo ha incattivito le linee di regolazione già manifestate nei governi precedenti.
La Corte di Cassazione, in 130 pagine di controdeduzioni, ha demolito ogni compatibilità del decreto con gli assetti costituzionali formali (a partire dalla sproporzione abnorme delle pene rispetto alle infrazioni).
Il fatto che il Presidente Mattarella abbia avallato quel decreto, invece di rimandarlo indietro, non giova alla sua credibilità, ma neanche al governo. Diventa evidente che ogni processo che si svolgerà in base alla nuova legge vedrà sollevarsi eccezioni di incostituzionalità.
Ma parallelamente al Decreto sicurezza è venuto fuori anche un consolidato sistema di spionaggio da parte degli apparati di sicurezza contro attivisti politici e giornalisti che non è addebitabile solo al governo Meloni. In alcuni casi ci si è affidati ai sistemi tecnologici messi a disposizioni dai maestri del settore – gli israeliani – in altri casi si è ricorsi al vecchio sistema dell’infiltrazione di agenti di polizia dentro le organizzazioni politiche.
In questo secondo caso potremmo però essere in presenza di una missione operativa diversa da quella dello spionaggio – ormai facilmente gestibile con i sistemi tecnologici – e più simile a quella della infiltrazione di “agenti di influenza”.
I giovani agenti di polizia infiltrati – quelli per ora individuati – probabilmente non dovevano solo raccogliere informazioni ma, quando possibile, cercare di condizionare le scelte di piazza, seminare zizzania dove possibile, introdurre elementi di difficoltà e disorientamento nei passaggi difficili, “facilitare” l’intervento repressivo.
Per fare questo non potevano utilizzare un personale troppo estraneo al mondo che dovevano monitorare e influenzare. Hanno scelto quindi agenti molto giovani, alle prese con studi universitari e voglia di fare carriera (è noto che il “servizio attivo” garantisce un numero di esami minore e spesso “col 6 politico”).
La “bomba politica” adesso è esplosa in tre tempi: lo spionaggio per via informatica, l’approvazione del decreto sicurezza, la scoperta degli agenti infiltrati.
Il governo fino ad ora è stato reticente sugli aspetti più imbarazzanti, reso forte in questo dal fatto che alcuni attivisti e giornalisti sono stati spiati con il via libera del governo Conte, poi confermato da quello Meloni.
Nel secondo caso – il decreto sicurezza – il governo fa quadrato puntando sul fatto che la “sicurezza” è sempre un bene spendibile e vendibile a fini elettorali quando non hai nient’altro da distribuire per il consenso ed anzi devi far ingoiare alla gente decine di miliardi di spese militari e scenari di guerra.
Certo appare in qualche modo ridicolo mettere al centro “la sicurezza delle forze di polizia” – in realtà la loro non punibilità penale, una sorta di “immunità di gregge” – come se questa dovesse diventare più importante di quella dei cittadini che sono chiamati a “proteggere”.
Nel terzo caso – i poliziotti infiltrati – l’operazione porta invece il marchio ben visibile del governo in carica. Ma anche su questo il ministro degli Interni sembra avere un diavolo per capello per la scarsa destrezza dei suoi collaboratori, sia nella fase operativa che nella gestione politica.
La vicenda appare tutt’altro che conclusa e definita. Le infiltrazioni in sé ci dicono poco di nuovo, ma molto sul contesto in cui ci troveremo ad agire politicamente nei prossimi mesi ed anni.
Lo scudo costituzionale, fin qui, era stato spesso aggirato o “ammorbidito” ad hoc. Oggi è aperta la strada alla sua completa eliminazione, sotto lo sguardo comprensivo e silente di quello che dovrebbe esserne “il custode”.
Sono tempi in cui la barbarie non si vergogna più di manifestarsi senza alcuna maschera, in cui si può attuare un genocidio e vietare l’uso della parola. Che volete che sia, ignorare una Costituzione...
La “sicurezza” che viene imposta non è un bene comune, ma solo quella di chi comanda. In azienda e/o nello Stato.
Fonte
Siamo cresciuti in un contesto politico “costituzionale” in cui ogni governo, anche i peggiori, procedevano con cautela nella promulgazione di leggi e provvedimenti che minassero oltre un certo limite l’agibilità politica e democratica nel paese.
Non sempre però. Ci sono state anche “eccezioni”– per questo definite “d’emergenza” – accettate in modo totalmente bipartisan da destra e sinistra, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, con le leggi speciali in nome dell’antiterrorismo in cui fu consentito di tutto e di più, tortura inclusa.
Va anche detto che la logica dell’emergenza, ed anche alcuni suoi meccanismi, non sono affatto finiti con la “fine della fase acuta” ma sono rimasti come norma, mentalità, postura vendicativa sulla storia recente del Paese.
Ma questo assetto, formalmente costituzionale spesso oltre il limite dell’ipocrisia, ha retto fino a qualche anno fa, quando la crisi economica di sistema e il crollo di credibilità delle classi dirigenti hanno via via reso questo incerto equilibrio non più compatibile con le esigenze di dominio, a fronte dell’incapacità di assicurarsi il consenso.
“Se non ci obbedite per convinzione, ci obbedirete per forza”, sembrano essersi detti ai piani alti della classe dirigente...
La natura del Decreto sicurezza voluto e approvato dall’attuale governo ha incattivito le linee di regolazione già manifestate nei governi precedenti.
La Corte di Cassazione, in 130 pagine di controdeduzioni, ha demolito ogni compatibilità del decreto con gli assetti costituzionali formali (a partire dalla sproporzione abnorme delle pene rispetto alle infrazioni).
Il fatto che il Presidente Mattarella abbia avallato quel decreto, invece di rimandarlo indietro, non giova alla sua credibilità, ma neanche al governo. Diventa evidente che ogni processo che si svolgerà in base alla nuova legge vedrà sollevarsi eccezioni di incostituzionalità.
Ma parallelamente al Decreto sicurezza è venuto fuori anche un consolidato sistema di spionaggio da parte degli apparati di sicurezza contro attivisti politici e giornalisti che non è addebitabile solo al governo Meloni. In alcuni casi ci si è affidati ai sistemi tecnologici messi a disposizioni dai maestri del settore – gli israeliani – in altri casi si è ricorsi al vecchio sistema dell’infiltrazione di agenti di polizia dentro le organizzazioni politiche.
In questo secondo caso potremmo però essere in presenza di una missione operativa diversa da quella dello spionaggio – ormai facilmente gestibile con i sistemi tecnologici – e più simile a quella della infiltrazione di “agenti di influenza”.
I giovani agenti di polizia infiltrati – quelli per ora individuati – probabilmente non dovevano solo raccogliere informazioni ma, quando possibile, cercare di condizionare le scelte di piazza, seminare zizzania dove possibile, introdurre elementi di difficoltà e disorientamento nei passaggi difficili, “facilitare” l’intervento repressivo.
Per fare questo non potevano utilizzare un personale troppo estraneo al mondo che dovevano monitorare e influenzare. Hanno scelto quindi agenti molto giovani, alle prese con studi universitari e voglia di fare carriera (è noto che il “servizio attivo” garantisce un numero di esami minore e spesso “col 6 politico”).
La “bomba politica” adesso è esplosa in tre tempi: lo spionaggio per via informatica, l’approvazione del decreto sicurezza, la scoperta degli agenti infiltrati.
Il governo fino ad ora è stato reticente sugli aspetti più imbarazzanti, reso forte in questo dal fatto che alcuni attivisti e giornalisti sono stati spiati con il via libera del governo Conte, poi confermato da quello Meloni.
Nel secondo caso – il decreto sicurezza – il governo fa quadrato puntando sul fatto che la “sicurezza” è sempre un bene spendibile e vendibile a fini elettorali quando non hai nient’altro da distribuire per il consenso ed anzi devi far ingoiare alla gente decine di miliardi di spese militari e scenari di guerra.
Certo appare in qualche modo ridicolo mettere al centro “la sicurezza delle forze di polizia” – in realtà la loro non punibilità penale, una sorta di “immunità di gregge” – come se questa dovesse diventare più importante di quella dei cittadini che sono chiamati a “proteggere”.
Nel terzo caso – i poliziotti infiltrati – l’operazione porta invece il marchio ben visibile del governo in carica. Ma anche su questo il ministro degli Interni sembra avere un diavolo per capello per la scarsa destrezza dei suoi collaboratori, sia nella fase operativa che nella gestione politica.
La vicenda appare tutt’altro che conclusa e definita. Le infiltrazioni in sé ci dicono poco di nuovo, ma molto sul contesto in cui ci troveremo ad agire politicamente nei prossimi mesi ed anni.
Lo scudo costituzionale, fin qui, era stato spesso aggirato o “ammorbidito” ad hoc. Oggi è aperta la strada alla sua completa eliminazione, sotto lo sguardo comprensivo e silente di quello che dovrebbe esserne “il custode”.
Sono tempi in cui la barbarie non si vergogna più di manifestarsi senza alcuna maschera, in cui si può attuare un genocidio e vietare l’uso della parola. Che volete che sia, ignorare una Costituzione...
La “sicurezza” che viene imposta non è un bene comune, ma solo quella di chi comanda. In azienda e/o nello Stato.
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La crisi e le ore di lavoro: un secolo dopo
Il periodo più florido della collaborazione di Federico Caffè con il manifesto è stato nel 1980-81. Galapagos racconta che tra i suoi primi articoli riprende la rilettura di un carteggio tra il senatore Giovanni Agnelli e il senatore Luigi Einaudi, che la redazione titola: “Lavorare meno, lavorare tutti”. Uno slogan che – dice G. Mazzetti (Ai confini dello Stato sociale) – fu coniato per la prima volta dalla CISL. Se la CISL ha poi snobbato questo tema, per gli altri sindacati è rimasto solo uno slogan, da richiamare meccanicamente.
Gli scambi epistolari avvennero sulla rivista “La Riforma Sociale”, diretta da Einaudi, nel gennaio del 1933. (1)
Nel giugno del '32, il Presidente della F.I.A.T. rilasciò alla Word Press un’intervista sulla questione delle ore di lavoro e la crisi, suscitando una vivace discussione a livello mondiale.
Il 5 gennaio del 1933, G. Agnelli, rivolgendosi all’economista Einaudi, cerca di spiegare in modo pragmatico la disoccupazione “tecnica”, cioè quella legata all’introduzione delle macchine nella produzione industriale.
Egli propone un modello, con una serie di semplificazioni, partendo dal salario di sussistenze ovvero l’intero ammontare è speso per la riproduzione della forza lavoro e dei loro familiari.
Nota metodologica
Nel seguire il ragionamento, che sta alla base dello scambio epistolare, formulo un modello che esprime una sintesi comune dei diversi valori numerici utilizzati, per esplicare le proprie argomentazioni, con le rispettive variazioni. Nello specifico, circoscrivo l’analisi numerica di Agnelli all’interno del modello (tabella) proposto da Einaudi, il quale sottolinea la produzione aggiuntiva e i relativi compensi di ciò che lui definisce “capitale tecnico”.
Gli autori convengono sull’utilizzo del dollaro come unità di conto e ipotizzano il costo medio di una giornata lavorativa pari a un verdone. Nella mia rielaborazione introduco gli euro, per rendere il modello attuale e ipotizzo una giornata lavorativa pari a 80 euro, per semplificare i calcoli.
Un modello esplicativo della realtà economico sociale degli anni Trenta, del secolo scorso, caduto nell’oblio
Se nella fabbrica A lavorano 100 operai e il loro salario medio è di 80 euro al giorno, per una paga oraria di 10 euro all’ora, ogni giorno nasce una domanda di 8.000 euro di beni e servizi, che vengono acquistati sul mercato. Se a livello macro, cioè a livello aggregato, non ci sono intoppi, afferma G. Agnelli, gli affari girano bene, non si parla di crisi e quindi non c’è bisogno di lubrificare i meccanismi economici.
Ora, siccome gli industriali tendono a risparmiare il lavoro e a guadagnare di più, fanno a gara a chi introduce le migliori innovazioni tecnologiche, quindi succede che nel sito produttivo A, l’applicazione di nuovi macchinari permette a 75 operai di compiere il lavoro che prima era svolto da 100.
Il che significa che 25 operai rimangono disoccupati, mentre gli altri 75 producono la stessa quantità di prima, ma con meno ore, ossia 600 ore invece che 800, sulla base di una giornata lavorativa media di 8 ore. Quindi per produrre la stessa quantità di prima sono sufficienti solo 6 ore. Le aziende che operano nello stesso settore, se non si adeguano, rimangono fuori mercato.
Una volta che l’innovazione si è generalizzata, si verifica un incremento del tasso di disoccupazione, se i lavoratori e le lavoratrici resi superflui non trovano un’occupazione alternativa. I 25 operai che rimangono fuori riducono i loro consumi, i quali vanno ad incidere sulla produzione di altre aziende.
Se teniamo presente che quegli anni vivono una crisi industriale terrificante, il senatore Agnelli ha sotto gli occhi la riduzione della domanda di beni e servizi, rispetto al periodo precedente, e di conseguenza prende atto che per soddisfare i bisogni del mercato una parte dei 75 operai ancora attivi diventa ridondante.
Certo – continua il Presidente della F.I.A.T – voi economisti ci avete abituato a credere che ad un certo punto l’equilibrio sarà ripristinato, ma per noi capitalisti, quando ci troviamo sulla “china discendente”, ci sembra che questa “catena paurosa”, appena descritta, non abbia mai fine.
Tuttavia, egli constata, sul piano empirico, che in seguito all’invenzione tecnica, apportata nel processo produttivo, la quantità di beni prodotta nello stabilimento A rimane invariata, utilizzando 600 ore di lavoro anziché 800, quindi si presenta la possibilità di pagare lo stesso ammontare di salari, senza espellere i 25 operai, rimpiazzati dalle macchine, riducendo la giornata lavorativa da 8 a 6 ore.
Agnelli, nel porre la sua attenzione alla crisi dilagante, individua una soluzione empirica alla disoccupazione involontaria, legata alle innovazioni tecniche, ma poi asserisce che tale modello sussiste nella sua testa e funziona, in qualche misura da parafulmine ai “collassi spaventevoli” della domanda aggregata a cui i suoi occhi assistono impotenti. Quindi, un dubbio lo assale e rivolgendosi al suo collega senatore del Regno, chiede: “Nel mio discorso, ho trascurato qualche fattore invisibile, sui quali voi economisti vi dilettate?”
A dire il vero, Einaudi sulla questione dei “fattori invisibili”, che di fatto limitano le condizioni di vita di milioni di lavoratori, evade la risposta, non perché l’argomento sia troppo sottile per le sue capacità intellettuali.
No! C’è una ragione pratica che accomuna entrambi gli interlocutori: sebbene vivano una profonda crisi economica e sociale, non avvertono una situazione di disagio tale da spingerli al cambiamento. I fattori invisibili a cui accenna Agnelli esistono e si chiamano rapporti sociali di produzioni, infatti gli sviluppi delle forze produttive non trovano un risvolto positivo, se non vengono messi in discussione i rapporti della proprietà privata.
Quest’ultima puntualizzazione è necessaria e svolge una funzione meta-cognitiva nell’ambito dei rapporti sociali in cui sono immersi i due interlocutori, esprime un tentativo di spiegare le resistenze al cambiamento, non solo della classe che detta gli ordini del giorno dell’agenda sociale, per imporre il proprio punto di vista, ma anche della classe lavoratrice, la quale cede alle lusinghe, alle persuasioni all’uso della forza bruta dei membri del gruppo dominante, accettando l’idea mistificatrice che i guai dei lavoratori siano collegati alla “scarsità di risorse”, quindi siano costretti ad estendere o mantenere invariato il loro orario di lavoro.
Einaudi riprende il discorso del Presidente della F.I.A.T., evidenziando nel modello l’allargamento del ciclo produttivo, con l’introduzione della macchina, intesa come “qualunque procedimento tecnico atto a risparmiare lavoro”; percepisce che gli industriali sono impazienti di arrivare al nocciolo del problema.
Pertanto, gli fa notare che dopo l’introduzione dell’innovazione tecnologica, oltre alla diminuzione del lavoro socialmente necessario, per produrre il valore di 8.000 euro di beni, si verifica un incremento della produzione del 20 % che corrisponde a un valore monetario di 1.600 euro e rappresenta il compenso spettante agli inventori e ai risparmiatori che hanno contribuito a fabbricare la macchina.
Giova precisare che il discorso di Einaudi si basa su due semplificazioni della realtà produttiva di beni destinati alla vendita: la prima consiste nel mantenere invariata la capacità di acquisto di beni e servizi da un momento all’altro, cioè dal processo produttivo senza macchina a quello con la macchina; la seconda rende il modello interpretativo della realtà meno complicato, in quanto non dà importanza alla distinzione tra beni di consumo diretti e beni strumentali.
Dunque, l’apporto della macchina determina una riduzione della fatica dei lavoratori a parità di salario e presuppone, secondo l’impostazione di Einaudi, un aumento della produzione, che dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore, dagli inventori, cioè dalle conoscenze e competenze scientifiche in quel determinato periodo e contesto e dal saggio d’interesse.
Nella mia rilettura del modello ipotizzo un incremento di 1.600 euro di produzione aggiuntiva, mentre Einaudi suppone un incremento di 20 dollari della produzione aggiuntiva, cosicché la produzione totale passa da 100 a 120 unità giornaliere.
In queste circostanze, se vengono soddisfatte tutte le condizioni o le variabili che entrano in gioco – sostiene Einaudi – il sistema tende all’equilibrio, la situazione economica è stabile.
Dopodiché, lo schema di Einaudi cerca di entrare in profondità, dando rilievo ai dettagli matematici, individuando due categorie salariali: quella degli operai stazionari e quella dei progressivi. Tale separazione deriverebbe dalle difficoltà a uniformare le innovazioni tecnologiche, dato che una riduzione generalizzata a 6 ore per tutti i 100 lavoratori comporterebbe una perdita per quelli stazionari e un guadagno dei lavoratori progressivi che, peraltro, andrebbe a compensare lo squilibrio del primo gruppo.
Da buon liberale, non riesce a generalizzare gli aumenti di produttività a tutti i dipendenti, poiché, come ho già rilevato, non mette in discussione i rapporti di produzione capitalistici; riconosce le implicazioni delle tesi individuate da Keynes nella sua opera Essays in persuasion, in relazione agli straordinari aumenti della capacità produttiva registrata nel secolo precedente e sugli ulteriori sviluppi che si prospettano già negli anni trenta del XX secolo, nonostante la terrificante crisi che si vive in quel periodo.
Tuttavia, non coglie l’aspetto essenziale che genera la crisi ovvero la sovrapproduzione e la connessa domanda aggregata inadeguata, mostrando così di rimanere ancorato ai suoi rigidi principi liberisti e nella credenza che le forze del mercato siano in grado di autoregolarsi.
Cosa accadrebbe – chiede Einaudi – se la giornata lavorativa, dopo l’introduzione del “capitale tecnico” e la conseguente espulsione di 25 operai dal processo produttivo, rimanesse di 8 ore per i 75 operai ancora attivi, anziché ridurla a 6 ore ed impiegare l’intero gruppo di 100?
Il gruppo stazionario di 50 operai darebbe luogo ad un valore della produzione equivalente a quella anteriore all’introduzione della macchina, ossia 4.000 euro, mentre il gruppo progressivo, fermo restando le 8 ore giornaliere, creerebbe una quantità di prodotti pari a 5.600 euro, di cui 2.000 euro ai 25 operai, 1.600 euro come valore aggiuntivo ai risparmiatori e agli inventori ed i restanti 2.000 euro, che corrispondono agli aumenti di produttività e il relativo taglio dei 25 operai dal sito produttivo A, finiscono nelle tasche dell’imprenditore che organizza e gestisce il processo produttivo.
Il nocciolo della questione, secondo Einaudi è: “Che fare del margine disponibile dal gruppo progressivo?”
Il margine derivante dall’impiego della macchina non può essere destinato alla riduzione dell’orario di lavoro, in quanto per Einaudi questa strategia non rappresenta la soluzione al problema della disoccupazione o perlomeno, a suo giudizio, il percorrere tale strada condurrebbe al fallimento e sarebbe un rimedio temporaneo.
Nella sua scala gerarchica mette al primo posto gli interessi degli inventori, dei risparmiatori e in particolare degli imprenditori, i quali corrono il rischio dell’introduzione della macchina. Ovviamente, è distante anni luce dal concetto della macchina come lavoro oggettivato, come “lavoro morto”, che è il risultato delle conoscenze e delle competenze e in generale del sapere collettivo, non solo della generazione attuale, ma anche delle precedenti generazioni.
Egli ha un’idea degli inventori come dei soggetti avulsi dal contesto storico, come se estraessero le nuove scoperte dal cilindro di un cappello, alla stessa stregua dei maghi. Certo, il lavoro del singolo, il lavoro particolare, quando emerge, fa la differenza! Ma la domanda è: “Cosa sarebbe stato Leonardo Da Vinci senza il Rinascimento?”
Di fronte all’imperversare della crisi dei primi anni Trenta del secolo scorso, l’economista piemontese non può far finta di niente, non può tacere, quando prende atto dei milioni di disoccupati sparsi in tutti i paesi più industrializzati del Mondo, così come non può sconfessare il suo credo politico, che prevede un sussidio per non morire di fame
Tuttavia, egli prosegue imperterrito sulla sua tesi che non percepisce che si trovi al cospetto della disoccupazione tecnica o involontaria, tant’è che afferma che l’aiuto alla sopravvivenza di coloro che sono senza un lavoro, nonché delle loro famiglie, dev’essere disegnato in modo tale da non indurli a rimanere aggrappati alla “professione di disoccupati”.
Non si rende conto che si trova immerso in una profonda crisi strutturale di sovrapproduzione, che gli industriali non investono, poiché il ROI prospettico è negativo, non vede che il sistema si è bloccato, in ossequio alla destinazione di quel margine, che lui stesso rileva, nel suo schema di lettura della realtà esterna, con l’introduzione della macchina nel processo produttivo, agli imprenditori.
Tira dritto come se nulla fosse, sostenendo che la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non possa intervenire nella produzione degli “stessi beni” e fantastica di un’espansione della produzione di nuovi beni e servizi, che andrebbero a soddisfare prontamente la domanda dei consumatori sul mercato. Immagina di essere catapultato ai tempi di Jean-Baptiste Say e con lui sentenzia che l’“l’offerta crea la propria domanda”, ossia la produzione genera il reddito per acquistare tutto ciò che viene prodotto.
Nella mente di Einaudi, la negazione del problema degli sbocchi viaggia contemporaneamente alla giustificazione e perpetuazione degli extra-profitti, in un contesto in cui la disoccupazione dilaga; preferisce convergere gli incrementi di produttività sugli oneri figurativi degli imprenditori, dopo aver remunerato i “risparmiatori”, intesi come soggetti esterni all’impresa (le banche).
Allora, che fine fa il capitale di rischio? Nel suo discorso sparisce dalla circolazione e diventa un tabù.
A cosa corrisponde il denaro apportato dall’imprenditore che diventa capitale?
Quel denaro corrisponde al “lavoro risparmiato” e in misura maggiore allo sfruttamento dei lavoratori, cioè farli lavorare 8 ore, quando la riproduzione del loro salario è pari a 6 ore.
Quindi, nel cadere nelle grinfie della mistificazione, affida le sorti della riduzione dell’orario di lavoro al mercato, alla competizione tra industrie stazionarie e quelle progressive e soprattutto sferza i disoccupati, sui quali cadrebbe la responsabilità di non far sorgere la domanda di nuovi beni e servizi, se essi “continuano a dormire sonni tranquilli all’ombra di un sussidio permanente”.
In conclusione, sebbene i due interlocutori, come ho sottolineato qui sopra, appartengano alla stessa stratificazione sociale, c’è una sottile differenza che contraddistingue i loro modi di pensare e di agire, rispetto al fenomeno della disoccupazione.
Il senatore economista non esprime dubbi sulla propria condizione sociale, sottovaluta l’impatto del “capitale tecnico” sul risparmio di manodopera, individuando come variabili prioritarie la guerra, le crisi sociali di India e Cina, l’aumento dei dazi doganali e i connessi meccanismi di difesa, eccetera, ragion per cui pone la riduzione dell’orario di lavoro alla fine della sua scala gerarchica, sostenendo che il riequilibrio implica gradualità, tempi lunghi e un atteggiamento spontaneo (naturale) di non intervento sulle forze che interagiscono nel mercato.
Il senatore industriale, che ha una visione pragmatica delle relazioni sociali, oltre ad esprimere un dubbio sulle proprie condizioni di esistenza, è toccato materialmente dagli effetti della crisi, con la conseguente riduzione delle vendite e i relativi licenziamenti, quindi parte dal presupposto che il “fattore tecnico” rappresenti una componente fondamentale del problema della disoccupazione.
Al contrario di Einaudi, Agnelli pensa che la riduzione generale ed uniforme dell’orario di lavoro sia un problema all’ordine del giorno, da non rimandare a un futuro vago ed indefinito, non cade nel fascino di espressioni idiomatiche del tipo “l’alea incerta del domani” utilizzata da Einaudi nel suo ragionamento ed innanzitutto non s’illude che gli aggiustamenti o i riequilibri possano attuarsi con degli “automatismi naturali”, anzi bisogna spingere nella direzione di “aiutare le forze naturali” ad affrontare e supera i dolori del cambiamento, aggiungerei io.
1) L. Einaudi, La crisi e le ore di lavoro, in “La Riforma Sociale”, gennaio-febbraio 1933,p. 1-20, https://www.luigieinaudi.it
Fonte
Gli scambi epistolari avvennero sulla rivista “La Riforma Sociale”, diretta da Einaudi, nel gennaio del 1933. (1)
Nel giugno del '32, il Presidente della F.I.A.T. rilasciò alla Word Press un’intervista sulla questione delle ore di lavoro e la crisi, suscitando una vivace discussione a livello mondiale.
Il 5 gennaio del 1933, G. Agnelli, rivolgendosi all’economista Einaudi, cerca di spiegare in modo pragmatico la disoccupazione “tecnica”, cioè quella legata all’introduzione delle macchine nella produzione industriale.
Egli propone un modello, con una serie di semplificazioni, partendo dal salario di sussistenze ovvero l’intero ammontare è speso per la riproduzione della forza lavoro e dei loro familiari.
Nota metodologica
Nel seguire il ragionamento, che sta alla base dello scambio epistolare, formulo un modello che esprime una sintesi comune dei diversi valori numerici utilizzati, per esplicare le proprie argomentazioni, con le rispettive variazioni. Nello specifico, circoscrivo l’analisi numerica di Agnelli all’interno del modello (tabella) proposto da Einaudi, il quale sottolinea la produzione aggiuntiva e i relativi compensi di ciò che lui definisce “capitale tecnico”.
Gli autori convengono sull’utilizzo del dollaro come unità di conto e ipotizzano il costo medio di una giornata lavorativa pari a un verdone. Nella mia rielaborazione introduco gli euro, per rendere il modello attuale e ipotizzo una giornata lavorativa pari a 80 euro, per semplificare i calcoli.
Un modello esplicativo della realtà economico sociale degli anni Trenta, del secolo scorso, caduto nell’oblio
Se nella fabbrica A lavorano 100 operai e il loro salario medio è di 80 euro al giorno, per una paga oraria di 10 euro all’ora, ogni giorno nasce una domanda di 8.000 euro di beni e servizi, che vengono acquistati sul mercato. Se a livello macro, cioè a livello aggregato, non ci sono intoppi, afferma G. Agnelli, gli affari girano bene, non si parla di crisi e quindi non c’è bisogno di lubrificare i meccanismi economici.
Ora, siccome gli industriali tendono a risparmiare il lavoro e a guadagnare di più, fanno a gara a chi introduce le migliori innovazioni tecnologiche, quindi succede che nel sito produttivo A, l’applicazione di nuovi macchinari permette a 75 operai di compiere il lavoro che prima era svolto da 100.
Il che significa che 25 operai rimangono disoccupati, mentre gli altri 75 producono la stessa quantità di prima, ma con meno ore, ossia 600 ore invece che 800, sulla base di una giornata lavorativa media di 8 ore. Quindi per produrre la stessa quantità di prima sono sufficienti solo 6 ore. Le aziende che operano nello stesso settore, se non si adeguano, rimangono fuori mercato.
Una volta che l’innovazione si è generalizzata, si verifica un incremento del tasso di disoccupazione, se i lavoratori e le lavoratrici resi superflui non trovano un’occupazione alternativa. I 25 operai che rimangono fuori riducono i loro consumi, i quali vanno ad incidere sulla produzione di altre aziende.
Se teniamo presente che quegli anni vivono una crisi industriale terrificante, il senatore Agnelli ha sotto gli occhi la riduzione della domanda di beni e servizi, rispetto al periodo precedente, e di conseguenza prende atto che per soddisfare i bisogni del mercato una parte dei 75 operai ancora attivi diventa ridondante.
Certo – continua il Presidente della F.I.A.T – voi economisti ci avete abituato a credere che ad un certo punto l’equilibrio sarà ripristinato, ma per noi capitalisti, quando ci troviamo sulla “china discendente”, ci sembra che questa “catena paurosa”, appena descritta, non abbia mai fine.
Tuttavia, egli constata, sul piano empirico, che in seguito all’invenzione tecnica, apportata nel processo produttivo, la quantità di beni prodotta nello stabilimento A rimane invariata, utilizzando 600 ore di lavoro anziché 800, quindi si presenta la possibilità di pagare lo stesso ammontare di salari, senza espellere i 25 operai, rimpiazzati dalle macchine, riducendo la giornata lavorativa da 8 a 6 ore.
Agnelli, nel porre la sua attenzione alla crisi dilagante, individua una soluzione empirica alla disoccupazione involontaria, legata alle innovazioni tecniche, ma poi asserisce che tale modello sussiste nella sua testa e funziona, in qualche misura da parafulmine ai “collassi spaventevoli” della domanda aggregata a cui i suoi occhi assistono impotenti. Quindi, un dubbio lo assale e rivolgendosi al suo collega senatore del Regno, chiede: “Nel mio discorso, ho trascurato qualche fattore invisibile, sui quali voi economisti vi dilettate?”
A dire il vero, Einaudi sulla questione dei “fattori invisibili”, che di fatto limitano le condizioni di vita di milioni di lavoratori, evade la risposta, non perché l’argomento sia troppo sottile per le sue capacità intellettuali.
No! C’è una ragione pratica che accomuna entrambi gli interlocutori: sebbene vivano una profonda crisi economica e sociale, non avvertono una situazione di disagio tale da spingerli al cambiamento. I fattori invisibili a cui accenna Agnelli esistono e si chiamano rapporti sociali di produzioni, infatti gli sviluppi delle forze produttive non trovano un risvolto positivo, se non vengono messi in discussione i rapporti della proprietà privata.
Quest’ultima puntualizzazione è necessaria e svolge una funzione meta-cognitiva nell’ambito dei rapporti sociali in cui sono immersi i due interlocutori, esprime un tentativo di spiegare le resistenze al cambiamento, non solo della classe che detta gli ordini del giorno dell’agenda sociale, per imporre il proprio punto di vista, ma anche della classe lavoratrice, la quale cede alle lusinghe, alle persuasioni all’uso della forza bruta dei membri del gruppo dominante, accettando l’idea mistificatrice che i guai dei lavoratori siano collegati alla “scarsità di risorse”, quindi siano costretti ad estendere o mantenere invariato il loro orario di lavoro.
Einaudi riprende il discorso del Presidente della F.I.A.T., evidenziando nel modello l’allargamento del ciclo produttivo, con l’introduzione della macchina, intesa come “qualunque procedimento tecnico atto a risparmiare lavoro”; percepisce che gli industriali sono impazienti di arrivare al nocciolo del problema.
Pertanto, gli fa notare che dopo l’introduzione dell’innovazione tecnologica, oltre alla diminuzione del lavoro socialmente necessario, per produrre il valore di 8.000 euro di beni, si verifica un incremento della produzione del 20 % che corrisponde a un valore monetario di 1.600 euro e rappresenta il compenso spettante agli inventori e ai risparmiatori che hanno contribuito a fabbricare la macchina.
Giova precisare che il discorso di Einaudi si basa su due semplificazioni della realtà produttiva di beni destinati alla vendita: la prima consiste nel mantenere invariata la capacità di acquisto di beni e servizi da un momento all’altro, cioè dal processo produttivo senza macchina a quello con la macchina; la seconda rende il modello interpretativo della realtà meno complicato, in quanto non dà importanza alla distinzione tra beni di consumo diretti e beni strumentali.
Dunque, l’apporto della macchina determina una riduzione della fatica dei lavoratori a parità di salario e presuppone, secondo l’impostazione di Einaudi, un aumento della produzione, che dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore, dagli inventori, cioè dalle conoscenze e competenze scientifiche in quel determinato periodo e contesto e dal saggio d’interesse.
Nella mia rilettura del modello ipotizzo un incremento di 1.600 euro di produzione aggiuntiva, mentre Einaudi suppone un incremento di 20 dollari della produzione aggiuntiva, cosicché la produzione totale passa da 100 a 120 unità giornaliere.
In queste circostanze, se vengono soddisfatte tutte le condizioni o le variabili che entrano in gioco – sostiene Einaudi – il sistema tende all’equilibrio, la situazione economica è stabile.
Dopodiché, lo schema di Einaudi cerca di entrare in profondità, dando rilievo ai dettagli matematici, individuando due categorie salariali: quella degli operai stazionari e quella dei progressivi. Tale separazione deriverebbe dalle difficoltà a uniformare le innovazioni tecnologiche, dato che una riduzione generalizzata a 6 ore per tutti i 100 lavoratori comporterebbe una perdita per quelli stazionari e un guadagno dei lavoratori progressivi che, peraltro, andrebbe a compensare lo squilibrio del primo gruppo.
Da buon liberale, non riesce a generalizzare gli aumenti di produttività a tutti i dipendenti, poiché, come ho già rilevato, non mette in discussione i rapporti di produzione capitalistici; riconosce le implicazioni delle tesi individuate da Keynes nella sua opera Essays in persuasion, in relazione agli straordinari aumenti della capacità produttiva registrata nel secolo precedente e sugli ulteriori sviluppi che si prospettano già negli anni trenta del XX secolo, nonostante la terrificante crisi che si vive in quel periodo.
Tuttavia, non coglie l’aspetto essenziale che genera la crisi ovvero la sovrapproduzione e la connessa domanda aggregata inadeguata, mostrando così di rimanere ancorato ai suoi rigidi principi liberisti e nella credenza che le forze del mercato siano in grado di autoregolarsi.
Cosa accadrebbe – chiede Einaudi – se la giornata lavorativa, dopo l’introduzione del “capitale tecnico” e la conseguente espulsione di 25 operai dal processo produttivo, rimanesse di 8 ore per i 75 operai ancora attivi, anziché ridurla a 6 ore ed impiegare l’intero gruppo di 100?
Il gruppo stazionario di 50 operai darebbe luogo ad un valore della produzione equivalente a quella anteriore all’introduzione della macchina, ossia 4.000 euro, mentre il gruppo progressivo, fermo restando le 8 ore giornaliere, creerebbe una quantità di prodotti pari a 5.600 euro, di cui 2.000 euro ai 25 operai, 1.600 euro come valore aggiuntivo ai risparmiatori e agli inventori ed i restanti 2.000 euro, che corrispondono agli aumenti di produttività e il relativo taglio dei 25 operai dal sito produttivo A, finiscono nelle tasche dell’imprenditore che organizza e gestisce il processo produttivo.
Il nocciolo della questione, secondo Einaudi è: “Che fare del margine disponibile dal gruppo progressivo?”
Il margine derivante dall’impiego della macchina non può essere destinato alla riduzione dell’orario di lavoro, in quanto per Einaudi questa strategia non rappresenta la soluzione al problema della disoccupazione o perlomeno, a suo giudizio, il percorrere tale strada condurrebbe al fallimento e sarebbe un rimedio temporaneo.
Nella sua scala gerarchica mette al primo posto gli interessi degli inventori, dei risparmiatori e in particolare degli imprenditori, i quali corrono il rischio dell’introduzione della macchina. Ovviamente, è distante anni luce dal concetto della macchina come lavoro oggettivato, come “lavoro morto”, che è il risultato delle conoscenze e delle competenze e in generale del sapere collettivo, non solo della generazione attuale, ma anche delle precedenti generazioni.
Egli ha un’idea degli inventori come dei soggetti avulsi dal contesto storico, come se estraessero le nuove scoperte dal cilindro di un cappello, alla stessa stregua dei maghi. Certo, il lavoro del singolo, il lavoro particolare, quando emerge, fa la differenza! Ma la domanda è: “Cosa sarebbe stato Leonardo Da Vinci senza il Rinascimento?”
Di fronte all’imperversare della crisi dei primi anni Trenta del secolo scorso, l’economista piemontese non può far finta di niente, non può tacere, quando prende atto dei milioni di disoccupati sparsi in tutti i paesi più industrializzati del Mondo, così come non può sconfessare il suo credo politico, che prevede un sussidio per non morire di fame
Tuttavia, egli prosegue imperterrito sulla sua tesi che non percepisce che si trovi al cospetto della disoccupazione tecnica o involontaria, tant’è che afferma che l’aiuto alla sopravvivenza di coloro che sono senza un lavoro, nonché delle loro famiglie, dev’essere disegnato in modo tale da non indurli a rimanere aggrappati alla “professione di disoccupati”.
Non si rende conto che si trova immerso in una profonda crisi strutturale di sovrapproduzione, che gli industriali non investono, poiché il ROI prospettico è negativo, non vede che il sistema si è bloccato, in ossequio alla destinazione di quel margine, che lui stesso rileva, nel suo schema di lettura della realtà esterna, con l’introduzione della macchina nel processo produttivo, agli imprenditori.
Tira dritto come se nulla fosse, sostenendo che la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non possa intervenire nella produzione degli “stessi beni” e fantastica di un’espansione della produzione di nuovi beni e servizi, che andrebbero a soddisfare prontamente la domanda dei consumatori sul mercato. Immagina di essere catapultato ai tempi di Jean-Baptiste Say e con lui sentenzia che l’“l’offerta crea la propria domanda”, ossia la produzione genera il reddito per acquistare tutto ciò che viene prodotto.
Nella mente di Einaudi, la negazione del problema degli sbocchi viaggia contemporaneamente alla giustificazione e perpetuazione degli extra-profitti, in un contesto in cui la disoccupazione dilaga; preferisce convergere gli incrementi di produttività sugli oneri figurativi degli imprenditori, dopo aver remunerato i “risparmiatori”, intesi come soggetti esterni all’impresa (le banche).
Allora, che fine fa il capitale di rischio? Nel suo discorso sparisce dalla circolazione e diventa un tabù.
A cosa corrisponde il denaro apportato dall’imprenditore che diventa capitale?
Quel denaro corrisponde al “lavoro risparmiato” e in misura maggiore allo sfruttamento dei lavoratori, cioè farli lavorare 8 ore, quando la riproduzione del loro salario è pari a 6 ore.
Quindi, nel cadere nelle grinfie della mistificazione, affida le sorti della riduzione dell’orario di lavoro al mercato, alla competizione tra industrie stazionarie e quelle progressive e soprattutto sferza i disoccupati, sui quali cadrebbe la responsabilità di non far sorgere la domanda di nuovi beni e servizi, se essi “continuano a dormire sonni tranquilli all’ombra di un sussidio permanente”.
In conclusione, sebbene i due interlocutori, come ho sottolineato qui sopra, appartengano alla stessa stratificazione sociale, c’è una sottile differenza che contraddistingue i loro modi di pensare e di agire, rispetto al fenomeno della disoccupazione.
Il senatore economista non esprime dubbi sulla propria condizione sociale, sottovaluta l’impatto del “capitale tecnico” sul risparmio di manodopera, individuando come variabili prioritarie la guerra, le crisi sociali di India e Cina, l’aumento dei dazi doganali e i connessi meccanismi di difesa, eccetera, ragion per cui pone la riduzione dell’orario di lavoro alla fine della sua scala gerarchica, sostenendo che il riequilibrio implica gradualità, tempi lunghi e un atteggiamento spontaneo (naturale) di non intervento sulle forze che interagiscono nel mercato.
Il senatore industriale, che ha una visione pragmatica delle relazioni sociali, oltre ad esprimere un dubbio sulle proprie condizioni di esistenza, è toccato materialmente dagli effetti della crisi, con la conseguente riduzione delle vendite e i relativi licenziamenti, quindi parte dal presupposto che il “fattore tecnico” rappresenti una componente fondamentale del problema della disoccupazione.
Al contrario di Einaudi, Agnelli pensa che la riduzione generale ed uniforme dell’orario di lavoro sia un problema all’ordine del giorno, da non rimandare a un futuro vago ed indefinito, non cade nel fascino di espressioni idiomatiche del tipo “l’alea incerta del domani” utilizzata da Einaudi nel suo ragionamento ed innanzitutto non s’illude che gli aggiustamenti o i riequilibri possano attuarsi con degli “automatismi naturali”, anzi bisogna spingere nella direzione di “aiutare le forze naturali” ad affrontare e supera i dolori del cambiamento, aggiungerei io.
1) L. Einaudi, La crisi e le ore di lavoro, in “La Riforma Sociale”, gennaio-febbraio 1933,p. 1-20, https://www.luigieinaudi.it
Fonte
Nel 2025, quanto vale ancora la parola dei think tank sull’Iran?
Nella sua versione cartacea del 19 giugno 2025, un articolo del quotidiano Le Soir ci dice che, nonostante il suo arsenale, l’Iran è ancora in una posizione debole di fronte a Israele. A sostegno di questa affermazione, indica una fonte curiosa: il prestigioso think tank dell’International Institute for Strategic Studies (IISS). Ma quanto vale? Fondato nel 1958, con sede a Londra, l’IISS si presenta come una fonte di informazione affidabile, professionale e verificata sulle questioni geopolitiche mondiali. Ma soprattutto, afferma di non avere alcuna fedeltà a nessun governo o organizzazione politica di sorta.
Per quanto riguarda la professionalità, va ricordato che François Heisbourg, consigliere senior dell’IISS per il continente europeo, ha dichiarato nel 2002 senza tremare che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein esistevano davvero[1]. Questo nonostante i ripetuti rapporti di due commissioni delle Nazioni Unite, l’AIEA e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per quanto riguarda l’indipendenza, abbiamo il diritto di avere dubbi.
Di recente, nel 2016, secondo il Guardian[2], l’istituto è stato colpito da uno scandalo di corruzione, che ha coinvolto la sciocchezza di 25 milioni di sterline della famiglia reale del Bahrein. Sai? Questo piccolo paese del Golfo, una piattaforma off-shore, sede della Quinta Flotta della Marina degli Stati Uniti... Per alcuni anni, secondo il Guardian, il denaro del Bahrein ha rappresentato la metà delle entrate totali dell’IISS.
L’indipendenza finanziaria pone effettivamente alcuni problemi, e può essere osservata tra i suoi ex donatori, tutti attivi nel settore finanziario e bancario: tra il 1959 e il 1981, l’IISS ha beneficiato di generosi contributi di 4 milioni di dollari dalla Fondazione Ford[3]; in misura minore la Fondazione Rockefeller, con 48.000 sterline nel 1960 e nel 1964[4]; il Foreign Office britannico, con 100.000 sterline nel 1979[5]; e infine la MacArthur Foundation tra il 1984 e il 2017, con 6,7 milioni di dollari[6].
Più recentemente, sappiamo che nell’anno 2022-2023 l’Istituto ha avuto diritto a sovvenzioni da non meno di 6 enti governativi, per un importo di 753.416 sterline. Quali? Non lo sappiamo: nel Regno Unito la trasparenza per le donazioni non è vincolante. Ma possiamo ragionevolmente presumere che paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e la Germania siano inclusi.
Dietro la loro patina di indipendenza, la galassia di think tank transnazionali della NATO costituiscono un sistema decisamente partigiano, finanziariamente opaco e, come avrete intuito, molto influente. Perché è stato proprio un rapporto dell’IISS, pubblicato in un momento di grande dibattito, a dare a Tony Blair i mezzi per gettare il suo paese nella guerra in Iraq, che è costata la vita a quasi 200 soldati britannici e mezzo milione di iracheni. E questo per una spudorata menzogna!
Il quotidiano Le Soir farebbe meglio a rivedere le sue fonti. Perché c’è un’aria di somiglianza con gli articoli di questo stesso giornale che avrebbero dovuto dimostrare tra il 2022 e il 2023 la cosiddetta debolezza militare della Russia! Abbiamo visto cosa succede: nulla di ciò che è stato ripetutamente previsto è accaduto. Presentando informazioni non verificate provenienti da fonti corrotte e di parte, si diventa complici di una macchina da guerra che scoraggia il dialogo tra gli Stati e che costa migliaia di vite. Sì signori, le bugie uccidono!
Note
[1] Le Monde, 16 luglio 2003
[2] The Guardian, 6 dicembre 2016
[3] The Times, 28 novembre 1958
[4] The Times, 26 ottobre 1960 e 17 agosto 1964
[5] The Independent, 26 maggio 2004
[6] Associated Press, 24 gennaio 1985
Fonte
Per quanto riguarda la professionalità, va ricordato che François Heisbourg, consigliere senior dell’IISS per il continente europeo, ha dichiarato nel 2002 senza tremare che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein esistevano davvero[1]. Questo nonostante i ripetuti rapporti di due commissioni delle Nazioni Unite, l’AIEA e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per quanto riguarda l’indipendenza, abbiamo il diritto di avere dubbi.
Di recente, nel 2016, secondo il Guardian[2], l’istituto è stato colpito da uno scandalo di corruzione, che ha coinvolto la sciocchezza di 25 milioni di sterline della famiglia reale del Bahrein. Sai? Questo piccolo paese del Golfo, una piattaforma off-shore, sede della Quinta Flotta della Marina degli Stati Uniti... Per alcuni anni, secondo il Guardian, il denaro del Bahrein ha rappresentato la metà delle entrate totali dell’IISS.
L’indipendenza finanziaria pone effettivamente alcuni problemi, e può essere osservata tra i suoi ex donatori, tutti attivi nel settore finanziario e bancario: tra il 1959 e il 1981, l’IISS ha beneficiato di generosi contributi di 4 milioni di dollari dalla Fondazione Ford[3]; in misura minore la Fondazione Rockefeller, con 48.000 sterline nel 1960 e nel 1964[4]; il Foreign Office britannico, con 100.000 sterline nel 1979[5]; e infine la MacArthur Foundation tra il 1984 e il 2017, con 6,7 milioni di dollari[6].
Più recentemente, sappiamo che nell’anno 2022-2023 l’Istituto ha avuto diritto a sovvenzioni da non meno di 6 enti governativi, per un importo di 753.416 sterline. Quali? Non lo sappiamo: nel Regno Unito la trasparenza per le donazioni non è vincolante. Ma possiamo ragionevolmente presumere che paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e la Germania siano inclusi.
Dietro la loro patina di indipendenza, la galassia di think tank transnazionali della NATO costituiscono un sistema decisamente partigiano, finanziariamente opaco e, come avrete intuito, molto influente. Perché è stato proprio un rapporto dell’IISS, pubblicato in un momento di grande dibattito, a dare a Tony Blair i mezzi per gettare il suo paese nella guerra in Iraq, che è costata la vita a quasi 200 soldati britannici e mezzo milione di iracheni. E questo per una spudorata menzogna!
Il quotidiano Le Soir farebbe meglio a rivedere le sue fonti. Perché c’è un’aria di somiglianza con gli articoli di questo stesso giornale che avrebbero dovuto dimostrare tra il 2022 e il 2023 la cosiddetta debolezza militare della Russia! Abbiamo visto cosa succede: nulla di ciò che è stato ripetutamente previsto è accaduto. Presentando informazioni non verificate provenienti da fonti corrotte e di parte, si diventa complici di una macchina da guerra che scoraggia il dialogo tra gli Stati e che costa migliaia di vite. Sì signori, le bugie uccidono!
Note
[1] Le Monde, 16 luglio 2003
[2] The Guardian, 6 dicembre 2016
[3] The Times, 28 novembre 1958
[4] The Times, 26 ottobre 1960 e 17 agosto 1964
[5] The Independent, 26 maggio 2004
[6] Associated Press, 24 gennaio 1985
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Spiaggiati sull’ultima spiaggia?
Ci risiamo con l’“effetto Serra”. Il quale gongola su Repubblica per lo straordinario successo del Gay Pride di Budapest. Con argomenti, però, che sembrano la riedizione del famoso teorema del Ricucci da Zagarolo, che sosteneva “so tutti fr..ci col c..o degli altri”, condito da quell’assonanza tra vizio e sfizio, preso in prestito da un penoso quanto inutile spot pubblicitario di un casinò online contro il gioco d’azzardo (!!!), dove il vero azzardo è stato l’improvvida interpretazione di Lino Banfi travestito da croupier.
Le ipocrisie sono come le ciliegie, una tira l’altra.
A proposito di ciliegie, veniamo al nocciolo. Il nuovo “effetto Serra” sostiene che le battaglie civili non sono seconde a quelle politiche e sociali. Tutto qui? Le grandi lotte operaie e studentesche degli anni in cui Serra era nel Pci avrebbero – almeno – dovuto insegnarli che le lotte sociali in Italia sono state il locomotore della difesa e della conquista di nuovi diritti civili, anche se il Pci nicchiava, tanto che lo stesso Serra aderì al Partito radicale, che ammetteva la doppia tessera.
Ecco allora il punto. Se non si riprendono le redini del disagio e delle contraddizioni politiche e sociale di milioni di lavoratori poveri, precari, donne, gay, immigrati per guidarli verso il riscatto dalla condizione di penosa subalternità cui la società neoliberista li ha soggiogati, non ci saranno conquiste sul terreno dei diritti civili. Un omosessuale povero avrà sempre meno diritti di un gay dei quartieri alti.
L’essenza stessa della democrazia non è la tolleranza nei confronti dell’omosessualità, né della povertà, né della nazionalità, ma l’uguaglianza tra i generi, tra i cittadini italiani e quelli del mondo, insomma tra gli esseri umani, perché la discriminazione, prima di diventare un fenomeno di costume, è un asset fondante dello sfruttamento degli individui attraverso redditi scandalosi che conducono a vite sociali miserabili, nelle quali si annida la discriminazione.
E allora, che il PD – che sembra ormai spiaggiato sull’ultima spiaggia della politica italiana – partecipi pure a tutte le manifestazioni che vuole, soprattutto a quelle che fanno tanto effetto a Serra.
Però, quello che manca è quello che serve, cioè la consapevolezza politica che dalla partecipazione è necessario passare all’organizzazione di nuove e incisive esperienze politiche collettive che sappiano resistere allo sfacelo della democrazia occidentale – di cui l’Europa è ormai portabandiera – e prefigurare un mondo capace di salvarsi dal declino degli imperi, che ci sta portando alla guerra come lavabo liturgico di tutti i mali.
Fonte
Le ipocrisie sono come le ciliegie, una tira l’altra.
A proposito di ciliegie, veniamo al nocciolo. Il nuovo “effetto Serra” sostiene che le battaglie civili non sono seconde a quelle politiche e sociali. Tutto qui? Le grandi lotte operaie e studentesche degli anni in cui Serra era nel Pci avrebbero – almeno – dovuto insegnarli che le lotte sociali in Italia sono state il locomotore della difesa e della conquista di nuovi diritti civili, anche se il Pci nicchiava, tanto che lo stesso Serra aderì al Partito radicale, che ammetteva la doppia tessera.
Ecco allora il punto. Se non si riprendono le redini del disagio e delle contraddizioni politiche e sociale di milioni di lavoratori poveri, precari, donne, gay, immigrati per guidarli verso il riscatto dalla condizione di penosa subalternità cui la società neoliberista li ha soggiogati, non ci saranno conquiste sul terreno dei diritti civili. Un omosessuale povero avrà sempre meno diritti di un gay dei quartieri alti.
L’essenza stessa della democrazia non è la tolleranza nei confronti dell’omosessualità, né della povertà, né della nazionalità, ma l’uguaglianza tra i generi, tra i cittadini italiani e quelli del mondo, insomma tra gli esseri umani, perché la discriminazione, prima di diventare un fenomeno di costume, è un asset fondante dello sfruttamento degli individui attraverso redditi scandalosi che conducono a vite sociali miserabili, nelle quali si annida la discriminazione.
E allora, che il PD – che sembra ormai spiaggiato sull’ultima spiaggia della politica italiana – partecipi pure a tutte le manifestazioni che vuole, soprattutto a quelle che fanno tanto effetto a Serra.
Però, quello che manca è quello che serve, cioè la consapevolezza politica che dalla partecipazione è necessario passare all’organizzazione di nuove e incisive esperienze politiche collettive che sappiano resistere allo sfacelo della democrazia occidentale – di cui l’Europa è ormai portabandiera – e prefigurare un mondo capace di salvarsi dal declino degli imperi, che ci sta portando alla guerra come lavabo liturgico di tutti i mali.
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«Mamdani è una ribellione: basta sostegno Usa a Israele»
La natura coloniale del progetto sionista, il rapporto tra Israele e Stati Uniti, le mobilitazioni globali e le voci dei palestinesi: il nuovo libro di Chris Hedges, storico corrispondente del New York Times in Medio Oriente e premio Pulitzer, è un viaggio nel passato e nel presente. “Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza e resistenza nella Palestina occupata” è uscito due settimane fa per Fazi (18 euro, 240 pagine).
Lo abbiamo raggiunto a New York.
Quanto accede da 20 mesi non è una sorpresa e lei ne ricostruisce le ragioni: il colonialismo d’insediamento è il cuore della questione palestinese. Perché, dopo 77 anni, si fatica ancora a chiamarlo così?
A causa della propaganda senza sosta e degli attacchi subiti da chi descrive Israele come andrebbe descritto, un progetto di colonialismo d’insediamento e uno stato di apartheid. Si viene censurati, si rischia di perdere il posto di lavoro. Le persone pagano un prezzo alto se tentano di descrivere la realtà della Palestina storica.
Io stesso sono un target: sono stato bandito dai campus, le mie iniziative sono cancellate, sono soggetto da decenni a campagne mediatiche per quello che scrivo. È una macchina ben oliata.
Nel libro spiega il ruolo che Israele gioca nelle dinamiche di potere interne agli Stati Uniti. Esiste una percezione di tale influenza tra le persone?
Da quando il genocidio è iniziato, sempre più persone sono consapevoli del potere della lobby israeliana e del fatto che il sistema politico Usa sia definito da una corruzione legalizzata. Hanno molti soldi e li investono sia per far eleggere persone sia per distruggere i concorrenti. E così arriviamo a vedere Netanyahu, un criminale di guerra su cui pesa un mandato d’arresto, ricevere una standing ovation al Congresso.
Anche per questo le primarie Dem a New York sono interessanti: la vittoria di Zohran Mamdani è una ribellione vera, è la prova che le persone sono stanche di questo sistema di potere. I giovani ebrei si sono allontanati da Israele, sono una parte importante delle mobilitazioni nei campus. A Israele restano i cristiani fascisti. Dopo 20 mesi di genocidio la sua immagine è irrevocabilmente danneggiata.
Lei però sostiene che gli interessi strategici di Stati Uniti e Israele non coincidono.
La lobby israeliana è costruita sull’alleanza con i neoconservatori, soggetti che credono che al di fuori del perimetro Usa esistano barbari che comprendono solo il linguaggio della forza. Coprivo l’Iraq negli anni di Saddam Hussein: era brutale ma odiava al-Qaeda e non aveva a che fare con l’11 settembre. Ma Israele voleva distruggere quel paese, sostenitore di lungo corso dei palestinesi, e ci è riuscito.
Lo stesso vale per l’Iran e, prima, per Assad in Siria. Dico che gli interessi Usa però non coincidono, anzi che Israele ha provocato molti danni agli Stati Uniti, perché i fiaschi militari pesantemente incoraggiati da Israele hanno accelerato il declino dell’impero americano.
Mobilitazioni nei campus e nelle piazze, campagna Bds... possono essere davvero efficaci a fronte del sostegno morale, politico e logistico che i governi occidentali garantiscono a Israele?
La campagna Bds può non aver ottenuto ancora tantissimo sul fronte dei disinvestimenti, ma ha educato un’intera generazione sul colonialismo d’insediamento israeliano e sugli effetti sui palestinesi. Guardiamo al boicottaggio del Sudafrica dell’apartheid: questo tipo di azioni richiedono un enorme lasso di tempo, ma funzionano. È per questo che il governo israeliano ne è così spaventato.
Lei scrive che se Israele riuscirà nell’intento di distruggere Gaza, segnerà anche la propria fine: i palestinesi diverranno il sinonimo di Israele, come i turchi lo sono degli armeni e i tedeschi di namibiani e di ebrei.
Israele è diventato uno stato paria. Data l’aggressività in Medio Oriente, senza il sostegno statunitense, sarebbe impossibile per Israele sostenersi anche nel breve periodo. Sta perdendo amici nel mondo e diverrà sempre più vulnerabile, anche a causa delle fratture interne.
Succede a tutti gli imperi: i meccanismi usati per il controllo esterno, i centri di interrogatorio, la polizia militarizzata, le torture, tutte queste forme di controllo brutale tornano indietro, in patria. Sta già accadendo negli Stati Uniti. Israele è divenuto un paese dispotico, teocratico e corrotto e sta subendo una fuga di cervelli, centinaia di migliaia di israeliani laici e istruiti se ne sono andati. La vittoria di Israele è una vittoria di Pirro.
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Lo abbiamo raggiunto a New York.
Quanto accede da 20 mesi non è una sorpresa e lei ne ricostruisce le ragioni: il colonialismo d’insediamento è il cuore della questione palestinese. Perché, dopo 77 anni, si fatica ancora a chiamarlo così?
A causa della propaganda senza sosta e degli attacchi subiti da chi descrive Israele come andrebbe descritto, un progetto di colonialismo d’insediamento e uno stato di apartheid. Si viene censurati, si rischia di perdere il posto di lavoro. Le persone pagano un prezzo alto se tentano di descrivere la realtà della Palestina storica.
Io stesso sono un target: sono stato bandito dai campus, le mie iniziative sono cancellate, sono soggetto da decenni a campagne mediatiche per quello che scrivo. È una macchina ben oliata.
Nel libro spiega il ruolo che Israele gioca nelle dinamiche di potere interne agli Stati Uniti. Esiste una percezione di tale influenza tra le persone?
Da quando il genocidio è iniziato, sempre più persone sono consapevoli del potere della lobby israeliana e del fatto che il sistema politico Usa sia definito da una corruzione legalizzata. Hanno molti soldi e li investono sia per far eleggere persone sia per distruggere i concorrenti. E così arriviamo a vedere Netanyahu, un criminale di guerra su cui pesa un mandato d’arresto, ricevere una standing ovation al Congresso.
Anche per questo le primarie Dem a New York sono interessanti: la vittoria di Zohran Mamdani è una ribellione vera, è la prova che le persone sono stanche di questo sistema di potere. I giovani ebrei si sono allontanati da Israele, sono una parte importante delle mobilitazioni nei campus. A Israele restano i cristiani fascisti. Dopo 20 mesi di genocidio la sua immagine è irrevocabilmente danneggiata.
Lei però sostiene che gli interessi strategici di Stati Uniti e Israele non coincidono.
La lobby israeliana è costruita sull’alleanza con i neoconservatori, soggetti che credono che al di fuori del perimetro Usa esistano barbari che comprendono solo il linguaggio della forza. Coprivo l’Iraq negli anni di Saddam Hussein: era brutale ma odiava al-Qaeda e non aveva a che fare con l’11 settembre. Ma Israele voleva distruggere quel paese, sostenitore di lungo corso dei palestinesi, e ci è riuscito.
Lo stesso vale per l’Iran e, prima, per Assad in Siria. Dico che gli interessi Usa però non coincidono, anzi che Israele ha provocato molti danni agli Stati Uniti, perché i fiaschi militari pesantemente incoraggiati da Israele hanno accelerato il declino dell’impero americano.
Mobilitazioni nei campus e nelle piazze, campagna Bds... possono essere davvero efficaci a fronte del sostegno morale, politico e logistico che i governi occidentali garantiscono a Israele?
La campagna Bds può non aver ottenuto ancora tantissimo sul fronte dei disinvestimenti, ma ha educato un’intera generazione sul colonialismo d’insediamento israeliano e sugli effetti sui palestinesi. Guardiamo al boicottaggio del Sudafrica dell’apartheid: questo tipo di azioni richiedono un enorme lasso di tempo, ma funzionano. È per questo che il governo israeliano ne è così spaventato.
Lei scrive che se Israele riuscirà nell’intento di distruggere Gaza, segnerà anche la propria fine: i palestinesi diverranno il sinonimo di Israele, come i turchi lo sono degli armeni e i tedeschi di namibiani e di ebrei.
Israele è diventato uno stato paria. Data l’aggressività in Medio Oriente, senza il sostegno statunitense, sarebbe impossibile per Israele sostenersi anche nel breve periodo. Sta perdendo amici nel mondo e diverrà sempre più vulnerabile, anche a causa delle fratture interne.
Succede a tutti gli imperi: i meccanismi usati per il controllo esterno, i centri di interrogatorio, la polizia militarizzata, le torture, tutte queste forme di controllo brutale tornano indietro, in patria. Sta già accadendo negli Stati Uniti. Israele è divenuto un paese dispotico, teocratico e corrotto e sta subendo una fuga di cervelli, centinaia di migliaia di israeliani laici e istruiti se ne sono andati. La vittoria di Israele è una vittoria di Pirro.
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29/06/2025
Turchia - L’opposizione e la burocrazia statale
Negli ultimi anni, l’arena politica turca è diventata un mix instabile di gestione della percezione, disordini sociali e predominio burocratico. La strategia del blocco al potere di “plasmare le percezioni”, un tempo potente strumento per orientare l’opinione pubblica, appare ora sempre più screditata. Con la capacità del governo di generare consenso popolare in evidente erosione, le sue consuete accuse contro l’opposizione non risuonano più come un tempo.
Cosa significa questo per la politica turca oggi? Il tono fiducioso del leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), Özgür Özel, che si vantava di aver “sventato il tentativo di colpo di Stato del 19 marzo”, è un segno di reale slancio? O la formidabile roccaforte governativa rappresentata della radicata burocrazia turca sta ancora gettando una lunga ombra sulle speranze dell’opposizione?
Le proteste guidate dagli studenti degli ultimi mesi hanno segnato una svolta fondamentale. Il CHP ha tratto forza da questa impennata di slancio popolare, consolidando il proprio sostegno e proteggendo l’amministrazione municipale di Istanbul dalla minaccia incombente di un amministratore fiduciario nominato dal governo. Il cosiddetto “tentativo di colpo di Stato” del 19 marzo 2016, a cui Özel fa riferimento, era un velato cenno alle manovre della coalizione di governo che prendevano di mira il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu.
Sebbene l’opposizione abbia ottenuto una vittoria simbolica, permangono sfide strutturali più profonde. Il governo sta lavorando per rafforzare la propria posizione, corteggiando il Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli (DEM) attraverso un rinnovato “processo di pace” curdo e proponendo una nuova costituzione. Nel frattempo, una campagna di arresti contro i dipendenti comunali di Istanbul di livello inferiore è riuscita a minare la governance locale. Queste azioni rappresentano una pressione prolungata che potrebbe eclissare i successi dell’opposizione.
Le indagini iniziate il 19 marzo hanno posto İmamoğlu al centro della tempesta politica turca. Durante la prima fase, İmamoğlu e alti funzionari sono stati accusati di corruzione e presunti legami con gruppi terroristici. Con l’intensificarsi della repressione, gli arresti hanno raggiunto i dipendenti di livello inferiore, una tattica che l’opposizione considera parte di un piano deliberato per paralizzare le attività comunali.
L’attacco ai responsabili di dipartimenti chiave ha sollevato seri interrogativi: il personale di grado inferiore viene forse costretto a testimoniare contro İmamoğlu? Sono costretti a invocare la norma del Codice penale sul “rimorso effettivo” in cambio di clemenza?
Tali interrogativi rafforzano l’idea che non si tratti semplicemente di un procedimento legale, ma di parte di una cospirazione politicamente motivata. Anche tra i sostenitori del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), le accuse contro İmamoğlu hanno perso terreno. L’accusa principale, secondo cui avrebbe assegnato appalti a imprenditori privilegiati durante il suo mandato a Beylikdüzü, non è affatto un’eccezione in Turchia. Si tratta di una pratica politica comune, ben nota allo stesso Presidente Erdoğan.
Le accuse del CHP, che imputa all’élite al potere di aver ceduto appalti pubblici alla cosiddetta “banda dei cinque” e di aver creato una nuova classe dirigente allineata al regime, hanno ottenuto ampio consenso. Al contrario, le accuse contro İmamoğlu hanno faticato a convincere l’opinione pubblica. Recenti sondaggi mostrano che ampi settori della società turca rimangono scettici rispetto alle accuse del governo.
Erdoğan, da parte sua, sta spingendo il CHP verso la sua vecchia posizione laicista, cercando di marginalizzare la linea più populista e pragmatica di İmamoğlu.
Come ha fatto l’AKP a raggiungere questo livello di controllo autoritario? Paradossalmente, lo stesso autoritarismo che ha consolidato la presa di potere di Erdoğan ha anche introdotto profonde vulnerabilità. Da un lato, ha permesso il rapido inserimento di lealisti nelle istituzioni burocratiche e ha rafforzato la base di sostegno di Erdoğan. Dall’altro, ha indebolito il processo decisionale istituzionale, aggravato dall’approfondirsi della crisi economica turca e dal ritardo nella ripresa.
L’emarginazione del merito e della competenza ha lasciato funzioni statali vitali nelle mani di personale sottoqualificato. L’erosione delle norme democratiche ha inoltre messo a dura prova i rapporti di Ankara con i governi occidentali e soffocato l'afflusso di capitali stranieri in Turchia.
Eppure, nonostante queste battute d’arresto, i sondaggi mostrano ancora il CHP come partito di maggioranza, con İmamoğlu che emerge come il principale candidato alla presidenza. Ma la vera sfida per l’opposizione non risiede nelle elezioni, ma nel confronto con la burocrazia profondamente radicata e allineata a Erdoğan.
Nel corso degli anni, quadri leali sono stati insediati in tutte le istituzioni statali, dalla pubblica amministrazione all’esercito, trasformando di fatto la burocrazia in un’estensione del potere esecutivo. Un commento di un editorialista filogovernativo, che derideva le speranze elettorali dell’opposizione, ha messo a nudo questa realtà: “Dal punto di vista di Erdoğan, dato che governa con il pieno controllo dello Stato, i sogni dell’opposizione di vincere sono solo con il voto sono ingenui”.
Tre punti di svolta storici segnano il consolidamento dell’AKP in una struttura autoritaria: le proteste di Gezi Park nel 2013, il fallito colpo di stato del 2016 e il “golpe civile” lanciato il 19 marzo contro İmamoğlu. Questi eventi sono stati cruciali per la strategia di Erdoğan volta a sottomettere le istituzioni statali e paralizzare l’opposizione.
La campagna contro İmamoğlu non è solo legale, ma anche strategica e ideologica. Mira a rimodellare il CHP stesso. Erdoğan sta apertamente spingendo per un ritorno alle rigide radici laiche del partito, con l’obiettivo di soffocare il fascino populista rappresentato da İmamoğlu. Gli sforzi per reinsediare Kemal Kılıçdaroğlu alla guida del partito sono visti come parte di questo piano più ampio. Erdoğan sa che un CHP estraneo alle difficoltà economiche della popolazione e alienato dal sentimento religioso può essere facilmente sconfitto alle urne.
L’offensiva contro İmamoğlu si estende ben oltre le aule di tribunale: le restrizioni sui social media e le intimidazioni agli avvocati che si rifiutano di attenersi alle regole sono tutti segnali di una più ampia campagna repressiva. La legge viene usata non come uno strumento neutrale, ma come uno strumento di coercizione politica. In questo contesto, l’opposizione non si trova solo a fronteggiare la resistenza politica; si trova ad affrontare un attacco continuo alla libertà di parola e all’accesso ai media.
L’affermazione di Özel di aver “sventato un tentativo di colpo di stato” rappresenta un momento di resistenza, ma non deve essere scambiata per trionfo. Gli attacchi a İmamoğlu non prendono di mira solo un sindaco; sono diretti al cuore stesso del futuro dell’opposizione. In un panorama politico plasmato da percezioni errate, battaglie legali e lotte di potere, l’opposizione turca ha bisogno di qualcosa di più oltre che di voti. Ha bisogno di visione, coesione e forza dal basso per sfondare le mura di una fortezza radicata e temprata come quella di uno Stato.
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Cosa significa questo per la politica turca oggi? Il tono fiducioso del leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), Özgür Özel, che si vantava di aver “sventato il tentativo di colpo di Stato del 19 marzo”, è un segno di reale slancio? O la formidabile roccaforte governativa rappresentata della radicata burocrazia turca sta ancora gettando una lunga ombra sulle speranze dell’opposizione?
Le proteste guidate dagli studenti degli ultimi mesi hanno segnato una svolta fondamentale. Il CHP ha tratto forza da questa impennata di slancio popolare, consolidando il proprio sostegno e proteggendo l’amministrazione municipale di Istanbul dalla minaccia incombente di un amministratore fiduciario nominato dal governo. Il cosiddetto “tentativo di colpo di Stato” del 19 marzo 2016, a cui Özel fa riferimento, era un velato cenno alle manovre della coalizione di governo che prendevano di mira il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu.
Sebbene l’opposizione abbia ottenuto una vittoria simbolica, permangono sfide strutturali più profonde. Il governo sta lavorando per rafforzare la propria posizione, corteggiando il Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli (DEM) attraverso un rinnovato “processo di pace” curdo e proponendo una nuova costituzione. Nel frattempo, una campagna di arresti contro i dipendenti comunali di Istanbul di livello inferiore è riuscita a minare la governance locale. Queste azioni rappresentano una pressione prolungata che potrebbe eclissare i successi dell’opposizione.
Le indagini iniziate il 19 marzo hanno posto İmamoğlu al centro della tempesta politica turca. Durante la prima fase, İmamoğlu e alti funzionari sono stati accusati di corruzione e presunti legami con gruppi terroristici. Con l’intensificarsi della repressione, gli arresti hanno raggiunto i dipendenti di livello inferiore, una tattica che l’opposizione considera parte di un piano deliberato per paralizzare le attività comunali.
L’attacco ai responsabili di dipartimenti chiave ha sollevato seri interrogativi: il personale di grado inferiore viene forse costretto a testimoniare contro İmamoğlu? Sono costretti a invocare la norma del Codice penale sul “rimorso effettivo” in cambio di clemenza?
Tali interrogativi rafforzano l’idea che non si tratti semplicemente di un procedimento legale, ma di parte di una cospirazione politicamente motivata. Anche tra i sostenitori del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), le accuse contro İmamoğlu hanno perso terreno. L’accusa principale, secondo cui avrebbe assegnato appalti a imprenditori privilegiati durante il suo mandato a Beylikdüzü, non è affatto un’eccezione in Turchia. Si tratta di una pratica politica comune, ben nota allo stesso Presidente Erdoğan.
Le accuse del CHP, che imputa all’élite al potere di aver ceduto appalti pubblici alla cosiddetta “banda dei cinque” e di aver creato una nuova classe dirigente allineata al regime, hanno ottenuto ampio consenso. Al contrario, le accuse contro İmamoğlu hanno faticato a convincere l’opinione pubblica. Recenti sondaggi mostrano che ampi settori della società turca rimangono scettici rispetto alle accuse del governo.
Erdoğan, da parte sua, sta spingendo il CHP verso la sua vecchia posizione laicista, cercando di marginalizzare la linea più populista e pragmatica di İmamoğlu.
Come ha fatto l’AKP a raggiungere questo livello di controllo autoritario? Paradossalmente, lo stesso autoritarismo che ha consolidato la presa di potere di Erdoğan ha anche introdotto profonde vulnerabilità. Da un lato, ha permesso il rapido inserimento di lealisti nelle istituzioni burocratiche e ha rafforzato la base di sostegno di Erdoğan. Dall’altro, ha indebolito il processo decisionale istituzionale, aggravato dall’approfondirsi della crisi economica turca e dal ritardo nella ripresa.
L’emarginazione del merito e della competenza ha lasciato funzioni statali vitali nelle mani di personale sottoqualificato. L’erosione delle norme democratiche ha inoltre messo a dura prova i rapporti di Ankara con i governi occidentali e soffocato l'afflusso di capitali stranieri in Turchia.
Eppure, nonostante queste battute d’arresto, i sondaggi mostrano ancora il CHP come partito di maggioranza, con İmamoğlu che emerge come il principale candidato alla presidenza. Ma la vera sfida per l’opposizione non risiede nelle elezioni, ma nel confronto con la burocrazia profondamente radicata e allineata a Erdoğan.
Nel corso degli anni, quadri leali sono stati insediati in tutte le istituzioni statali, dalla pubblica amministrazione all’esercito, trasformando di fatto la burocrazia in un’estensione del potere esecutivo. Un commento di un editorialista filogovernativo, che derideva le speranze elettorali dell’opposizione, ha messo a nudo questa realtà: “Dal punto di vista di Erdoğan, dato che governa con il pieno controllo dello Stato, i sogni dell’opposizione di vincere sono solo con il voto sono ingenui”.
Tre punti di svolta storici segnano il consolidamento dell’AKP in una struttura autoritaria: le proteste di Gezi Park nel 2013, il fallito colpo di stato del 2016 e il “golpe civile” lanciato il 19 marzo contro İmamoğlu. Questi eventi sono stati cruciali per la strategia di Erdoğan volta a sottomettere le istituzioni statali e paralizzare l’opposizione.
La campagna contro İmamoğlu non è solo legale, ma anche strategica e ideologica. Mira a rimodellare il CHP stesso. Erdoğan sta apertamente spingendo per un ritorno alle rigide radici laiche del partito, con l’obiettivo di soffocare il fascino populista rappresentato da İmamoğlu. Gli sforzi per reinsediare Kemal Kılıçdaroğlu alla guida del partito sono visti come parte di questo piano più ampio. Erdoğan sa che un CHP estraneo alle difficoltà economiche della popolazione e alienato dal sentimento religioso può essere facilmente sconfitto alle urne.
L’offensiva contro İmamoğlu si estende ben oltre le aule di tribunale: le restrizioni sui social media e le intimidazioni agli avvocati che si rifiutano di attenersi alle regole sono tutti segnali di una più ampia campagna repressiva. La legge viene usata non come uno strumento neutrale, ma come uno strumento di coercizione politica. In questo contesto, l’opposizione non si trova solo a fronteggiare la resistenza politica; si trova ad affrontare un attacco continuo alla libertà di parola e all’accesso ai media.
L’affermazione di Özel di aver “sventato un tentativo di colpo di stato” rappresenta un momento di resistenza, ma non deve essere scambiata per trionfo. Gli attacchi a İmamoğlu non prendono di mira solo un sindaco; sono diretti al cuore stesso del futuro dell’opposizione. In un panorama politico plasmato da percezioni errate, battaglie legali e lotte di potere, l’opposizione turca ha bisogno di qualcosa di più oltre che di voti. Ha bisogno di visione, coesione e forza dal basso per sfondare le mura di una fortezza radicata e temprata come quella di uno Stato.
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La mano invisibile del mercato ci mostra il dito medio
Le Big Five – Microsoft, Apple, Amazon, Facebook, Google – non pagheranno le tasse. Nemmeno la “Global minimun tax” sotterfugio con cui il G7 cercava di salvare la faccia, fingendo di resistere al ricatto dei dazi escogitato da Trump.
Ecco il segreto di “Make America Great Again”: è il più classico “io so io e voi nun sete un cazzo”, rivolto senza scrupoli né pudori agli alleati della Nato, del G7, dell’Ocse.
Oggi più che mai nella storia i miliardari del digitale fanno soldi a palate, come zio Paperone, due volte a spese degli utenti: la prima quando per accedere alle loro piattaforme dobbiamo pagare i gestori telefonici che commercializzano l’accesso a internet; la seconda quando ci offrono in vendita i loro prodotti sul web, i cui proventi si mettono in tasca esentasse.
I governi occidentali si sono piegati al Bullo, hanno definitivamente tradito il principio di uguaglianza che ha fin qui tentato di ispirare le democrazie.
Il tutto mentre a Venezia quel cafone stra-arricchito di Bezos mostra tutta la misera cultura dell’esibire la ricchezza.
Il medioevo è tornato, si chiama “evo del medio”, il dito, quello della “manina invisible del mercato” con cui – dopo essere stati sfruttati, ingannati, derubati – oggi veniamo sfacciatamente sbeffeggiati da una classe dirigente allattata a neoliberismo.
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Ecco il segreto di “Make America Great Again”: è il più classico “io so io e voi nun sete un cazzo”, rivolto senza scrupoli né pudori agli alleati della Nato, del G7, dell’Ocse.
Oggi più che mai nella storia i miliardari del digitale fanno soldi a palate, come zio Paperone, due volte a spese degli utenti: la prima quando per accedere alle loro piattaforme dobbiamo pagare i gestori telefonici che commercializzano l’accesso a internet; la seconda quando ci offrono in vendita i loro prodotti sul web, i cui proventi si mettono in tasca esentasse.
I governi occidentali si sono piegati al Bullo, hanno definitivamente tradito il principio di uguaglianza che ha fin qui tentato di ispirare le democrazie.
Il tutto mentre a Venezia quel cafone stra-arricchito di Bezos mostra tutta la misera cultura dell’esibire la ricchezza.
Il medioevo è tornato, si chiama “evo del medio”, il dito, quello della “manina invisible del mercato” con cui – dopo essere stati sfruttati, ingannati, derubati – oggi veniamo sfacciatamente sbeffeggiati da una classe dirigente allattata a neoliberismo.
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Guerra in Ucraina - 2,7 miliardi di dollari all’industria bellica per ogni settimana di guerra
È oltremodo noioso, anche per chi scrive, dover riportare ogni volta lo stesso copione che ora l’uno ora l’altro si alternano a ripetere: sempre la stessa nenia, anche a distanza di pochi giorni.
Ora è stata la volta del “Tom Hagen” ukronazista, Mikhail Podoljak, considerato “Primo consigliori” del nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij. Ci ha pensato (chi altri?) il Corriere della Sera del 27 giugno a riportare la “sua” ukro-visione su un Putin che investe «ingenti somme di denaro per sabotaggi e provocazioni in diversi paesi europei».
Sono andati fino a L’Aja, per farsi riferire il “suo” ukro-pensiero, già rifilato ai lettori dai vari Bernard-Henri-“caos latente”-Lévy, “Fredegonda”-Kallas, Anne-”Golodomor”-Applebaum, “Merlino”-Kubilius. Potevano risparmiarsi il viaggio in Olanda, bastava che dessero un’occhiata a Contropiano e il “concetto” glielo si era già servito, da tempo, in “pacchetto completo”.
E invece no: «i piani di Putin contro l’Europa sono già in atto», come a esprimere un’idea originale, presa però sempre dal medesimo identico copione. Manca solo che si facciano causa l’un l’altro sui “diritti d’autore”.
E giù “Hagen” a dire che loro lo stanno «ripetendo da giorni. La Russia sta ora apertamente utilizzando tattiche potenziate di distruzione di massa, aumentando il numero di attacchi missilistici e droni contro aree residenziali e infrastrutture civili (scuole, ospedali, asili) in Ucraina».
Parla a ragion veduta, il ras-consigliori: non inventa nulla, davvero; sta solo cambiando soggetto a una pratica che i nazigolpisti di Kiev hanno sperimentato per anni sui civili del Donbass e che via via, quando il caso lo rendeva necessario (Bucha, per dire) hanno rivolto contro la stessa popolazione ucraina.
I malvagi «russi lanciano droni su un’area residenziale, poi i missili da crociera e, quando sono in corso le operazioni di soccorso per tirare fuori i sopravvissuti dalle macerie, usano i missili balistici o ipersonici per ottenere il massimo numero di vittime civili».
Come no, sempre “vittime civili”: come i mercenari stranieri alloggiati in alberghi cittadini, o i reparti ucraini dislocati in aree residenziali urbane, o ancora, i centri in cui istruttori “civili” stranieri addestrano militari ucraini. In risposta agli attacchi ucraini contro obiettivi civili russi, scriveva RIA Novosti il 26 giugno, le forze russe colpiscono sedi di personale, mercenari stranieri, equipaggiamenti e infrastrutture ucraine, come industrie belliche, comandi militari e comunicazioni, evitando sempre di colpire edifici residenziali e istituzioni sociali.
Ma Podoljak intende a ogni costo – i costi sono quelli dei “Patriot” americani che Kiev, ammesso che Washington glieli fornisca, dovrebbe pagare prendendoli dai 50 miliardi di euro elargiti dalla UE – «contrastare il genocidio russo». L’ha detto: “genocidio”. E al Corriere non hanno battuto ciglio. Chiaro, si parla della Russia “autocratica”, mica della “democratica” Israele.
Qui, il “genocidio” ci sta tutto. Di nuovo, “Hagen” golpista cambia soggetto, ma non si sforza nemmeno di variare i termini: «Senza guerra, la Russia si troverebbe ad affrontare un forte aumento di problemi interni che non può risolvere». Ma sono i golpisti che non sanno più come tenere la propria popolazione, di fronte a debito pubblico alle stelle, inflazione, tariffe energetiche che dal 2014 a oggi, per imposizione di FMI, Banca Mondiale, UE, costringono le masse ucraine a scegliere tra mangiare o scaldarsi, mortalità al primo posto mondiale e natalità all’ultimo.
E poi privatizzazioni, pretese da Bruxelles, di imprese chiave e di terreni fertilissimi, accaparrati dalle multinazionali euro-americane, in un vortice che costringe Kiev alla guerra, accalappiando a forza i giovani nelle strade per mandarli al macello.
E ci sono anche i soliti «piani di attacco di Putin all’Europa», denunciati da Zelenskij. Allora, come la mettiamo signor Kubilius? Chi l’ha detto per primo? Non faccia il modesto, ammetta che la definizione originale è la sua – «tra cinque anni, o forse anche prima, la Russia attaccherà un paese europeo, o forse più di uno» – e che il ‘consigliori’ golpista si limita a variare gli idiomi: «la guerra in Ucraina, purtroppo, è solo l’inizio di una realtà molto più brutale in cui il dittatore russo vuole far precipitare l’Europa. I piani di aggressione contro gli stati della UE, la cui logistica è già stata elaborata e sta iniziando ad essere attuata, sono un obiettivo fondamentale della Federazione russa. Mosca sta investendo ingenti somme di denaro in azioni provocatorie in vari Paesi europei e allocando molte risorse in operazioni di sabotaggi e provocazione».
Già: sabotaggi e provocazioni, proprio come quelli in cui il GUR ucraino è parte attiva, insieme ad altri agenti internazionali, contro l’Iran.
E se ora Vladimir Putin ribadisce la disponibilità di Mosca a nuove trattative con l’Ucraina a Istanbul, precisando che, in realtà, le due delegazioni trattanti non hanno mai smesso i contatti e annuncia l’avvio di una riduzione delle spese militari russe, l’esatto opposto della moltiplicazione degli stanziamenti di guerra decisi da NATO-UE, in ragione delle predizioni di Andrius-“Merlino”-Kubilius, ecco che l’ex ministro degli esteri ucraino Vadim Pristajko, tanto per non smentire l’attuale junta, mette in evidenza il pericolo che Kiev possa esser “abbandonata” dagli americani.
Gli Stati Uniti, ha detto, potrebbero valutare i vantaggi del sostegno all’Ucraina e i benefici che potrebbero trarre dalla risoluzione delle grandi questioni con la Russia, accettando uno scambio: «Se non riusciremo a spiegare a tutti quanto sia importante aiutare l’Ucraina, diventeremo una vittima di questa intesa primitiva», lamenta Pristajko.
E anche l’ex vice capo di SM ucraino, Igor Romanenko, afferma che dopo i colloqui di Putin con Trump, si intensificano i bombardamenti sull’Ucraina e vengono tagliati gli aiuti occidentali, mentre Kiev ammette di non disporre di forze sufficienti per colpire obiettivi russi di alto livello. Colpiamo «strutture militari, imprese» dice Romanenko, ma «per incidere in modo significativo abbiamo bisogno di capacità di pianificazione missilistica. Questo però è più probabile in futuro, non ora, perché non abbiamo abbastanza potenza per distruggere le strutture e avere un impatto significativo sul fronte», tanto più che, come detto, sono in forse le forniture di “Patriot”.
Anche perché, scriveva giorni addietro The Washington Post, mentre Bruxelles conta di convincere gli USA a vendere armi a Kiev, in contanti o con programmi di credito, l’amministrazione Trump è abbastanza diffidente verso misure che potrebbero complicare la normalizzazione delle relazioni con la Russia. A ogni evenienza, osservava TWP, i paesi UE sono teoricamente in grado di compensare le forniture che possano venire a mancare da parte yankee; ciò richiederà risorse significative, per garantire contemporaneamente sia il rimpinguamento dei propri arsenali, che le forniture a Kiev.
Dopo il vertice bellico a L’Aja, Bloomberg ha osservato che «i paesi della NATO hanno cercato di rafforzare la posizione dell’Ucraina», ma il presidente USA ha già «spostato il suo focus dalla tregua ad altre questioni». Di nuovo The Washington Post rincara la dose, scrivendo che la dichiarazione conclusiva del summit menziona solo di sfuggita l’Ucraina e non fa riferimento alla guerra o alla “aggressione russa”.
Ma, attenzione!, ammonisce Kirill Strel’nikov su RIA Novosti, Giorgia Meloni, nei favori di Trump, gli suggerisce di venire a capo della faccenda russo-ucraina con le stesse rapidità e modalità con cui è stata “risolta” la faccenda iraniano-sionista. E The Wall Street Journal, malignamente, insinua che «Israele ha conquistato i cieli dell’Iran in 48 ore, mentre la Russia da tre anni non riesce a fare altrettanto in Ucraina»: significa che è una “tigre di carta” e basta «infilzarla con uno spiedino da canapè e cadrà».
Ancora di più la CNN: «dal momento che gli USA hanno violato un tabù di lunga data, con un attacco militare diretto all’Iran» e non è successo nulla, allora si deve proseguire su quella strada; vale a dire, anche con la Russia. Senza giri di parole, il New York Post ordina che Trump debba fare alla Russia «una piacevole sorpresa, con un approccio di “pace attraverso la forza”. Primo passo: annunciare di aver messo da parte la sciocca indecisione di Biden, consentendo a Kiev l’accesso ad armi americane sempre più avanzate, senza le condizioni restrittive sul loro utilizzo imposte dalla precedente amministrazione. Secondo: dare il via libera al disegno di legge bipartisan sulle sanzioni del senatore Lindsey Graham, imponendo dazi del 500%» sulle importazioni dai paesi che acquistano petrolio, gas, uranio ecc. dalla Russia, il che colpirebbe i «favoreggiatori della macchina da guerra russa».
Risponde indirettamente il Ministro della difesa russo Andrej Belousov: Mosca «ha espresso più di una volta e continua a esprimere la propria disponibilità a risolvere il conflitto», ma questo non significa affatto che qualcuno o qualcosa sia in grado di “costringerci” alla pace.
La situazione politica e militare ucraina, scrive Andrej Ofitserov su Stoletie.ru, si avvicina rapidamente a un punto critico, dimostrando il completo fallimento della strategia avventuristica del regime di Kiev. È tuttavia importante comprendere che l’Occidente, e in particolare l’Europa, non permetterà il suo completo collasso, almeno nel prossimo futuro, poiché oggi l’obiettivo è quello di guadagnare tempo a ogni costo per riarmare la NATO e riavviare il complesso militare-industriale occidentale.
L’Ucraina viene deliberatamente trasformata in un “vitello sacrificale” che, a costo di esaurire completamente il suo potenziale umano ed economico, deve far guadagnare due o tre anni per il riarmo dell’Europa e della NATO.
Secondo i calcoli di McKinsey & Company, ogni settimana di guerra garantisce al complesso militare-industriale europeo ulteriori 2,7 miliardi di dollari di investimenti.
In compenso, l’ucraina “Zerkalo Nedeli” (Specchio della settimana) ammette che l’economia ucraina è sull’orlo della “spirale mortale” della stagflazione. Gli eventi degli ultimi mesi, afferma Ofitserov, dimostrano che l’epoca del sostegno occidentale illimitato al progetto ucraino è giunta al termine. Washington e Bruxelles, rendendosi conto dell’inutilità di un ulteriore confronto con la Russia, stanno gradualmente iniziando a prendere le distanze da Kiev, ma continueranno a servirsene fino alla fine per i propri interessi, indipendentemente dalle perdite umane e territoriali ucraine.
In generale, comunque, la discordia in campo NATO è evidente, anche se questo non riduce la pericolosità dell’Europa.
A quanto pare, osserva però Viktorija Nikiforova su RIA Novosti, non è tutto così semplice: con o senza Trump, l’Europa vuol muovere guerra alla Russia, e le ragioni sono piuttosto evidenti. La UE sta andando verso il collasso economico, avendo speso anche somme astronomiche per armare l’Ucraina e cercare di liberarsi dai prodotti energetici russi. I paesi si stanno deindustrializzando e le imprese falliscono o delocalizzano in Asia e USA.
L’Europa non può salvarsi nemmeno appropriandosi dei miliardi russi “congelati” e, per rientrare delle cifre astronomiche spese, l’Europa dovrebbe depredare risorse e ricchezze russe, smembrando il paese e riducendolo in tanti protettorati da cui portar via quanto più possibile.
Da qui, la tesi propagandata quotidianamente di un «inevitabile attacco della Russia» all’Europa: non si tratta semplicemente di una fandonia, afferma Nikiforova, è «la legalizzazione di un nuovo “Drang nach Osten”, un ennesimo attacco dei paesi europei contro di noi... “Tre-cinque-sette anni”: è questo il l’intervallo di tempo indicato da Mark Rutte per il nostro scontro con l’Alleanza. Tradotto dalla lingua NATO, è questo il loro orizzonte di pianificazione: in quel periodo, i paesi europei si preparano ad attaccare la Russia».
Come si dice: ve la siete cercata! Kubilius, Rutte, von der Leyen, Kallas, tutti a dire che la Russia attaccherà un paese europeo, o forse più di uno, tra cinque anni, o forse anche prima. Ecco, ora è Mosca che mette in guardia sui piani dall’Alleanza euroatlantica per aggredire la Russia. E la base su cui si fonda tale “presentimento” russo pare abbastanza più solida dei miasmi sotterranei da cui scaturiscono le divinazioni di “Merlino”-Kubilius.
Ne sono segnali premonitori le infinite esercitazioni ai confini russi, i discorsi sulla reintroduzione della leva obbligatoria, la messa in opera di ospedali da campo e rifugi antiaerei, l’adattamento di reti viarie e ferroviarie ai mezzi militari, la martellante propaganda su “l’attacco russo”, fino alla nauseante militarizzazione delle scuole e dell’opinione pubblica.
Secondo questo scenario, un’ipotetica guerra NATO-Russia sarebbe una guerra a tutti gli effetti, dice Nikiforova; non un’operazione speciale, e verrebbe condotta in contemporanea nello spazio, nei cieli, in terra, nel cyberspazio e nell’informazione, con sabotaggi, atti terroristici, attacchi informatici, sanzioni, pressioni diplomatiche, azioni militari e incitamento a conflitti interni.
Proprio così; proprio come “Hagen”-Podoljak predice al Corriere della Sera; proprio come dagli italici salotti televisivi si grida – a soggetti inversi – sulla minaccia dei cosiddetti “cyberattacchi” e la penetrazione della propaganda russa, con l’Italia che, gemono, è tra le aree più vulnerabili a tale propaganda, avendo alle spalle, si sottintende, una tradizione di sincera ammirazione (quasi venerazione, verrebbe da dire, per quanto ci riguarda) per quello che fu “l’oppressivo e dittatoriale regime sovietico”, transitata fluidamente in altrettanta inclinazione verso la Russia “autocratica”.
In fondo, tre, cinque, sette anni... cosa sono. Rimane poco da aspettare; “o forse anche prima”. Anzi come direbbe lo shakespeariano Winchester, «eccolo là, Gloucester, nemico del popolo inglese; pronto sempre a muovere guerre e non mai a promuovere la pace; quello che smunge le vostre borse d’uomini liberi con gravosi balzelli» (Re Enrico VI), quello pronto a garantire al complesso militare-industriale europeo 2,7 miliardi di investimenti per ogni settimana in più di guerra in Ucraina.
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Ora è stata la volta del “Tom Hagen” ukronazista, Mikhail Podoljak, considerato “Primo consigliori” del nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij. Ci ha pensato (chi altri?) il Corriere della Sera del 27 giugno a riportare la “sua” ukro-visione su un Putin che investe «ingenti somme di denaro per sabotaggi e provocazioni in diversi paesi europei».
Sono andati fino a L’Aja, per farsi riferire il “suo” ukro-pensiero, già rifilato ai lettori dai vari Bernard-Henri-“caos latente”-Lévy, “Fredegonda”-Kallas, Anne-”Golodomor”-Applebaum, “Merlino”-Kubilius. Potevano risparmiarsi il viaggio in Olanda, bastava che dessero un’occhiata a Contropiano e il “concetto” glielo si era già servito, da tempo, in “pacchetto completo”.
E invece no: «i piani di Putin contro l’Europa sono già in atto», come a esprimere un’idea originale, presa però sempre dal medesimo identico copione. Manca solo che si facciano causa l’un l’altro sui “diritti d’autore”.
E giù “Hagen” a dire che loro lo stanno «ripetendo da giorni. La Russia sta ora apertamente utilizzando tattiche potenziate di distruzione di massa, aumentando il numero di attacchi missilistici e droni contro aree residenziali e infrastrutture civili (scuole, ospedali, asili) in Ucraina».
Parla a ragion veduta, il ras-consigliori: non inventa nulla, davvero; sta solo cambiando soggetto a una pratica che i nazigolpisti di Kiev hanno sperimentato per anni sui civili del Donbass e che via via, quando il caso lo rendeva necessario (Bucha, per dire) hanno rivolto contro la stessa popolazione ucraina.
I malvagi «russi lanciano droni su un’area residenziale, poi i missili da crociera e, quando sono in corso le operazioni di soccorso per tirare fuori i sopravvissuti dalle macerie, usano i missili balistici o ipersonici per ottenere il massimo numero di vittime civili».
Come no, sempre “vittime civili”: come i mercenari stranieri alloggiati in alberghi cittadini, o i reparti ucraini dislocati in aree residenziali urbane, o ancora, i centri in cui istruttori “civili” stranieri addestrano militari ucraini. In risposta agli attacchi ucraini contro obiettivi civili russi, scriveva RIA Novosti il 26 giugno, le forze russe colpiscono sedi di personale, mercenari stranieri, equipaggiamenti e infrastrutture ucraine, come industrie belliche, comandi militari e comunicazioni, evitando sempre di colpire edifici residenziali e istituzioni sociali.
Ma Podoljak intende a ogni costo – i costi sono quelli dei “Patriot” americani che Kiev, ammesso che Washington glieli fornisca, dovrebbe pagare prendendoli dai 50 miliardi di euro elargiti dalla UE – «contrastare il genocidio russo». L’ha detto: “genocidio”. E al Corriere non hanno battuto ciglio. Chiaro, si parla della Russia “autocratica”, mica della “democratica” Israele.
Qui, il “genocidio” ci sta tutto. Di nuovo, “Hagen” golpista cambia soggetto, ma non si sforza nemmeno di variare i termini: «Senza guerra, la Russia si troverebbe ad affrontare un forte aumento di problemi interni che non può risolvere». Ma sono i golpisti che non sanno più come tenere la propria popolazione, di fronte a debito pubblico alle stelle, inflazione, tariffe energetiche che dal 2014 a oggi, per imposizione di FMI, Banca Mondiale, UE, costringono le masse ucraine a scegliere tra mangiare o scaldarsi, mortalità al primo posto mondiale e natalità all’ultimo.
E poi privatizzazioni, pretese da Bruxelles, di imprese chiave e di terreni fertilissimi, accaparrati dalle multinazionali euro-americane, in un vortice che costringe Kiev alla guerra, accalappiando a forza i giovani nelle strade per mandarli al macello.
E ci sono anche i soliti «piani di attacco di Putin all’Europa», denunciati da Zelenskij. Allora, come la mettiamo signor Kubilius? Chi l’ha detto per primo? Non faccia il modesto, ammetta che la definizione originale è la sua – «tra cinque anni, o forse anche prima, la Russia attaccherà un paese europeo, o forse più di uno» – e che il ‘consigliori’ golpista si limita a variare gli idiomi: «la guerra in Ucraina, purtroppo, è solo l’inizio di una realtà molto più brutale in cui il dittatore russo vuole far precipitare l’Europa. I piani di aggressione contro gli stati della UE, la cui logistica è già stata elaborata e sta iniziando ad essere attuata, sono un obiettivo fondamentale della Federazione russa. Mosca sta investendo ingenti somme di denaro in azioni provocatorie in vari Paesi europei e allocando molte risorse in operazioni di sabotaggi e provocazione».
Già: sabotaggi e provocazioni, proprio come quelli in cui il GUR ucraino è parte attiva, insieme ad altri agenti internazionali, contro l’Iran.
E se ora Vladimir Putin ribadisce la disponibilità di Mosca a nuove trattative con l’Ucraina a Istanbul, precisando che, in realtà, le due delegazioni trattanti non hanno mai smesso i contatti e annuncia l’avvio di una riduzione delle spese militari russe, l’esatto opposto della moltiplicazione degli stanziamenti di guerra decisi da NATO-UE, in ragione delle predizioni di Andrius-“Merlino”-Kubilius, ecco che l’ex ministro degli esteri ucraino Vadim Pristajko, tanto per non smentire l’attuale junta, mette in evidenza il pericolo che Kiev possa esser “abbandonata” dagli americani.
Gli Stati Uniti, ha detto, potrebbero valutare i vantaggi del sostegno all’Ucraina e i benefici che potrebbero trarre dalla risoluzione delle grandi questioni con la Russia, accettando uno scambio: «Se non riusciremo a spiegare a tutti quanto sia importante aiutare l’Ucraina, diventeremo una vittima di questa intesa primitiva», lamenta Pristajko.
E anche l’ex vice capo di SM ucraino, Igor Romanenko, afferma che dopo i colloqui di Putin con Trump, si intensificano i bombardamenti sull’Ucraina e vengono tagliati gli aiuti occidentali, mentre Kiev ammette di non disporre di forze sufficienti per colpire obiettivi russi di alto livello. Colpiamo «strutture militari, imprese» dice Romanenko, ma «per incidere in modo significativo abbiamo bisogno di capacità di pianificazione missilistica. Questo però è più probabile in futuro, non ora, perché non abbiamo abbastanza potenza per distruggere le strutture e avere un impatto significativo sul fronte», tanto più che, come detto, sono in forse le forniture di “Patriot”.
Anche perché, scriveva giorni addietro The Washington Post, mentre Bruxelles conta di convincere gli USA a vendere armi a Kiev, in contanti o con programmi di credito, l’amministrazione Trump è abbastanza diffidente verso misure che potrebbero complicare la normalizzazione delle relazioni con la Russia. A ogni evenienza, osservava TWP, i paesi UE sono teoricamente in grado di compensare le forniture che possano venire a mancare da parte yankee; ciò richiederà risorse significative, per garantire contemporaneamente sia il rimpinguamento dei propri arsenali, che le forniture a Kiev.
Dopo il vertice bellico a L’Aja, Bloomberg ha osservato che «i paesi della NATO hanno cercato di rafforzare la posizione dell’Ucraina», ma il presidente USA ha già «spostato il suo focus dalla tregua ad altre questioni». Di nuovo The Washington Post rincara la dose, scrivendo che la dichiarazione conclusiva del summit menziona solo di sfuggita l’Ucraina e non fa riferimento alla guerra o alla “aggressione russa”.
Ma, attenzione!, ammonisce Kirill Strel’nikov su RIA Novosti, Giorgia Meloni, nei favori di Trump, gli suggerisce di venire a capo della faccenda russo-ucraina con le stesse rapidità e modalità con cui è stata “risolta” la faccenda iraniano-sionista. E The Wall Street Journal, malignamente, insinua che «Israele ha conquistato i cieli dell’Iran in 48 ore, mentre la Russia da tre anni non riesce a fare altrettanto in Ucraina»: significa che è una “tigre di carta” e basta «infilzarla con uno spiedino da canapè e cadrà».
Ancora di più la CNN: «dal momento che gli USA hanno violato un tabù di lunga data, con un attacco militare diretto all’Iran» e non è successo nulla, allora si deve proseguire su quella strada; vale a dire, anche con la Russia. Senza giri di parole, il New York Post ordina che Trump debba fare alla Russia «una piacevole sorpresa, con un approccio di “pace attraverso la forza”. Primo passo: annunciare di aver messo da parte la sciocca indecisione di Biden, consentendo a Kiev l’accesso ad armi americane sempre più avanzate, senza le condizioni restrittive sul loro utilizzo imposte dalla precedente amministrazione. Secondo: dare il via libera al disegno di legge bipartisan sulle sanzioni del senatore Lindsey Graham, imponendo dazi del 500%» sulle importazioni dai paesi che acquistano petrolio, gas, uranio ecc. dalla Russia, il che colpirebbe i «favoreggiatori della macchina da guerra russa».
Risponde indirettamente il Ministro della difesa russo Andrej Belousov: Mosca «ha espresso più di una volta e continua a esprimere la propria disponibilità a risolvere il conflitto», ma questo non significa affatto che qualcuno o qualcosa sia in grado di “costringerci” alla pace.
La situazione politica e militare ucraina, scrive Andrej Ofitserov su Stoletie.ru, si avvicina rapidamente a un punto critico, dimostrando il completo fallimento della strategia avventuristica del regime di Kiev. È tuttavia importante comprendere che l’Occidente, e in particolare l’Europa, non permetterà il suo completo collasso, almeno nel prossimo futuro, poiché oggi l’obiettivo è quello di guadagnare tempo a ogni costo per riarmare la NATO e riavviare il complesso militare-industriale occidentale.
L’Ucraina viene deliberatamente trasformata in un “vitello sacrificale” che, a costo di esaurire completamente il suo potenziale umano ed economico, deve far guadagnare due o tre anni per il riarmo dell’Europa e della NATO.
Secondo i calcoli di McKinsey & Company, ogni settimana di guerra garantisce al complesso militare-industriale europeo ulteriori 2,7 miliardi di dollari di investimenti.
In compenso, l’ucraina “Zerkalo Nedeli” (Specchio della settimana) ammette che l’economia ucraina è sull’orlo della “spirale mortale” della stagflazione. Gli eventi degli ultimi mesi, afferma Ofitserov, dimostrano che l’epoca del sostegno occidentale illimitato al progetto ucraino è giunta al termine. Washington e Bruxelles, rendendosi conto dell’inutilità di un ulteriore confronto con la Russia, stanno gradualmente iniziando a prendere le distanze da Kiev, ma continueranno a servirsene fino alla fine per i propri interessi, indipendentemente dalle perdite umane e territoriali ucraine.
In generale, comunque, la discordia in campo NATO è evidente, anche se questo non riduce la pericolosità dell’Europa.
A quanto pare, osserva però Viktorija Nikiforova su RIA Novosti, non è tutto così semplice: con o senza Trump, l’Europa vuol muovere guerra alla Russia, e le ragioni sono piuttosto evidenti. La UE sta andando verso il collasso economico, avendo speso anche somme astronomiche per armare l’Ucraina e cercare di liberarsi dai prodotti energetici russi. I paesi si stanno deindustrializzando e le imprese falliscono o delocalizzano in Asia e USA.
L’Europa non può salvarsi nemmeno appropriandosi dei miliardi russi “congelati” e, per rientrare delle cifre astronomiche spese, l’Europa dovrebbe depredare risorse e ricchezze russe, smembrando il paese e riducendolo in tanti protettorati da cui portar via quanto più possibile.
Da qui, la tesi propagandata quotidianamente di un «inevitabile attacco della Russia» all’Europa: non si tratta semplicemente di una fandonia, afferma Nikiforova, è «la legalizzazione di un nuovo “Drang nach Osten”, un ennesimo attacco dei paesi europei contro di noi... “Tre-cinque-sette anni”: è questo il l’intervallo di tempo indicato da Mark Rutte per il nostro scontro con l’Alleanza. Tradotto dalla lingua NATO, è questo il loro orizzonte di pianificazione: in quel periodo, i paesi europei si preparano ad attaccare la Russia».
Come si dice: ve la siete cercata! Kubilius, Rutte, von der Leyen, Kallas, tutti a dire che la Russia attaccherà un paese europeo, o forse più di uno, tra cinque anni, o forse anche prima. Ecco, ora è Mosca che mette in guardia sui piani dall’Alleanza euroatlantica per aggredire la Russia. E la base su cui si fonda tale “presentimento” russo pare abbastanza più solida dei miasmi sotterranei da cui scaturiscono le divinazioni di “Merlino”-Kubilius.
Ne sono segnali premonitori le infinite esercitazioni ai confini russi, i discorsi sulla reintroduzione della leva obbligatoria, la messa in opera di ospedali da campo e rifugi antiaerei, l’adattamento di reti viarie e ferroviarie ai mezzi militari, la martellante propaganda su “l’attacco russo”, fino alla nauseante militarizzazione delle scuole e dell’opinione pubblica.
Secondo questo scenario, un’ipotetica guerra NATO-Russia sarebbe una guerra a tutti gli effetti, dice Nikiforova; non un’operazione speciale, e verrebbe condotta in contemporanea nello spazio, nei cieli, in terra, nel cyberspazio e nell’informazione, con sabotaggi, atti terroristici, attacchi informatici, sanzioni, pressioni diplomatiche, azioni militari e incitamento a conflitti interni.
Proprio così; proprio come “Hagen”-Podoljak predice al Corriere della Sera; proprio come dagli italici salotti televisivi si grida – a soggetti inversi – sulla minaccia dei cosiddetti “cyberattacchi” e la penetrazione della propaganda russa, con l’Italia che, gemono, è tra le aree più vulnerabili a tale propaganda, avendo alle spalle, si sottintende, una tradizione di sincera ammirazione (quasi venerazione, verrebbe da dire, per quanto ci riguarda) per quello che fu “l’oppressivo e dittatoriale regime sovietico”, transitata fluidamente in altrettanta inclinazione verso la Russia “autocratica”.
In fondo, tre, cinque, sette anni... cosa sono. Rimane poco da aspettare; “o forse anche prima”. Anzi come direbbe lo shakespeariano Winchester, «eccolo là, Gloucester, nemico del popolo inglese; pronto sempre a muovere guerre e non mai a promuovere la pace; quello che smunge le vostre borse d’uomini liberi con gravosi balzelli» (Re Enrico VI), quello pronto a garantire al complesso militare-industriale europeo 2,7 miliardi di investimenti per ogni settimana in più di guerra in Ucraina.
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Abusi, manganelli e provocazioni
Un anno addietro, la nostra premier, commentando i pestaggi subiti da alcuni studenti medi a Pisa e Firenze, affermò che criticare le forze dell’ordine è pericoloso. È seguito il decreto sicurezza, che fornisce assistenza statale agli esponenti delle forze dell’ordine sotto processo per abusi di potere, e consente loro di usare le armi private che possiedono quando non sono in servizio.
La recente vicenda di Genova, che vede indagati 15 esponenti della polizia urbana del capoluogo ligure per lesioni, peculato, falso ideologico, ci induce a riflettere sui pericoli che conseguono dall’allentare le briglie del controllo sugli apparati deputati all’uso della forza. L’inchiesta è partita dalla denuncia di due loro colleghe, insoddisfatte dell’esito dell’inchiesta interna, dalla quale uscivano come scarsamente credibili.
Se da un lato, in quanto garantisti, preferiamo sospendere il giudizio in attesa dell’esito giudiziario della vicenda, dall’altro lato, gli elementi che sono emersi fino ad ora, non possono non destare preoccupazioni. Si tratta di un copione che ricalca altre vicende che hanno coinvolto le forze dell’ordine.
Pensiamo a quanto avvenuto a Piacenza nel 2020, o a Verona un paio di anni fa, e che si ripete a Genova, per non parlare di quanto accertato ad Asti. La retorica delle “poche mele marce” sembra dissolversi di fronte al rosario di una triste routine di vessazioni, violenze, appropriazioni indebite, trasversali a tutti i corpi di polizia. Come affermava lo studioso inglese Maurice Punch, più che alla mela marcia, bisogna guardare al frutteto.
Che non si tratti di un’eccezione, lo evidenzia anche la sistematicità del contesto, con veri e propri codici e rituali che appaiono cementare il gioco di squadra messo in atto dagli agenti implicati. Le percosse definite “cioccolatini” o chiamate “sberlari” in assonanza con la nota marca di caramelle, la chat di gruppo, dove si commentavano i fatti in oggetto, appellata come un noto film di Scorsese, inquietano: gli agenti coinvolti sembrano confondere la distinzione tra realtà e fiction, sentendosi protagonisti di un film in cui il male sta necessariamente dall’altra parte. Così facendo, giustificano i loro comportamenti abusivi, rimuovendo totalmente il fatto che il loro mandato si svolge all’interno della cornice dello Stato di diritto.
A preoccupare è anche il loro modus operandi. Oltre a possedere un tonfa, manganello non in dotazione alla polizia urbana, i soldi e gli stupefacenti sequestrati dagli indagati verrebbero tenuti in un ripostiglio apposito, per essere poi opportunamente utilizzati o per scopi personali. Ma, soprattutto, per costruire delle prove a carico dei fermati.
Il più delle volte si tratta di minori o migranti, ovvero le classi “pericolose” dell’Italia contemporanea. Anche su questo c’è da riflettere, in quanto emerge ancora una volta come, lungi dall’ottemperare alle leggi, le forze di polizia producano la devianza in modo selettivo, facendo leva sui pregiudizi e le rappresentazioni dominanti.
Last but not least, si rende necessaria una riflessione sulla degenerazione delle pratiche messe in atto dalla polizia urbana in questo paese. Almeno dal settembre 2008, quando il ghanese Emmanuel Bunsu venne pestato a Parma nel corso di un’operazione antidroga, è balzato all’evidenza come la polizia locale, a volte, interpreta il suo ruolo non tanto come primo livello di interfaccia tra i cittadini e lo Stato, quanto come primo recettore e interprete del securitarismo. Con le conseguenze negative che conosciamo.
No, signora premier. Non è pericoloso criticare i poliziotti. Anzi, alla luce di quello che emerge continuamente, e dei margini ulteriori di autonomia che, insensatamente, il suo decreto, concede loro, costituisce una pratica sacrosanta.
Fonte
La recente vicenda di Genova, che vede indagati 15 esponenti della polizia urbana del capoluogo ligure per lesioni, peculato, falso ideologico, ci induce a riflettere sui pericoli che conseguono dall’allentare le briglie del controllo sugli apparati deputati all’uso della forza. L’inchiesta è partita dalla denuncia di due loro colleghe, insoddisfatte dell’esito dell’inchiesta interna, dalla quale uscivano come scarsamente credibili.
Se da un lato, in quanto garantisti, preferiamo sospendere il giudizio in attesa dell’esito giudiziario della vicenda, dall’altro lato, gli elementi che sono emersi fino ad ora, non possono non destare preoccupazioni. Si tratta di un copione che ricalca altre vicende che hanno coinvolto le forze dell’ordine.
Pensiamo a quanto avvenuto a Piacenza nel 2020, o a Verona un paio di anni fa, e che si ripete a Genova, per non parlare di quanto accertato ad Asti. La retorica delle “poche mele marce” sembra dissolversi di fronte al rosario di una triste routine di vessazioni, violenze, appropriazioni indebite, trasversali a tutti i corpi di polizia. Come affermava lo studioso inglese Maurice Punch, più che alla mela marcia, bisogna guardare al frutteto.
Che non si tratti di un’eccezione, lo evidenzia anche la sistematicità del contesto, con veri e propri codici e rituali che appaiono cementare il gioco di squadra messo in atto dagli agenti implicati. Le percosse definite “cioccolatini” o chiamate “sberlari” in assonanza con la nota marca di caramelle, la chat di gruppo, dove si commentavano i fatti in oggetto, appellata come un noto film di Scorsese, inquietano: gli agenti coinvolti sembrano confondere la distinzione tra realtà e fiction, sentendosi protagonisti di un film in cui il male sta necessariamente dall’altra parte. Così facendo, giustificano i loro comportamenti abusivi, rimuovendo totalmente il fatto che il loro mandato si svolge all’interno della cornice dello Stato di diritto.
A preoccupare è anche il loro modus operandi. Oltre a possedere un tonfa, manganello non in dotazione alla polizia urbana, i soldi e gli stupefacenti sequestrati dagli indagati verrebbero tenuti in un ripostiglio apposito, per essere poi opportunamente utilizzati o per scopi personali. Ma, soprattutto, per costruire delle prove a carico dei fermati.
Il più delle volte si tratta di minori o migranti, ovvero le classi “pericolose” dell’Italia contemporanea. Anche su questo c’è da riflettere, in quanto emerge ancora una volta come, lungi dall’ottemperare alle leggi, le forze di polizia producano la devianza in modo selettivo, facendo leva sui pregiudizi e le rappresentazioni dominanti.
Last but not least, si rende necessaria una riflessione sulla degenerazione delle pratiche messe in atto dalla polizia urbana in questo paese. Almeno dal settembre 2008, quando il ghanese Emmanuel Bunsu venne pestato a Parma nel corso di un’operazione antidroga, è balzato all’evidenza come la polizia locale, a volte, interpreta il suo ruolo non tanto come primo livello di interfaccia tra i cittadini e lo Stato, quanto come primo recettore e interprete del securitarismo. Con le conseguenze negative che conosciamo.
No, signora premier. Non è pericoloso criticare i poliziotti. Anzi, alla luce di quello che emerge continuamente, e dei margini ulteriori di autonomia che, insensatamente, il suo decreto, concede loro, costituisce una pratica sacrosanta.
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Oxfam: aumentano le disuguaglianze e diminuiscono i fondi allo sviluppo
In occasione della Quarta Conferenza internazionale sul Finanziamento per lo Sviluppo, che si svolgerà da domani a Siviglia, l’Oxfam ha pubblicato un altro dei suoi rapporti che, come specco accade, fotografano l’evidente e strutturale disuguaglianza creata dal capitale, ormai in un fase in cui ha chiaramente perso ogni spinta progressiva.
Il titolo è già di per sé esplicativo: “Dal profitto privato al potere pubblico: finanziare lo sviluppo, non l’oligarchia”. Bastano pochi dati per dare forma concreta a queste parole: la ricchezza di 3 mila miliardari, dal 2025, è cresciuta in termini reali di 6,5 trilioni di dollari, e oggi è l’equivalente del 14,6% del Pil globale.
Nell’ultimo decennio, in generale, i patrimoni netti dell’1% più ricco al mondo sono aumentati, sempre in termini reali, di oltre 33.900 miliardi. Si tratta di una cifra che è pari a 22 volte quella calcolata come necessaria per portare tutte le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà al di sopra di essa. Significherebbe poter portare sopra gli 8,30 euro al giorno circa 3,7 miliardi di persone.
La concentrazione della ricchezza privata è cresciuta di 342 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2023, otto volte più di quella pubblica nel corso dello stesso periodo. Questo ha portato, ovviamente, anche a una maggiore influenza delle scelte di gruppi privati su quelle delle autorità pubbliche.
Inoltre, i governi dei paesi più ricchi stanno tagliando nettamente i finanziamenti per lo sviluppo. I soli membri del G7, che sono stati fino a oggi responsabili di tre quarti di tutti gli aiuti ufficiali (anche per il ruolo di sfruttamento storico avuto verso il resto del mondo), hanno deciso di ridurli del 28% entro il 2026 rispetto ai livelli del 2024.
Il rapporto Oxfam sottolinea che, col sottofinanziamento cronico degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), solo il 16% dei 169 target stabiliti dal programma ONU verranno raggiunti entro il 2030. I tagli operati dai governi più avanzati potrebbero costare 2,9 milioni di vite entro il 2030, solo per l’impatto dell’HIV/AIDS nei paesi poveri.
Intanto, la crisi del debito “sta portando alla bancarotta i paesi poveri, che pagano ai loro ricchi creditori molto di più di quanto possano spendere per aule scolastiche o gli ospedali”. Ciò, ovviamente, non fa che cristallizzare e portare alla riproduzione continua, se non pure all’accentuazione, delle disuguaglianze.
L’esposizione dei paesi a basso e medio reddito verso ricchi creditori privati supera di cinque volte l’ammontare dei debiti da essi contratti con altri stati o enti governativi, e rappresenta oltre la metà del loro debito estero. Il 60% dei paesi a basso reddito è sull’orlo della bancarotta, e si ritrovano a spendere di più nel servizio del debito che in spese sociali.
Francesco Petrelli, portavoce e policy advisor di Oxfam Italia sulla finanza per lo sviluppo ha commentato dicendo che “a presagire prospettive flebili per un benessere equo e sostenibile c’è poi una subordinazione di lungo corso, da parte delle istituzioni preposte al sostegno dello sviluppo globale, delle azioni in grado di favorire una prosperità più equamente condivisa agli interessi particolari di pochi e privilegiati attori”.
Molto nette le parole di Amitabh Behar, amministratore delegato di Oxfam: “i paesi ricchi hanno messo Wall Street alla guida dello sviluppo globale. Si tratta di un’acquisizione della finanza privata globale che ha superato i metodi, sostenuti da prove, per affrontare la povertà attraverso investimenti pubblici e una tassazione equa”.
La finanziarizzazione ha raggiunto ogni angolo della nostra economia, e persino della filantropia. E con la crisi è evidente che i margini per continuare nella lotta al sottosviluppo diminuiscono, perché più fondi devono andare nei settori fondamentali della competizione globale.
Dando uno sguardo d’insieme alla faccenda, possiamo dire che è il capitale che ha raggiunto la sua maturazione – da un bel pezzo – e ora si è instradato verso la putrescenza.
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Il titolo è già di per sé esplicativo: “Dal profitto privato al potere pubblico: finanziare lo sviluppo, non l’oligarchia”. Bastano pochi dati per dare forma concreta a queste parole: la ricchezza di 3 mila miliardari, dal 2025, è cresciuta in termini reali di 6,5 trilioni di dollari, e oggi è l’equivalente del 14,6% del Pil globale.
Nell’ultimo decennio, in generale, i patrimoni netti dell’1% più ricco al mondo sono aumentati, sempre in termini reali, di oltre 33.900 miliardi. Si tratta di una cifra che è pari a 22 volte quella calcolata come necessaria per portare tutte le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà al di sopra di essa. Significherebbe poter portare sopra gli 8,30 euro al giorno circa 3,7 miliardi di persone.
La concentrazione della ricchezza privata è cresciuta di 342 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2023, otto volte più di quella pubblica nel corso dello stesso periodo. Questo ha portato, ovviamente, anche a una maggiore influenza delle scelte di gruppi privati su quelle delle autorità pubbliche.
Inoltre, i governi dei paesi più ricchi stanno tagliando nettamente i finanziamenti per lo sviluppo. I soli membri del G7, che sono stati fino a oggi responsabili di tre quarti di tutti gli aiuti ufficiali (anche per il ruolo di sfruttamento storico avuto verso il resto del mondo), hanno deciso di ridurli del 28% entro il 2026 rispetto ai livelli del 2024.
Il rapporto Oxfam sottolinea che, col sottofinanziamento cronico degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), solo il 16% dei 169 target stabiliti dal programma ONU verranno raggiunti entro il 2030. I tagli operati dai governi più avanzati potrebbero costare 2,9 milioni di vite entro il 2030, solo per l’impatto dell’HIV/AIDS nei paesi poveri.
Intanto, la crisi del debito “sta portando alla bancarotta i paesi poveri, che pagano ai loro ricchi creditori molto di più di quanto possano spendere per aule scolastiche o gli ospedali”. Ciò, ovviamente, non fa che cristallizzare e portare alla riproduzione continua, se non pure all’accentuazione, delle disuguaglianze.
L’esposizione dei paesi a basso e medio reddito verso ricchi creditori privati supera di cinque volte l’ammontare dei debiti da essi contratti con altri stati o enti governativi, e rappresenta oltre la metà del loro debito estero. Il 60% dei paesi a basso reddito è sull’orlo della bancarotta, e si ritrovano a spendere di più nel servizio del debito che in spese sociali.
Francesco Petrelli, portavoce e policy advisor di Oxfam Italia sulla finanza per lo sviluppo ha commentato dicendo che “a presagire prospettive flebili per un benessere equo e sostenibile c’è poi una subordinazione di lungo corso, da parte delle istituzioni preposte al sostegno dello sviluppo globale, delle azioni in grado di favorire una prosperità più equamente condivisa agli interessi particolari di pochi e privilegiati attori”.
Molto nette le parole di Amitabh Behar, amministratore delegato di Oxfam: “i paesi ricchi hanno messo Wall Street alla guida dello sviluppo globale. Si tratta di un’acquisizione della finanza privata globale che ha superato i metodi, sostenuti da prove, per affrontare la povertà attraverso investimenti pubblici e una tassazione equa”.
La finanziarizzazione ha raggiunto ogni angolo della nostra economia, e persino della filantropia. E con la crisi è evidente che i margini per continuare nella lotta al sottosviluppo diminuiscono, perché più fondi devono andare nei settori fondamentali della competizione globale.
Dando uno sguardo d’insieme alla faccenda, possiamo dire che è il capitale che ha raggiunto la sua maturazione – da un bel pezzo – e ora si è instradato verso la putrescenza.
Fonte
Rapimento Moro, le sentenze giudiziarie al vaglio della storia /2 parte
di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
Pubblicato su Questionegiustizia.it, 26 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte seconda)»
Nel maggio ’87, la Corte di Assise di Roma, nel cd. processo Metropoli, stabilì che Lanfranco Pace e Franco Piperno erano estranei a tutti i reati connessi alla vicenda Moro.
Al termine del processo Moro ter di primo grado, nell’ottobre ’88, i giudici romani assolsero Rita Algranati, Marcello Capuano, Cecilia Massara, Luigi Novelli, Marina Petrella e Stefano Petrella e condannarono, invece, Alessio Casimirri per tutti i fatti di via Fani e via Montalcini. Giulio Baciocchi, Walter Di Cera, Giuseppe Palamà e Odorisio Perrotta, militanti della colonna romana, a differenza di Casimirri, furono condannati solo per il sequestro e l’omicidio del presidente della DC.
Nel processo Moro quater di primo grado, che si celebrò nel ‘94, Alvaro Lojacono venne ritenuto responsabile di tutti i fatti avvenuti tra il 16 marzo e il 9 maggio ‘78.
Infine, nel processo Moro quinquies, nel 1996, i giudici affermarono la responsabilità di Germano Maccari, il falso marito di Anna Laura Braghetti, e di Raimondo Etro che aveva collaborato ad alcune fasi della inchiesta su Moro prima del sequestro. Questa volta però, Maccari ed Etro, riconosciuti colpevoli della uccisione della scorta e del sequestro e della morte del presidente DC, per scelta fatta dalla Procura romana al momento del rinvio a giudizio, non furono processati anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini. [17]
Nel corso della lunga vicenda processuale, Anna Laura Braghetti (v. interrogatorio sostenuto nel processo di primo grado Moro quater alla udienza del 24 novembre 1993) e Germano Maccari (v. la drammatica confessione resa nel processo Moro quinquies alla udienza del 19 giugno 1996) ammisero le proprie responsabilità e raccontarono cosa era accaduto nella primavera ‘78.
Anche altri protagonisti della vicenda (Mario Moretti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Barbara Balzerani e Bruno Seghetti), a partire dagli anni ’90, in luoghi diversi dalle aule giudiziarie (la Balzerani rese tuttavia dichiarazioni alla udienza del 2 dicembre 1993 del cd. Moro quater), hanno raccontato la storia di cui ci stiamo occupando. [18]
Le versioni provenienti dagli imputati dissociati/collaboratori di giustizia e dagli imputati che fecero scelte processuali opposte alla dissociazione/collaborazione sono, per larga parte, coincidenti. Inoltre, recenti accertamenti di natura tecnica o scientifica – sulla dinamica della azione a via Fani, sulla base di via Gradoli e sulla uccisione di Moro in via Montalcini – hanno definitivamente smontato le teorie complottiste, accreditando come sostanzialmente veritiera la ricostruzione della vicenda fornita dai responsabili del sequestro e della uccisione di Aldo Moro. [19]
Esiste, quindi, oggi, un solido patrimonio di conoscenze da cui partire per valutare i fatti accertati dalle sentenze.
Sono chiare ed ampiamente provate le responsabilità dei componenti del Comitato esecutivo, della direzione della colonna romana e di coloro che presero parte, direttamente e in prima persona, alla operazione di via Fani e al sequestro protrattosi in via Montalcini.
Meno evidenti sono quelle di altri condannati nei processi Moro uno/bis e ter e, per alcuni di essi, gli elementi di prova presentano profili decisamente problematici.
Se quasi tutti ricordano i fatti salienti che avvennero la mattina del 16 marzo ’78, quasi nessuno ha memoria dell’episodio meno noto tra quelli che accaddero a via Fani: il tentato omicidio dell’ingegnere Alessandro Marini.
Era veramente arduo riporre fiducia nella credibilità del teste Marini che, nella fase iniziale della indagine, dopo aver visto alcune fotografie ed aver fatto anche una ricognizione personale, sostenne di essere assolutamente sicuro che uno dei brigatisti da lui visti la mattina del 16 marzo era Corrado Alunni, che però nulla c’entrava con via Fani ed aveva abbandonato le BR già da molto tempo. [20]
Ma questo scivolone non impedì a Marini di diventare il più importante testimone del caso Moro e di ripetere mille volte, cambiando però mille volte la sua versione, che, essendosi trovato casualmente all’angolo tra via Stresa e via Fani, aveva incrociato due brigatisti che viaggiavano su una moto Honda. Il passeggero della moto aveva sparato contro di lui una raffica di mitra che aveva mandato in frantumi il parabrezza in plastica del suo ciclomotore Boxer. Marini si era salvato solo perché si era istintivamente abbassato.
Il testimone, quindi, convinse inquirenti e giudici di essere stato vittima di un tentativo di omicidio, commesso da due brigatisti, che però non saranno mai identificati, a bordo di una moto Honda, un mezzo che, tuttavia, nessuna indagine o processo ha mai dimostrato essere stato utilizzato dalle BR la mattina del 16 marzo.
A 25 persone è stata inflitta una pena definitiva anche per questo delitto.
Poi, in anni più recenti, fu la versione del testimone ad andare in frantumi.
In alcune fotografie scattate nella mattinata del 16 marzo ’78, si vede chiaramente un Boxer, parcheggiato su un marciapiede in via Fani, che ha il parabrezza in plastica tenuto insieme con una striscia di un vistoso scotch marrone, ma ancora tutto integro. Nessun colpo di arma da fuoco l’ha colpito. Quando venne convocato dalla Commissione di inchiesta sul caso Moro, Marini (che, in verità, lo aveva già detto al Pubblico Ministero nel ’94), per l’ennesima volta, fece marcia indietro e cambiò la sua versione dei fatti, cercando di adattarla alla nuova situazione: sì, era vero, il parabrezza si era rotto prima dei fatti di via Fani e lui, per tenerlo insieme, aveva applicato lo scotch. Solo dopo il 16 marzo, avendo notato un pezzo mancante, aveva creduto che il parabrezza fosse stato raggiunto da un proiettile. [21]
Un altro colpo durissimo alla credibilità del testimone lo diedero due testimonianze particolarmente qualificate.
Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, ricordò ai parlamentari che Marini aveva sostenuto di essere stato minacciato a causa delle sue dichiarazioni sull’agguato di via Fani e la Polizia aveva installato un apparecchio nella abitazione dell’ingegnere per registrare le telefonate che riceveva a casa. Quelle registrazioni, dimenticate per 36 anni, erano state recuperate e dimostravano che Marini era stato sì effettivamente minacciato, ma per vicende personali che nulla c’entravano con il caso Moro. [22]
Federico Boffi, dirigente del Servizio centrale della Polizia Scientifica (per incarico della Commissione parlamentare aveva analizzato la scena dell’agguato), spiegava che la versione del testimone non reggeva perché la analisi della dinamica della azione dimostrava che non erano stati esplosi colpi di arma da fuoco da un veicolo in movimento e che la traiettoria dei proiettili era opposta rispetto al luogo in cui Marini affermava di essersi trovato. [23]
Ha sostenuto lo storico Gianremo Armeni che «il tentato omicidio di Alessandro Marini non è un fatto acclarato dalla magistratura, è una circostanza scritta nella sentenza direttamente dal testimone» ed è difficile non condividere questa affermazione.
Non è, quindi, avventato concludere oggi, trascorsi 47 anni da quel giorno del marzo ’78, che uno dei fatti per i quali sono state inflitte molte condanne definitive non si è mai verificato.
Restano, però, gli altri gravissimi reati.
I componenti della brigata Università della colonna romana (Antonio Savasta, Emilia Libéra, Massimo Cianfanelli, Caterina Piunti e Teodoro Spadaccini) ammisero le proprie responsabilità ed anzi Savasta e Libéra divennero due tra i principali collaboratori di giustizia nella storia delle BR. I cinque imputati sono stati condannati per tutti i delitti connessi alla vicenda Moro.
Ma cosa fecero esattamente questi brigatisti che, ovviamente, non si trovavano a via Fani?
Secondo i giudici, la brigata universitaria era corresponsabile della “operazione Fritz” per tre essenziali ragioni:
1) al pari di tutte altre brigate, anche questa, nella imminenza del 16 marzo, aveva rubato auto poi utilizzate a via Fani;
2) aveva spiato i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche;
3) aveva ricevuto la Renault 4 colore amaranto poi usata per trasportare il corpo di Moro sino a via Caetani.
Gli elementi di prova sembrano corposi, ma, se ci addentriamo nelle pieghe delle centinaia di pagine dei faldoni del processo, questo quadro offre minori certezze.
Un paio di mesi prima del 16 marzo, Savasta ricevette da Bruno Seghetti, cioè dalla direzione della colonna romana, l’incarico di osservare i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche. Le regole della compartimentazione imponevano a Seghetti di non spiegare a cosa servisse questa inchiesta preliminare. Nel corso del processo, Savasta dichiarava di aver comunicato questa decisione a Libéra e Spadaccini, senza tuttavia aver fatto cenno al colloquio avuto con Seghetti. Dunque, per qualche giorno, i membri della brigata avevano spiato Moro e la sua scorta all’interno della facoltà. Infine, Savasta aveva comunicato a Seghetti che, dal suo punto di vista, era impossibile portare a termine qualsiasi azione in quel luogo perché il presidente DC era costantemente sorvegliato dalla scorta che, sicuramente, avrebbe aperto il fuoco.
Ma il racconto di Savasta diverge non poco da quello degli altri due militanti della brigata Università.
Spadaccini negava di aver spiato Moro e confessava solo di aver svolto una rapida inchiesta sul professore Franco Tritto perché volevano dar fuoco alla sua auto. Quando il Presidente della Corte di Assise chiese ad Emilia Libéra se aveva partecipato alla inchiesta sul presidente della DC insieme a Savasta, la donna replicava di non averlo mai fatto né di averlo mai saputo (Presidente: «Ma lei non seppe nulla di questa inchiesta?» Libéra: «No». Presidente: «Savasta non ebbe mai a parlarle, anche in seguito, di una inchiesta che aveva fatto su Moro?» Libéra: «No». Presidente: «Mai gliene parlò?» Libéra: «L’ho saputo adesso». Presidente: «Prima non l’ha mai saputo?» Libera: «No»).
Un mese prima del sequestro tutte le brigate ricevettero una lista di veicoli da rubare. Seghetti, responsabile politico della brigata Università, consegnò la lista a Libéra dicendo che le auto sarebbero state usate per una imminente, grande operazione. La brigata rubò un solo veicolo, ha sostenuto Savasta nel processo. Invece, secondo la versione processuale della Libéra, la brigata non riuscì a rubare nulla.
Circa dieci giorni prima del 9 maggio, Seghetti affidò a Savasta, Libéra e Spadaccini l’auto Renault 4 di colore amaranto per “gestirla”, cioè cambiare le targhe, eliminare qualsiasi contrassegno del veicolo e lavarla. I tre della brigata università svolsero questi compiti. Poi, qualche giorno dopo, Libéra e Spadaccini portarono il veicolo a Piazza Albania e lo riconsegnarono a Seghetti. Per i tre militanti della brigata si trattava di una operazione di routine, eguale a tante altre, e, solo dopo la conclusione della vicenda, Savasta comprese che sulla Renault 4 era stato trasportato il cadavere di Moro.
In definitiva, l’inchiesta nella facoltà di Scienze politiche, quasi certamente, non venne, quindi, svolta dalla brigata Università, ma dal solo Savasta ed i brigatisti Libéra e Spadaccini non seppero che i compiti che svolgevano erano connessi alla vicenda Moro: né la ricerca di auto prima del 16 marzo, né la custodia della Renault 4 amaranto.
Inoltre, nel processo emerse che Teodoro Spadaccini era stato sospeso dalla organizzazione prima del sequestro ed era stato riammesso, “scongelato”, alla metà di aprile ’78, quando cioè la vicenda stava per avviarsi a conclusione.
Tuttavia, il forzato allontanamento del brigatista dalla vita della organizzazione non suscitò nei giudici l’interrogativo che la sua partecipazione, quantomeno ai delitti avvenuti la mattina del 16 marzo, esattamente come per Emilia Libéra, non era dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Caterina Piunti, reclutata nella brigata nell’autunno ’77, ammise di essere stata militante della colonna romana e di aver diffuso i comunicati delle BR durante il periodo del sequestro. Massimo Cianfanelli, alla udienza del 19 maggio ‘82, sostenne di essere entrato nella brigata solo dopo i fatti di via Fani, a fine aprile ’78, e di essersi limitato a fare volantinaggio.
Piunti e Cianfanelli non vennero mai coinvolti nelle attività degli altri membri della brigata e Savasta e Libéra non smentirono la versione dei due imputati. Per i giudici, tuttavia, anche l’attività di diffusione dei comunicati aveva contribuito a rafforzare la prosecuzione del sequestro, anche se è difficile comprendere, allora, perché Piunti e Cianfanelli, se avevano assolto ad alcuni compiti solo dopo che Moro era già stato portato a via Montalcini, vennero condannati anche per i fatti avvenuti la mattina del 16 marzo. In termini più chiari: come può una attività di propaganda fatta durante il sequestro aver contribuito a realizzare delitti avvenuti prima, cioè uccidere la scorta di Moro e tentare di uccidere il teste Marini?
Le sentenze del processo Moro uno/bis sancirono la colpevolezza anche di Luca Nicolotti, dirigente della colonna genovese, e Cristoforo Piancone, dirigente della colonna torinese.
Secondo i giudici, che ricevettero questa informazione da Patrizio Peci, i due imputati, già prima del 16 marzo, erano componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione insieme a Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari. Le sentenze, nel primo come nel secondo grado, non spesero molte parole per dimostrare la responsabilità dei due brigatisti: avevano sicuramente partecipato ai delitti connessi alla vicenda Moro perché rivestivano posizioni di vertice ed il fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione aveva deciso il sequestro insieme al comitato esecutivo.
I fatti storici appaiono, però, molto più complessi.
Se Peci aveva sostenuto che Nicolotti era inserito nel fronte della lotta alla controrivoluzione [24], Valerio Morucci e Adriana Faranda possedevano informazioni diverse.
Quando i due ex brigatisti, alla fine degli anni ‘80, scrissero un corposo memoriale sul caso Moro, compilarono anche un foglio che conteneva il completo organigramma degli organismi dirigenti nazionali e locali delle BR durante il sequestro. Secondo Morucci (nel ’78 membro del fronte nazionale della logistica) e Faranda (nel ’78 membro della Direzione strategica), il fronte della lotta alla controrivoluzione era composto da Bonisoli e Brioschi per Milano, Micaletto per Torino e Genova, Gallinari per Roma e Piancone per Torino, mentre Luca Nicolotti era solo membro della direzione della colonna genovese. [25]
I giudici di secondo grado del processo Moro uno/bis scrissero nella sentenza che l’inserimento di Nicolotti nel fronte di lotta alla controrivoluzione era «comprovato dalle concordanti, precise dichiarazioni degli imputati Peci, Savasta e Fenzi i quali, fra l’altro, parteciparono insieme con il Nicolotti alla riunione della Direzione strategica dell’organizzazione svoltasi a Genova nel dicembre 1979».
In realtà, Fenzi non era presente alla riunione che si tenne a Genova, in via Fracchia, nel dicembre ‘79 e, in ogni caso, la partecipazione di Nicolotti ad una riunione di un organismo dirigente, la Direzione strategica, a fine ’79, cioè trascorso oltre un anno dai fatti di via Fani, non dimostrava, ovviamente, che l’imputato fosse stato membro di uno dei fronti nazionali delle BR. [26]
In definitiva, Nicolotti e Piancone furono condannati perché Adriana Faranda, durante il processo di secondo grado, aveva confermato che «le azioni delle colonne dovevano essere preventivamente decise dai responsabili dei fronti; tutto ciò per rispondere a quella centralizzazione del dibattito politico che precedeva sempre e concludeva poi la esecuzione di tutte le azioni delle BR che si muovevano unitariamente su tutto il territorio nazionale».
Ma la sintetica descrizione delle regole di funzionamento delle BR, contenuta nella sentenza, appare troppo schematica.
In generale, il compito del fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione era quello di elaborare la “campagna politico-militare” all’interno della quale collocare gli obiettivi da colpire (i magistrati, gli esponenti politici ecc.), obiettivi concreti che, tuttavia, venivano individuati dalla colonna ed affidati, per la pianificazione della azione, al settore della contro locale.
Ma ciò che più importa è che la vicenda Moro, per la sua eccezionale importanza, rappresentò un unicum nella vita della organizzazione. Già a partire dalla fine del ’76, la scelta di colpire un esponente politico di altissimo livello della DC era attribuibile, per intero, al comitato esecutivo che, in quel periodo, peraltro, aveva due suoi componenti, Moretti e Bonisoli, impegnati proprio a Roma per costruire la colonna cittadina, operazione senza la quale non avrebbe potuto realizzarsi l’azione di attacco al cuore dello stato. Il compito della pianificazione dell’agguato, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti, era affidato, in toto, alla direzione della colonna romana ed il fronte nazionale della controrivoluzione, di fatto, era stato esautorato.
Ha sostenuto Franco Bonisoli, deponendo nel corso del processo Metropoli nell’aprile '87, che la decisione del sequestro fu presa dal comitato esecutivo e che neppure la Direzione strategica entrò mai nel merito della azione che era in programma, «ciò non soltanto per un problema di compartimentazione, perché nella DS c’erano militanti che non sapevano dell’azione Moro, cioè non sapevano che l’obiettivo dell’azione che avevano ratificato fosse Moro. L’azione era estremamente compartimentata. Nella Direzione strategica del febbraio ’78 non si discusse dell’obiettivo dell’azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro».
Se la direzione strategica non partecipò alla ideazione e pianificazione del sequestro, come è possibile, allora, che lo abbiano fatto i membri del fronte della lotta alla controrivoluzione, struttura di rango politico inferiore alla Direzione strategica, oltre che al Comitato esecutivo?
Peraltro, le Brigate Rosse non avevano alcuna necessità di infrangere le rigide regole della compartimentazione, coinvolgendo tutti i componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione, visto che tre membri di questa struttura (Bonisoli, Micaletto e Gallinari) erano già attivamente impegnati nella pianificazione della operazione.
La posizione di Cristoforo Piancone presenta poi alcuni aspetti di straordinaria singolarità. Il brigatista torinese, l’11 aprile ’78, a Torino, partecipò all’agguato mortale contro l’agente di custodia Lorenzo Cotugno. Piancone, ferito, venne arrestato. Il 25 aprile ’78, il suo nome comparve nel comunicato n. 8 con il quale le BR chiedevano la liberazione di 13 detenuti in cambio del rilascio di Moro. Nonostante fosse detenuto dall’11 aprile e nonostante Piancone fosse, oggettivamente, interessato, in quel momento, ad una conclusione positiva del sequestro e non certo alla soppressione del prigioniero, anche lui venne condannato quale corresponsabile della uccisione avvenuta in via Montalcini.
Giulio Cacciotti e Francesco Piccioni non erano dirigenti della colonna romana, ma semplici militanti. Il primo era membro della brigata Torre Spaccata, il secondo integrava il fronte logistico. Entrambi parteciparono a diverse azioni armate, in particolare Piccioni all’assalto alla caserma Talamo del 19 aprile ’78, azione nella quale venne utilizzata l’auto Renault 4 amaranto.
Ma Cacciotti e Piccioni, come tutti i militanti della colonna romana, non seppero mai nulla della operazione del 16 marzo e non svolsero nessun compito concreto che contribuì a mantenere Moro in prigionia.
Applicando singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani.
In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto.
Ancor più singolari appaiono le motivazioni che riguardano gli imputati Gabriella Mariani, Antonio Marini ed Enrico Triaca, individuati come militanti di rango elevato, organizzatori delle attività della colonna romana.
In realtà, nulla provava che i tre imputati avessero partecipato ad una qualsiasi fase della operazione del 16 marzo o della custodia del prigioniero a via Montalcini. Nemmeno gli intensi rapporti avuti con Mario Moretti e nemmeno il fatto che Gabriella Mariani aveva dattiloscritto la risoluzione della direzione strategica del febbraio ‘78 permettevano di giungere a questa conclusione. È indiscutibile che Moretti non abbia mai parlato con loro della “operazione Fritz” prima del 16 marzo né saltò fuori, durante il processo, che gli imputati erano stati sollecitati a svolgere attività particolari e diverse dopo i fatti di via Fani. Peraltro, i comunicati diffusi durante il sequestro non vennero realizzati o duplicati né a via Palombini né a via Foà.
I giudici fecero ricorso all’assunto apodittico della doppia negazione: in sostanza, gli imputati “non potevano non sapere”.
Così, per Gabriella Mariani «deve ritenersi per certo che fosse a conoscenza delle attività e dei programmi della organizzazione a Roma dall’inizio a sino all’arresto del 18 maggio ’78 e che abbia dato quindi... un contributo efficace alle attività delle BR e alla commissione di delitti, tra cui certamente la strage di via Fani, il sequestro e l’omicidio Moro» e per Triaca che «non può non aver partecipato alla operazione Moro ed a tutta la campagna di primavera». [27]
Le decisioni dei giudici del Moro uno/bis vennero sostanzialmente condivise dai magistrati del Moro ter, ma questi ultimi non seguirono sino in fondo la linea tracciata dai colleghi del primo processo. Anzi, nella parte della sentenza illustrativa della metodologia che i giudici avrebbero seguito, esplicitarono chiaramente un punto significativo di discontinuità con i provvedimenti giudiziari precedenti scrivendo: «...non possa estendersi automaticamente agli organizzatori della banda armata la responsabilità per i reati commessi da altri associati, quasi derivando dalla loro posizione ai vertici dell’organizzazione una generalizzata attribuibilità a titolo di concorso morale di tutte le attività dei compartecipi di grado subordinato. In altri termini, la sola appartenenza all’organizzazione, anche con ruolo dirigenziale, e la previsione del reato nel programma criminoso non sono da sole sufficienti per stabilire la responsabilità a titolo di compartecipazione del singolo associato rimasto estraneo alla ideazione ed all’esecuzione del reato-fine, occorrendo la prova di un consapevole apporto causale alla commissione del fatto sia pure nella forma dell’istigazione o dell’agevolazione».
Se nel processo del 1982/’83 condotto dal Presidente Severino Santiapichi, l’essere stato mobilitato per rubare auto poi usate il 16 marzo costituiva elemento di prova molto importante, quasi decisivo, per concludere che il militante brigatista aveva fornito un contributo alla realizzazione di tutti i delitti di via Fani (il plurimo omicidio degli uomini della scorta e il sequestro), i giudici del Moro ter pervennero ad una conclusione parzialmente diversa.
Giulio Baciocchi, Walter Di Cera e Odorisio Perrotta era stati militanti della brigata Centocelle ed anche questa aveva ricercato/procurato auto usate a via Fani.
Giuseppe Palamà, romano di Ostia, era entrato nella colonna romana nel marzo ’78 e, come Perrotta, aveva diffuso i comunicati BR durante il sequestro.
I giudici scrissero che «Di Cera ed Arreni rubano una Fiat 128 mentre Baciocchi e Savasta si impossessano di una Dyane rossa. Entrambe le auto verranno utilizzate nell’iter criminis della strage di via Fani, del sequestro e dell’omicidio dell’On. Moro... l’autovettura dell’on. Moro viene bloccata da una Fiato 128 chiara rubata il 23 febbraio 1978 a Bosco Giuliano in Via Monte Brianzo, nei pressi immediati di Piazza Nicosia, come riferisce il Di Cera».
Le informazioni contenute in questo passaggio della sentenza non sono, tuttavia, corrette.
Infatti, l’auto che bloccò la macchina su cui viaggiava Moro non è quella indicata nella sentenza perché Moretti guidava una Fiat 128 familiare di colore chiaro (sulla quale venne apposta la targa CD 19707) rubata a Nando Miconi, l’8 marzo 1978, davanti al suo negozio in Via degli Scipioni 48. Questo veicolo venne abbandonato in via Fani. Invece, la Fiat 128 di colore chiaro di cui parlano i giudici, cioè quella rubata a Giuliano Bosco nei pressi di Piazza Nicosia, venne usata da Lojacono e Casimirri e, subito abbandonata in Via Licinio Calvo, venne trovata dagli inquirenti il 17 marzo 1978.
Quanto all’auto Citroën Dyane è vero che i brigatisti ne utilizzarono una, ma non può trattarsi di quella che i giudici sostengono, sulla base dell’accusa formulata da Walter Di Cera, essere stata rubata da Baciocchi e Savasta.
La macchina, infatti, (come ha sostenuto, senza essere mai smentito sul punto, Valerio Morucci nel suo memoriale) venne rubata il 6 marzo, era di colore azzurro e non è mai stata individuata dalle forze di polizia.
Quando terminò la fase dell’agguato a via Fani, il convoglio brigatista in fuga era composto dalla Fiat 132 guidata da Seghetti (con Moretti, Fiore e il sequestrato), da una Fiat 128 bianca condotta da Casimirri (con Gallinari e Lojacono) e da altra Fiat 128 blu guidata da Morucci (con Bonisoli e Balzerani). Dopo aver percorso piazza Monte Gaudio, via Trionfale sino a largo Cervinia, via Carlo Belli e via Casale De Bustis, il convoglio si immise in via dei Massimi. Superata via Bitossi, Seghetti lasciò la guida della Fiat 132 a Moretti, salì su una Citroën Dyane azzurra, lasciata in quel posto il giorno prima, e si mise al seguito della 132. In piazza Madonna del Cenacolo avvenne il trasbordo di Moro dalla 132 ad un furgone Fiat 850. Morucci salì sulla Dyane guidata da Seghetti che diventò la testa del convoglio. La Citroën Dyane seguì il furgoncino 850 (su cui si trovavano Moretti, Gallinari e Moro) sino a via Isacco Newton, al parcheggio coperto della Standa. Mentre la Dyane restò fuori, il furgoncino 850 entrò nel parcheggio e si accostò ad una Ami 8 Breck guidata da Germano Maccari. La cassa di legno con dentro Moro venne caricata nella Ami che partì con Moretti alla guida e Maccari accanto. Morucci si mise alla guida del furgoncino 850 e si allontanò insieme a Seghetti che conduceva la Dyane. Morucci e Seghetti arrivarono poi a piazza San Cosimato, luogo nel quale i due veicoli vennero abbandonati. [28]
I giudici del Moro ter condannarono Baciocchi e Di Cera perché «il rapporto di causalità materiale e psichica tra il furto delle auto ed il sequestro e l’omicidio dell’On. Moro è evidente», ma, contrariamente ai giudici del Moro uno/bis, l’affermazione della responsabilità non riguardò anche il plurimo omicidio degli uomini della scorta benché i fatti (eccidio della scorta e sequestro) fossero contestuali.
Alla stessa conclusione i magistrati giunsero per i brigatisti Palamà e Perrotta, responsabili di aver distribuito comunicati BR durante il sequestro. Avendo realizzato un «inserimento nella gestione del sequestro», erano corresponsabili del sequestro stesso e del successivo assassinio del presidente DC. [29]
In definitiva, identiche condotte illecite vennero valutate e sanzionate in maniera differente.
Nel Moro uno/bis, gli imputati accusati di aver procurato auto oppure di avere diffuso i comunicati della organizzazione durante il sequestro furono condannati per tutti i delitti principali della vicenda.
Invece, nel Moro ter, ai brigatisti accusati delle medesime condotte venne risparmiata la condanna per l’eccidio della scorta e il tentato omicidio Marini.
La scelta di applicare principi di “attribuzione automatica” della responsabilità penale produsse una ulteriore torsione dei criteri di valutazione della prova.
Gli imputati nella prima vicenda giudiziaria furono riconosciuti colpevoli, indistintamente, anche per tutti i delitti compiuti dalla colonna romana nella imminenza del sequestro e durante il suo protrarsi. Si trattava, in particolare, dell’omicidio del magistrato Riccardo Palma del 14 febbraio ’78, dell’incendio dell’auto del poliziotto Tinu del 7 aprile ’78, dell’attentato alla caserma Talamo dei carabinieri del 19 aprile ’78 e del ferimento del consigliere democristiano Girolamo Menchelli del 26 aprile ’78.
In realtà, durante il processo, Savasta e Libéra non avevano fornito molte informazioni su questi fatti, accusando Prospero Gallinari, per il delitto Palma, e Seghetti, Piccioni ed Arreni, per l’attentato alla caserma.
Ma i giudici decisero che «ne sono responsabili tutti gli imputati attesa la evidente connessione» con il sequestro di Aldo Moro, anche se per molti di essi (in particolare, Braghetti, Mariani, Marini, Spadaccini, Triaca, Savasta, Libèra, Cacciotti e Piunti), peraltro non inseriti in alcuna struttura dirigenziale nazionale o romana, non emergevano prove di una partecipazione, materiale o morale, ai fatti.
La torsione diventò ancor più stridente nel caso di Anna Laura Braghetti, la invisibile proprietaria della abitazione di via Montalcini che, sino al 9 maggio ’78, ovviamente, non poteva e non doveva avere alcun contatto con altri brigatisti, per non compromettere la sicurezza della prigione del popolo. La “invisibilità” della Braghetti (la vita della brigatista, durante il sequestro, era quotidianamente scandita dalla presenza sul luogo di lavoro e dall’immancabile rientro nella abitazione di via Montalcini) dimostrava che la donna ben difficilmente avrebbe potuto partecipare, anche solo come ideatrice, ad altre azioni armate. Eppure, anche la Braghetti venne condannata per gli altri delitti commessi dalla colonna romana tra il febbraio e il 9 maggio 1978. [30]
Germano Maccari, l’altro abitante di via Montalcini, aveva svolto un ruolo identico a quello della Braghetti. Ma, nel suo caso, i magistrati romani fecero scelte diverse da quelle compiute nei primi anni ’80. Si è già sottolineato che il brigatista non fu processato per il tentato omicidio di Alessandro Marini. Inoltre, nel Moro quinquies, Maccari fu giudicato solo per i reati strettamente connessi al sequestro ed alla uccisione di Moro e non per gli altri delitti compiuti dalla colonna romana nella “campagna di primavera”, quelli per i quali la Braghetti era stata condannata. Raimondo Etro, imputato nello stesso processo, fu giudicato e condannato per l’omicidio del magistrato Riccardo Palma perché aveva svolto un ruolo attivo nel delitto. [31]
La sentenza Maccari-Etro matura in un’epoca diversa, distante 18 anni dai fatti di via Fani e 12 anni dalla prima sentenza Moro. Sembra evidente che la magistratura, in una fase storica che progressivamente si allontana dalla cultura emergenziale che ha dominato la vita giudiziaria negli anni ’70 e ’80, muti il proprio atteggiamento e decida di applicare altri criteri di valutazione della prova ed altre regole in materia di concorso di persone nel reato.
Se le prime sentenze si erano pericolosamente allontanate dai canoni della responsabilità personale per condividere quelli della “responsabilità di posizione”, l’indagine ed il processo Maccari-Etro seguirono una linea giudiziaria diversa aprendo la strada ad un orientamento che, oggi, ispira i giudici nell’affermare principi costituzionalmente orientati, ad esempio quelli secondo i quali «il ruolo di partecipe di una organizzazione criminale non è sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio... giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo alla attuazione della singola condotta criminosa... essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di posizione o da riscontro di ambiente». [32]
Note
[17] Nel processo Moro uno/bis, la sentenza di primo grado viene emessa dalla Corte di Assise di Roma (Pres. Santiapiachi) il 24 gennaio 1983. Quella di secondo grado (Pres. De Nictolis) è emessa il 14 marzo 1985 e quella della Corte di cassazione (Pres. Carnevale) interviene il 14 novembre 1985. Nel cd. processo Metropoli, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 maggio 1987 e quella d’appello il 19 maggio 1988. Nel processo Moro ter, la sentenza di primo grado (Pres. Sorichilli) è del 12 ottobre 1988. La sentenza d’appello è del 6 marzo 1992 e quella della Corte di cassazione (Pres. Valente) viene emessa il 10 maggio 1993. La sentenza di primo grado del processo Moro quater è del 1° dicembre 1994, quella di secondo grado del 3 giugno 1996 e quella della Corte di cassazione del 14 maggio 1997. Infine, nel processo Moro quinquies, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 luglio 1996, quella della Corte di Assise di Appello il 19 giugno 1997 e, dopo due annullamenti disposti dalla Corte di cassazione, le condanne diventano definitive nel 1999. Tutti i provvedimenti giudiziari sul caso Moro, con i relativi incartamenti, sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma.
[18] Per il racconto fornito da alcuni brigatisti che furono protagonisti della operazione Moro v. Mario Moretti (intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2017; Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, PGreco, 2014; Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, 2003; Aldo Grandi, L’ultimo brigatista, BUR, 2007; Barbara Balzerani, Compagna luna, DeriveApprodi, 2013.
[19] Per incarico della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro, il Reparto Investigazioni Scientifiche Carabinieri ha svolto accertamenti sulla vicenda Moro. Ha escluso che, nei reperti della base di via Gradoli, vi fossero tracce biologiche riconducibili ad Aldo Moro (dimostrando, in maniera inconfutabile, che Moro non è mai stato nell’appartamento) ed ha, invece, accertato la presenza di profili genetici riconducibili a 2 soggetti maschili ignoti e 2 soggetti femminili ignoti. Inoltre, il RIS accedeva, il 4 maggio 2017, in via Montalcini 8 per effettuare una sperimentazione all’interno del box auto che, nel ’78, apparteneva a Laura Braghetti. Secondo la relazione tecnica «si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro…le prove reali e virtuali d’ingombro con la Renault4 consentono di non escludere che la vittima sia stata attinta nel bagagliaio mentre l’auto era parcheggiata a retromarcia nel box» (v. audizioni del Comandante RIS Roma, Luigi Ripani, nelle sedute del 30 settembre 2015, 23 febbraio 2017 e 2 marzo 2017 della Commissione Moro). Infine, gli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia Scientifica in via Fani-via Stresa (sul numero dei colpi esplosi, sulla traiettoria dei proiettili esplosi dalle armi usate dai brigatisti ecc.) smentivano sia la ipotesi di un “super sparatore” sia la tesi della presenza, in via Fani, durante l’azione, di persone diverse ed ulteriori rispetto a quelle che sono individuate e condannate dalla magistratura (v. audizione del Dirigente Servizio Centrale Polizia Scientifica nella seduta del 10 giugno 2015 della Commissione Moro).
[20] Sulla identificazione di Corrado Alunni da parte del teste Alessandro Marini v. l’audizione, del 25 marzo 2015, dell’ex giudice istruttore di Roma Ferdinando Imposimato davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.
[21] Sulla tormentata testimonianza di Alessandro Marini e sul tema della moto Honda usata a via Fani v. Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, cit.; inoltre, v. dell’autore l’articolo, Il secolo breve del testimone di via Fani, in http://www.questionegiustizia.it, 9 giugno 2023.
[22] L’audizione del Procuratore Generale di Roma Luigi Ciampoli si è svolta nella seduta del 12 novembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro e può essere consultata accedendo al sito della Camera dei deputati alla voce Resoconti stenografici–audizioni.
[23] Il funzionario della Polizia di Stato Federico Boffi è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nelle sedute del 10 giugno ed 8 luglio 2015.
[24] Peci sostenne che Nicolotti, Micaletto, Gallinari, Faranda, Piancone e Bonisoli erano membri del fronte della lotta alla controrivoluzione durante l’interrogatorio reso alla udienza del 17 giugno ’82 nel processo di primo grado Moro uno/bis. Nel corso del processo Moro ter svoltosi innanzi la 2° Corte di Assise di Roma, alla udienza del 7 maggio ‘97, Morucci dichiarò che Luca Nicolotti non era membro del fronte della lotta alla controrivoluzione.
[25] Il memoriale Morucci-Faranda, redatto nella seconda parte degli anni ’80, è divenuto pubblico nel 1990 ed è allegato agli atti del processo di appello del Moro ter.
[26] Alla riunione della Direzione strategica svoltasi in via Fracchia a Genova, nell’appartamento di Anna Maria Ludmann, parteciparono Mario Moretti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo, Nadia Ponti, Riccardo Dura, Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Renato Arreni, Maurizio Iannelli, Antonio Savasta, Rocco Micaletto, Patrizio Peci e Lorenzo Betassa.
[27] Nel processo Moro uno/bis, Antonio Savasta rese interrogatorio nelle udienze del 28 e 29 aprile, 3, 4, 5, 10, 12 e 17 maggio ’82; Emilia Libéra durante le udienze del 12, 17, 18 e 19 maggio ’82; Patrizio Peci alle udienze del 14, 15, 16 e 17 giugno ’82; Teodoro Spadaccini alle udienze del 2 e 3 giugno ’82; Massimo Cianfanelli nel corso delle udienze del 17, 20 e 24 maggio ’82.
[28] Un interessante e documentato reportage fotografico di tutti i luoghi del sequestro e della fuga verso via Montalcini è stato realizzato dal fotografo Luca Dammico. Il reportage Geografia del caso Moro è consultabile nel sito www.lucadammico.it. Inoltre, una meticolosa ricostruzione del percorso di fuga dei brigatisti da via Fani alla base di via Montalcini è contenuta nel libro di Marco Clementi-Paolo Persichetti-Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, cit.
[29] Nel gruppo dei condannati con la sentenza di primo grado del Moro ter, solo Perrotta era stato rinviato a giudizio per tutti i fatti principali (uccisione della scorta, tentato omicidio Marini, sequestro ed uccisione di Aldo Moro). A Baciocchi, Di Cera e Palamà i delitti vennero contestati nel corso del processo, ad eccezione di quelli riguardanti l’uccisione della scorta e il tentato omicidio Marini. La sentenza sancì un trattamento uniforme e Perrotta vene assolto per questi ultimi reati. Nel processo di appello, svoltosi nel 1992, Baciocchi, Di Cera e Palamà si avvalsero del nuovo istituto introdotto dall’art. 599 nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre 1989, e definirono la propria posizione in udienza camerale, senza affrontare il dibattimento.
[30] Nel processo d’appello del Moro uno/bis, Caterina Piunti venne assolta per l’omicidio Palma, avvenuto nel febbraio ’78, in quanto restava in dubbio che l’attività svolta dalla imputata nella brigata fosse «in nesso di causalità con la produzione della suddetta azione criminosa». La scelta, condivisibile, di assolvere la Piunti, perché non era dimostrato quale contributo avesse fornito alla consumazione del delitto Palma, non è però coerente con quella, di segno diametralmente opposto, seguita per gli altri imputati in riferimento ai delitti commessi a Roma dalle BR tra febbraio e maggio 1978. Sempre con riferimento all’omicidio del magistrato Riccardo Palma, i processi Moro quater e quinquies (sulla base delle dichiarazioni di Adriana Faranda, Valerio Morucci, Antonio Savasta, Emilia Libéra e Raimondo Etro) stabilirono che la uccisione di Palma, deliberata dal Comitato esecutivo e dalla Direzione della colonna romana, venne organizzata ed eseguita dai componenti del settore romano della lotta alla controrivoluzione: Faranda, Gallinari, Lojacono, Casimirri, Algranati ed Etro. È significativa l’ampia distanza che intercorre tra questo accertamento giudiziale e la decisione dei giudici del processo Moro uno/bis che, invece, condannarono per il delitto Palma anche militanti brigatisti che non integravano il settore della contro.
[31] Raimondo Etro era stato incaricato di svolgere una prima inchiesta preliminare sui movimenti di Moro e della scorta ed aveva disegnato la planimetria della zona della chiesa situata in piazza dei Giochi Delfici. Etro sarà poi estromesso dall’azione di via Fani per manifesta incapacità. Durante le fasi preparatorie della operazione, nella zona di via Trionfale-angolo via Fani, avrebbe dovuto controllare gli orari di passaggio della scorta e avvisare gli altri brigatisti con un walkie-talkie, ma non riuscì a farlo perché sopraffatto dalla paura. Una situazione analoga avvenne anche in occasione della uccisione del magistrato Riccardo Palma perché Etro, che era incaricato di sparare al magistrato, non ebbe il coraggio di farlo. Fu Prospero Gallinari ad intervenire, prendendo il posto di Etro ed ammazzando Palma.
[32] Il brano è tratto dalla sentenza emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di cassazione, Pres. Ippolito, il 17 settembre 2014.
Fonte
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
Pubblicato su Questionegiustizia.it, 26 giugno 2025 col titolo «Il caso Moro. Per un’analisi delle sentenze (parte seconda)»
Nel maggio ’87, la Corte di Assise di Roma, nel cd. processo Metropoli, stabilì che Lanfranco Pace e Franco Piperno erano estranei a tutti i reati connessi alla vicenda Moro.
Al termine del processo Moro ter di primo grado, nell’ottobre ’88, i giudici romani assolsero Rita Algranati, Marcello Capuano, Cecilia Massara, Luigi Novelli, Marina Petrella e Stefano Petrella e condannarono, invece, Alessio Casimirri per tutti i fatti di via Fani e via Montalcini. Giulio Baciocchi, Walter Di Cera, Giuseppe Palamà e Odorisio Perrotta, militanti della colonna romana, a differenza di Casimirri, furono condannati solo per il sequestro e l’omicidio del presidente della DC.
Nel processo Moro quater di primo grado, che si celebrò nel ‘94, Alvaro Lojacono venne ritenuto responsabile di tutti i fatti avvenuti tra il 16 marzo e il 9 maggio ‘78.
Infine, nel processo Moro quinquies, nel 1996, i giudici affermarono la responsabilità di Germano Maccari, il falso marito di Anna Laura Braghetti, e di Raimondo Etro che aveva collaborato ad alcune fasi della inchiesta su Moro prima del sequestro. Questa volta però, Maccari ed Etro, riconosciuti colpevoli della uccisione della scorta e del sequestro e della morte del presidente DC, per scelta fatta dalla Procura romana al momento del rinvio a giudizio, non furono processati anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini. [17]
Nel corso della lunga vicenda processuale, Anna Laura Braghetti (v. interrogatorio sostenuto nel processo di primo grado Moro quater alla udienza del 24 novembre 1993) e Germano Maccari (v. la drammatica confessione resa nel processo Moro quinquies alla udienza del 19 giugno 1996) ammisero le proprie responsabilità e raccontarono cosa era accaduto nella primavera ‘78.
Anche altri protagonisti della vicenda (Mario Moretti, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Barbara Balzerani e Bruno Seghetti), a partire dagli anni ’90, in luoghi diversi dalle aule giudiziarie (la Balzerani rese tuttavia dichiarazioni alla udienza del 2 dicembre 1993 del cd. Moro quater), hanno raccontato la storia di cui ci stiamo occupando. [18]
Le versioni provenienti dagli imputati dissociati/collaboratori di giustizia e dagli imputati che fecero scelte processuali opposte alla dissociazione/collaborazione sono, per larga parte, coincidenti. Inoltre, recenti accertamenti di natura tecnica o scientifica – sulla dinamica della azione a via Fani, sulla base di via Gradoli e sulla uccisione di Moro in via Montalcini – hanno definitivamente smontato le teorie complottiste, accreditando come sostanzialmente veritiera la ricostruzione della vicenda fornita dai responsabili del sequestro e della uccisione di Aldo Moro. [19]
Esiste, quindi, oggi, un solido patrimonio di conoscenze da cui partire per valutare i fatti accertati dalle sentenze.
Sono chiare ed ampiamente provate le responsabilità dei componenti del Comitato esecutivo, della direzione della colonna romana e di coloro che presero parte, direttamente e in prima persona, alla operazione di via Fani e al sequestro protrattosi in via Montalcini.
Meno evidenti sono quelle di altri condannati nei processi Moro uno/bis e ter e, per alcuni di essi, gli elementi di prova presentano profili decisamente problematici.
Se quasi tutti ricordano i fatti salienti che avvennero la mattina del 16 marzo ’78, quasi nessuno ha memoria dell’episodio meno noto tra quelli che accaddero a via Fani: il tentato omicidio dell’ingegnere Alessandro Marini.
Era veramente arduo riporre fiducia nella credibilità del teste Marini che, nella fase iniziale della indagine, dopo aver visto alcune fotografie ed aver fatto anche una ricognizione personale, sostenne di essere assolutamente sicuro che uno dei brigatisti da lui visti la mattina del 16 marzo era Corrado Alunni, che però nulla c’entrava con via Fani ed aveva abbandonato le BR già da molto tempo. [20]
Ma questo scivolone non impedì a Marini di diventare il più importante testimone del caso Moro e di ripetere mille volte, cambiando però mille volte la sua versione, che, essendosi trovato casualmente all’angolo tra via Stresa e via Fani, aveva incrociato due brigatisti che viaggiavano su una moto Honda. Il passeggero della moto aveva sparato contro di lui una raffica di mitra che aveva mandato in frantumi il parabrezza in plastica del suo ciclomotore Boxer. Marini si era salvato solo perché si era istintivamente abbassato.
Il testimone, quindi, convinse inquirenti e giudici di essere stato vittima di un tentativo di omicidio, commesso da due brigatisti, che però non saranno mai identificati, a bordo di una moto Honda, un mezzo che, tuttavia, nessuna indagine o processo ha mai dimostrato essere stato utilizzato dalle BR la mattina del 16 marzo.
A 25 persone è stata inflitta una pena definitiva anche per questo delitto.
Poi, in anni più recenti, fu la versione del testimone ad andare in frantumi.
In alcune fotografie scattate nella mattinata del 16 marzo ’78, si vede chiaramente un Boxer, parcheggiato su un marciapiede in via Fani, che ha il parabrezza in plastica tenuto insieme con una striscia di un vistoso scotch marrone, ma ancora tutto integro. Nessun colpo di arma da fuoco l’ha colpito. Quando venne convocato dalla Commissione di inchiesta sul caso Moro, Marini (che, in verità, lo aveva già detto al Pubblico Ministero nel ’94), per l’ennesima volta, fece marcia indietro e cambiò la sua versione dei fatti, cercando di adattarla alla nuova situazione: sì, era vero, il parabrezza si era rotto prima dei fatti di via Fani e lui, per tenerlo insieme, aveva applicato lo scotch. Solo dopo il 16 marzo, avendo notato un pezzo mancante, aveva creduto che il parabrezza fosse stato raggiunto da un proiettile. [21]
Un altro colpo durissimo alla credibilità del testimone lo diedero due testimonianze particolarmente qualificate.
Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, ricordò ai parlamentari che Marini aveva sostenuto di essere stato minacciato a causa delle sue dichiarazioni sull’agguato di via Fani e la Polizia aveva installato un apparecchio nella abitazione dell’ingegnere per registrare le telefonate che riceveva a casa. Quelle registrazioni, dimenticate per 36 anni, erano state recuperate e dimostravano che Marini era stato sì effettivamente minacciato, ma per vicende personali che nulla c’entravano con il caso Moro. [22]
Federico Boffi, dirigente del Servizio centrale della Polizia Scientifica (per incarico della Commissione parlamentare aveva analizzato la scena dell’agguato), spiegava che la versione del testimone non reggeva perché la analisi della dinamica della azione dimostrava che non erano stati esplosi colpi di arma da fuoco da un veicolo in movimento e che la traiettoria dei proiettili era opposta rispetto al luogo in cui Marini affermava di essersi trovato. [23]
Ha sostenuto lo storico Gianremo Armeni che «il tentato omicidio di Alessandro Marini non è un fatto acclarato dalla magistratura, è una circostanza scritta nella sentenza direttamente dal testimone» ed è difficile non condividere questa affermazione.
Non è, quindi, avventato concludere oggi, trascorsi 47 anni da quel giorno del marzo ’78, che uno dei fatti per i quali sono state inflitte molte condanne definitive non si è mai verificato.
Restano, però, gli altri gravissimi reati.
I componenti della brigata Università della colonna romana (Antonio Savasta, Emilia Libéra, Massimo Cianfanelli, Caterina Piunti e Teodoro Spadaccini) ammisero le proprie responsabilità ed anzi Savasta e Libéra divennero due tra i principali collaboratori di giustizia nella storia delle BR. I cinque imputati sono stati condannati per tutti i delitti connessi alla vicenda Moro.
Ma cosa fecero esattamente questi brigatisti che, ovviamente, non si trovavano a via Fani?
Secondo i giudici, la brigata universitaria era corresponsabile della “operazione Fritz” per tre essenziali ragioni:
1) al pari di tutte altre brigate, anche questa, nella imminenza del 16 marzo, aveva rubato auto poi utilizzate a via Fani;
2) aveva spiato i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche;
3) aveva ricevuto la Renault 4 colore amaranto poi usata per trasportare il corpo di Moro sino a via Caetani.
Gli elementi di prova sembrano corposi, ma, se ci addentriamo nelle pieghe delle centinaia di pagine dei faldoni del processo, questo quadro offre minori certezze.
Un paio di mesi prima del 16 marzo, Savasta ricevette da Bruno Seghetti, cioè dalla direzione della colonna romana, l’incarico di osservare i movimenti di Moro all’interno della facoltà di Scienze politiche. Le regole della compartimentazione imponevano a Seghetti di non spiegare a cosa servisse questa inchiesta preliminare. Nel corso del processo, Savasta dichiarava di aver comunicato questa decisione a Libéra e Spadaccini, senza tuttavia aver fatto cenno al colloquio avuto con Seghetti. Dunque, per qualche giorno, i membri della brigata avevano spiato Moro e la sua scorta all’interno della facoltà. Infine, Savasta aveva comunicato a Seghetti che, dal suo punto di vista, era impossibile portare a termine qualsiasi azione in quel luogo perché il presidente DC era costantemente sorvegliato dalla scorta che, sicuramente, avrebbe aperto il fuoco.
Ma il racconto di Savasta diverge non poco da quello degli altri due militanti della brigata Università.
Spadaccini negava di aver spiato Moro e confessava solo di aver svolto una rapida inchiesta sul professore Franco Tritto perché volevano dar fuoco alla sua auto. Quando il Presidente della Corte di Assise chiese ad Emilia Libéra se aveva partecipato alla inchiesta sul presidente della DC insieme a Savasta, la donna replicava di non averlo mai fatto né di averlo mai saputo (Presidente: «Ma lei non seppe nulla di questa inchiesta?» Libéra: «No». Presidente: «Savasta non ebbe mai a parlarle, anche in seguito, di una inchiesta che aveva fatto su Moro?» Libéra: «No». Presidente: «Mai gliene parlò?» Libéra: «L’ho saputo adesso». Presidente: «Prima non l’ha mai saputo?» Libera: «No»).
Un mese prima del sequestro tutte le brigate ricevettero una lista di veicoli da rubare. Seghetti, responsabile politico della brigata Università, consegnò la lista a Libéra dicendo che le auto sarebbero state usate per una imminente, grande operazione. La brigata rubò un solo veicolo, ha sostenuto Savasta nel processo. Invece, secondo la versione processuale della Libéra, la brigata non riuscì a rubare nulla.
Circa dieci giorni prima del 9 maggio, Seghetti affidò a Savasta, Libéra e Spadaccini l’auto Renault 4 di colore amaranto per “gestirla”, cioè cambiare le targhe, eliminare qualsiasi contrassegno del veicolo e lavarla. I tre della brigata università svolsero questi compiti. Poi, qualche giorno dopo, Libéra e Spadaccini portarono il veicolo a Piazza Albania e lo riconsegnarono a Seghetti. Per i tre militanti della brigata si trattava di una operazione di routine, eguale a tante altre, e, solo dopo la conclusione della vicenda, Savasta comprese che sulla Renault 4 era stato trasportato il cadavere di Moro.
In definitiva, l’inchiesta nella facoltà di Scienze politiche, quasi certamente, non venne, quindi, svolta dalla brigata Università, ma dal solo Savasta ed i brigatisti Libéra e Spadaccini non seppero che i compiti che svolgevano erano connessi alla vicenda Moro: né la ricerca di auto prima del 16 marzo, né la custodia della Renault 4 amaranto.
Inoltre, nel processo emerse che Teodoro Spadaccini era stato sospeso dalla organizzazione prima del sequestro ed era stato riammesso, “scongelato”, alla metà di aprile ’78, quando cioè la vicenda stava per avviarsi a conclusione.
Tuttavia, il forzato allontanamento del brigatista dalla vita della organizzazione non suscitò nei giudici l’interrogativo che la sua partecipazione, quantomeno ai delitti avvenuti la mattina del 16 marzo, esattamente come per Emilia Libéra, non era dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Caterina Piunti, reclutata nella brigata nell’autunno ’77, ammise di essere stata militante della colonna romana e di aver diffuso i comunicati delle BR durante il periodo del sequestro. Massimo Cianfanelli, alla udienza del 19 maggio ‘82, sostenne di essere entrato nella brigata solo dopo i fatti di via Fani, a fine aprile ’78, e di essersi limitato a fare volantinaggio.
Piunti e Cianfanelli non vennero mai coinvolti nelle attività degli altri membri della brigata e Savasta e Libéra non smentirono la versione dei due imputati. Per i giudici, tuttavia, anche l’attività di diffusione dei comunicati aveva contribuito a rafforzare la prosecuzione del sequestro, anche se è difficile comprendere, allora, perché Piunti e Cianfanelli, se avevano assolto ad alcuni compiti solo dopo che Moro era già stato portato a via Montalcini, vennero condannati anche per i fatti avvenuti la mattina del 16 marzo. In termini più chiari: come può una attività di propaganda fatta durante il sequestro aver contribuito a realizzare delitti avvenuti prima, cioè uccidere la scorta di Moro e tentare di uccidere il teste Marini?
Le sentenze del processo Moro uno/bis sancirono la colpevolezza anche di Luca Nicolotti, dirigente della colonna genovese, e Cristoforo Piancone, dirigente della colonna torinese.
Secondo i giudici, che ricevettero questa informazione da Patrizio Peci, i due imputati, già prima del 16 marzo, erano componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione insieme a Rocco Micaletto, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari. Le sentenze, nel primo come nel secondo grado, non spesero molte parole per dimostrare la responsabilità dei due brigatisti: avevano sicuramente partecipato ai delitti connessi alla vicenda Moro perché rivestivano posizioni di vertice ed il fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione aveva deciso il sequestro insieme al comitato esecutivo.
I fatti storici appaiono, però, molto più complessi.
Se Peci aveva sostenuto che Nicolotti era inserito nel fronte della lotta alla controrivoluzione [24], Valerio Morucci e Adriana Faranda possedevano informazioni diverse.
Quando i due ex brigatisti, alla fine degli anni ‘80, scrissero un corposo memoriale sul caso Moro, compilarono anche un foglio che conteneva il completo organigramma degli organismi dirigenti nazionali e locali delle BR durante il sequestro. Secondo Morucci (nel ’78 membro del fronte nazionale della logistica) e Faranda (nel ’78 membro della Direzione strategica), il fronte della lotta alla controrivoluzione era composto da Bonisoli e Brioschi per Milano, Micaletto per Torino e Genova, Gallinari per Roma e Piancone per Torino, mentre Luca Nicolotti era solo membro della direzione della colonna genovese. [25]
I giudici di secondo grado del processo Moro uno/bis scrissero nella sentenza che l’inserimento di Nicolotti nel fronte di lotta alla controrivoluzione era «comprovato dalle concordanti, precise dichiarazioni degli imputati Peci, Savasta e Fenzi i quali, fra l’altro, parteciparono insieme con il Nicolotti alla riunione della Direzione strategica dell’organizzazione svoltasi a Genova nel dicembre 1979».
In realtà, Fenzi non era presente alla riunione che si tenne a Genova, in via Fracchia, nel dicembre ‘79 e, in ogni caso, la partecipazione di Nicolotti ad una riunione di un organismo dirigente, la Direzione strategica, a fine ’79, cioè trascorso oltre un anno dai fatti di via Fani, non dimostrava, ovviamente, che l’imputato fosse stato membro di uno dei fronti nazionali delle BR. [26]
In definitiva, Nicolotti e Piancone furono condannati perché Adriana Faranda, durante il processo di secondo grado, aveva confermato che «le azioni delle colonne dovevano essere preventivamente decise dai responsabili dei fronti; tutto ciò per rispondere a quella centralizzazione del dibattito politico che precedeva sempre e concludeva poi la esecuzione di tutte le azioni delle BR che si muovevano unitariamente su tutto il territorio nazionale».
Ma la sintetica descrizione delle regole di funzionamento delle BR, contenuta nella sentenza, appare troppo schematica.
In generale, il compito del fronte nazionale della lotta alla controrivoluzione era quello di elaborare la “campagna politico-militare” all’interno della quale collocare gli obiettivi da colpire (i magistrati, gli esponenti politici ecc.), obiettivi concreti che, tuttavia, venivano individuati dalla colonna ed affidati, per la pianificazione della azione, al settore della contro locale.
Ma ciò che più importa è che la vicenda Moro, per la sua eccezionale importanza, rappresentò un unicum nella vita della organizzazione. Già a partire dalla fine del ’76, la scelta di colpire un esponente politico di altissimo livello della DC era attribuibile, per intero, al comitato esecutivo che, in quel periodo, peraltro, aveva due suoi componenti, Moretti e Bonisoli, impegnati proprio a Roma per costruire la colonna cittadina, operazione senza la quale non avrebbe potuto realizzarsi l’azione di attacco al cuore dello stato. Il compito della pianificazione dell’agguato, si è detto ampiamente nelle pagine precedenti, era affidato, in toto, alla direzione della colonna romana ed il fronte nazionale della controrivoluzione, di fatto, era stato esautorato.
Ha sostenuto Franco Bonisoli, deponendo nel corso del processo Metropoli nell’aprile '87, che la decisione del sequestro fu presa dal comitato esecutivo e che neppure la Direzione strategica entrò mai nel merito della azione che era in programma, «ciò non soltanto per un problema di compartimentazione, perché nella DS c’erano militanti che non sapevano dell’azione Moro, cioè non sapevano che l’obiettivo dell’azione che avevano ratificato fosse Moro. L’azione era estremamente compartimentata. Nella Direzione strategica del febbraio ’78 non si discusse dell’obiettivo dell’azione che era in corso, non venne fatto il nome di Moro».
Se la direzione strategica non partecipò alla ideazione e pianificazione del sequestro, come è possibile, allora, che lo abbiano fatto i membri del fronte della lotta alla controrivoluzione, struttura di rango politico inferiore alla Direzione strategica, oltre che al Comitato esecutivo?
Peraltro, le Brigate Rosse non avevano alcuna necessità di infrangere le rigide regole della compartimentazione, coinvolgendo tutti i componenti del fronte della lotta alla controrivoluzione, visto che tre membri di questa struttura (Bonisoli, Micaletto e Gallinari) erano già attivamente impegnati nella pianificazione della operazione.
La posizione di Cristoforo Piancone presenta poi alcuni aspetti di straordinaria singolarità. Il brigatista torinese, l’11 aprile ’78, a Torino, partecipò all’agguato mortale contro l’agente di custodia Lorenzo Cotugno. Piancone, ferito, venne arrestato. Il 25 aprile ’78, il suo nome comparve nel comunicato n. 8 con il quale le BR chiedevano la liberazione di 13 detenuti in cambio del rilascio di Moro. Nonostante fosse detenuto dall’11 aprile e nonostante Piancone fosse, oggettivamente, interessato, in quel momento, ad una conclusione positiva del sequestro e non certo alla soppressione del prigioniero, anche lui venne condannato quale corresponsabile della uccisione avvenuta in via Montalcini.
Giulio Cacciotti e Francesco Piccioni non erano dirigenti della colonna romana, ma semplici militanti. Il primo era membro della brigata Torre Spaccata, il secondo integrava il fronte logistico. Entrambi parteciparono a diverse azioni armate, in particolare Piccioni all’assalto alla caserma Talamo del 19 aprile ’78, azione nella quale venne utilizzata l’auto Renault 4 amaranto.
Ma Cacciotti e Piccioni, come tutti i militanti della colonna romana, non seppero mai nulla della operazione del 16 marzo e non svolsero nessun compito concreto che contribuì a mantenere Moro in prigionia.
Applicando singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani.
In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto.
Ancor più singolari appaiono le motivazioni che riguardano gli imputati Gabriella Mariani, Antonio Marini ed Enrico Triaca, individuati come militanti di rango elevato, organizzatori delle attività della colonna romana.
In realtà, nulla provava che i tre imputati avessero partecipato ad una qualsiasi fase della operazione del 16 marzo o della custodia del prigioniero a via Montalcini. Nemmeno gli intensi rapporti avuti con Mario Moretti e nemmeno il fatto che Gabriella Mariani aveva dattiloscritto la risoluzione della direzione strategica del febbraio ‘78 permettevano di giungere a questa conclusione. È indiscutibile che Moretti non abbia mai parlato con loro della “operazione Fritz” prima del 16 marzo né saltò fuori, durante il processo, che gli imputati erano stati sollecitati a svolgere attività particolari e diverse dopo i fatti di via Fani. Peraltro, i comunicati diffusi durante il sequestro non vennero realizzati o duplicati né a via Palombini né a via Foà.
I giudici fecero ricorso all’assunto apodittico della doppia negazione: in sostanza, gli imputati “non potevano non sapere”.
Così, per Gabriella Mariani «deve ritenersi per certo che fosse a conoscenza delle attività e dei programmi della organizzazione a Roma dall’inizio a sino all’arresto del 18 maggio ’78 e che abbia dato quindi... un contributo efficace alle attività delle BR e alla commissione di delitti, tra cui certamente la strage di via Fani, il sequestro e l’omicidio Moro» e per Triaca che «non può non aver partecipato alla operazione Moro ed a tutta la campagna di primavera». [27]
Le decisioni dei giudici del Moro uno/bis vennero sostanzialmente condivise dai magistrati del Moro ter, ma questi ultimi non seguirono sino in fondo la linea tracciata dai colleghi del primo processo. Anzi, nella parte della sentenza illustrativa della metodologia che i giudici avrebbero seguito, esplicitarono chiaramente un punto significativo di discontinuità con i provvedimenti giudiziari precedenti scrivendo: «...non possa estendersi automaticamente agli organizzatori della banda armata la responsabilità per i reati commessi da altri associati, quasi derivando dalla loro posizione ai vertici dell’organizzazione una generalizzata attribuibilità a titolo di concorso morale di tutte le attività dei compartecipi di grado subordinato. In altri termini, la sola appartenenza all’organizzazione, anche con ruolo dirigenziale, e la previsione del reato nel programma criminoso non sono da sole sufficienti per stabilire la responsabilità a titolo di compartecipazione del singolo associato rimasto estraneo alla ideazione ed all’esecuzione del reato-fine, occorrendo la prova di un consapevole apporto causale alla commissione del fatto sia pure nella forma dell’istigazione o dell’agevolazione».
Se nel processo del 1982/’83 condotto dal Presidente Severino Santiapichi, l’essere stato mobilitato per rubare auto poi usate il 16 marzo costituiva elemento di prova molto importante, quasi decisivo, per concludere che il militante brigatista aveva fornito un contributo alla realizzazione di tutti i delitti di via Fani (il plurimo omicidio degli uomini della scorta e il sequestro), i giudici del Moro ter pervennero ad una conclusione parzialmente diversa.
Giulio Baciocchi, Walter Di Cera e Odorisio Perrotta era stati militanti della brigata Centocelle ed anche questa aveva ricercato/procurato auto usate a via Fani.
Giuseppe Palamà, romano di Ostia, era entrato nella colonna romana nel marzo ’78 e, come Perrotta, aveva diffuso i comunicati BR durante il sequestro.
I giudici scrissero che «Di Cera ed Arreni rubano una Fiat 128 mentre Baciocchi e Savasta si impossessano di una Dyane rossa. Entrambe le auto verranno utilizzate nell’iter criminis della strage di via Fani, del sequestro e dell’omicidio dell’On. Moro... l’autovettura dell’on. Moro viene bloccata da una Fiato 128 chiara rubata il 23 febbraio 1978 a Bosco Giuliano in Via Monte Brianzo, nei pressi immediati di Piazza Nicosia, come riferisce il Di Cera».
Le informazioni contenute in questo passaggio della sentenza non sono, tuttavia, corrette.
Infatti, l’auto che bloccò la macchina su cui viaggiava Moro non è quella indicata nella sentenza perché Moretti guidava una Fiat 128 familiare di colore chiaro (sulla quale venne apposta la targa CD 19707) rubata a Nando Miconi, l’8 marzo 1978, davanti al suo negozio in Via degli Scipioni 48. Questo veicolo venne abbandonato in via Fani. Invece, la Fiat 128 di colore chiaro di cui parlano i giudici, cioè quella rubata a Giuliano Bosco nei pressi di Piazza Nicosia, venne usata da Lojacono e Casimirri e, subito abbandonata in Via Licinio Calvo, venne trovata dagli inquirenti il 17 marzo 1978.
Quanto all’auto Citroën Dyane è vero che i brigatisti ne utilizzarono una, ma non può trattarsi di quella che i giudici sostengono, sulla base dell’accusa formulata da Walter Di Cera, essere stata rubata da Baciocchi e Savasta.
La macchina, infatti, (come ha sostenuto, senza essere mai smentito sul punto, Valerio Morucci nel suo memoriale) venne rubata il 6 marzo, era di colore azzurro e non è mai stata individuata dalle forze di polizia.
Quando terminò la fase dell’agguato a via Fani, il convoglio brigatista in fuga era composto dalla Fiat 132 guidata da Seghetti (con Moretti, Fiore e il sequestrato), da una Fiat 128 bianca condotta da Casimirri (con Gallinari e Lojacono) e da altra Fiat 128 blu guidata da Morucci (con Bonisoli e Balzerani). Dopo aver percorso piazza Monte Gaudio, via Trionfale sino a largo Cervinia, via Carlo Belli e via Casale De Bustis, il convoglio si immise in via dei Massimi. Superata via Bitossi, Seghetti lasciò la guida della Fiat 132 a Moretti, salì su una Citroën Dyane azzurra, lasciata in quel posto il giorno prima, e si mise al seguito della 132. In piazza Madonna del Cenacolo avvenne il trasbordo di Moro dalla 132 ad un furgone Fiat 850. Morucci salì sulla Dyane guidata da Seghetti che diventò la testa del convoglio. La Citroën Dyane seguì il furgoncino 850 (su cui si trovavano Moretti, Gallinari e Moro) sino a via Isacco Newton, al parcheggio coperto della Standa. Mentre la Dyane restò fuori, il furgoncino 850 entrò nel parcheggio e si accostò ad una Ami 8 Breck guidata da Germano Maccari. La cassa di legno con dentro Moro venne caricata nella Ami che partì con Moretti alla guida e Maccari accanto. Morucci si mise alla guida del furgoncino 850 e si allontanò insieme a Seghetti che conduceva la Dyane. Morucci e Seghetti arrivarono poi a piazza San Cosimato, luogo nel quale i due veicoli vennero abbandonati. [28]
I giudici del Moro ter condannarono Baciocchi e Di Cera perché «il rapporto di causalità materiale e psichica tra il furto delle auto ed il sequestro e l’omicidio dell’On. Moro è evidente», ma, contrariamente ai giudici del Moro uno/bis, l’affermazione della responsabilità non riguardò anche il plurimo omicidio degli uomini della scorta benché i fatti (eccidio della scorta e sequestro) fossero contestuali.
Alla stessa conclusione i magistrati giunsero per i brigatisti Palamà e Perrotta, responsabili di aver distribuito comunicati BR durante il sequestro. Avendo realizzato un «inserimento nella gestione del sequestro», erano corresponsabili del sequestro stesso e del successivo assassinio del presidente DC. [29]
In definitiva, identiche condotte illecite vennero valutate e sanzionate in maniera differente.
Nel Moro uno/bis, gli imputati accusati di aver procurato auto oppure di avere diffuso i comunicati della organizzazione durante il sequestro furono condannati per tutti i delitti principali della vicenda.
Invece, nel Moro ter, ai brigatisti accusati delle medesime condotte venne risparmiata la condanna per l’eccidio della scorta e il tentato omicidio Marini.
La scelta di applicare principi di “attribuzione automatica” della responsabilità penale produsse una ulteriore torsione dei criteri di valutazione della prova.
Gli imputati nella prima vicenda giudiziaria furono riconosciuti colpevoli, indistintamente, anche per tutti i delitti compiuti dalla colonna romana nella imminenza del sequestro e durante il suo protrarsi. Si trattava, in particolare, dell’omicidio del magistrato Riccardo Palma del 14 febbraio ’78, dell’incendio dell’auto del poliziotto Tinu del 7 aprile ’78, dell’attentato alla caserma Talamo dei carabinieri del 19 aprile ’78 e del ferimento del consigliere democristiano Girolamo Menchelli del 26 aprile ’78.
In realtà, durante il processo, Savasta e Libéra non avevano fornito molte informazioni su questi fatti, accusando Prospero Gallinari, per il delitto Palma, e Seghetti, Piccioni ed Arreni, per l’attentato alla caserma.
Ma i giudici decisero che «ne sono responsabili tutti gli imputati attesa la evidente connessione» con il sequestro di Aldo Moro, anche se per molti di essi (in particolare, Braghetti, Mariani, Marini, Spadaccini, Triaca, Savasta, Libèra, Cacciotti e Piunti), peraltro non inseriti in alcuna struttura dirigenziale nazionale o romana, non emergevano prove di una partecipazione, materiale o morale, ai fatti.
La torsione diventò ancor più stridente nel caso di Anna Laura Braghetti, la invisibile proprietaria della abitazione di via Montalcini che, sino al 9 maggio ’78, ovviamente, non poteva e non doveva avere alcun contatto con altri brigatisti, per non compromettere la sicurezza della prigione del popolo. La “invisibilità” della Braghetti (la vita della brigatista, durante il sequestro, era quotidianamente scandita dalla presenza sul luogo di lavoro e dall’immancabile rientro nella abitazione di via Montalcini) dimostrava che la donna ben difficilmente avrebbe potuto partecipare, anche solo come ideatrice, ad altre azioni armate. Eppure, anche la Braghetti venne condannata per gli altri delitti commessi dalla colonna romana tra il febbraio e il 9 maggio 1978. [30]
Germano Maccari, l’altro abitante di via Montalcini, aveva svolto un ruolo identico a quello della Braghetti. Ma, nel suo caso, i magistrati romani fecero scelte diverse da quelle compiute nei primi anni ’80. Si è già sottolineato che il brigatista non fu processato per il tentato omicidio di Alessandro Marini. Inoltre, nel Moro quinquies, Maccari fu giudicato solo per i reati strettamente connessi al sequestro ed alla uccisione di Moro e non per gli altri delitti compiuti dalla colonna romana nella “campagna di primavera”, quelli per i quali la Braghetti era stata condannata. Raimondo Etro, imputato nello stesso processo, fu giudicato e condannato per l’omicidio del magistrato Riccardo Palma perché aveva svolto un ruolo attivo nel delitto. [31]
La sentenza Maccari-Etro matura in un’epoca diversa, distante 18 anni dai fatti di via Fani e 12 anni dalla prima sentenza Moro. Sembra evidente che la magistratura, in una fase storica che progressivamente si allontana dalla cultura emergenziale che ha dominato la vita giudiziaria negli anni ’70 e ’80, muti il proprio atteggiamento e decida di applicare altri criteri di valutazione della prova ed altre regole in materia di concorso di persone nel reato.
Se le prime sentenze si erano pericolosamente allontanate dai canoni della responsabilità personale per condividere quelli della “responsabilità di posizione”, l’indagine ed il processo Maccari-Etro seguirono una linea giudiziaria diversa aprendo la strada ad un orientamento che, oggi, ispira i giudici nell’affermare principi costituzionalmente orientati, ad esempio quelli secondo i quali «il ruolo di partecipe di una organizzazione criminale non è sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio... giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo alla attuazione della singola condotta criminosa... essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di posizione o da riscontro di ambiente». [32]
Note
[17] Nel processo Moro uno/bis, la sentenza di primo grado viene emessa dalla Corte di Assise di Roma (Pres. Santiapiachi) il 24 gennaio 1983. Quella di secondo grado (Pres. De Nictolis) è emessa il 14 marzo 1985 e quella della Corte di cassazione (Pres. Carnevale) interviene il 14 novembre 1985. Nel cd. processo Metropoli, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 maggio 1987 e quella d’appello il 19 maggio 1988. Nel processo Moro ter, la sentenza di primo grado (Pres. Sorichilli) è del 12 ottobre 1988. La sentenza d’appello è del 6 marzo 1992 e quella della Corte di cassazione (Pres. Valente) viene emessa il 10 maggio 1993. La sentenza di primo grado del processo Moro quater è del 1° dicembre 1994, quella di secondo grado del 3 giugno 1996 e quella della Corte di cassazione del 14 maggio 1997. Infine, nel processo Moro quinquies, la sentenza di primo grado viene emessa il 16 luglio 1996, quella della Corte di Assise di Appello il 19 giugno 1997 e, dopo due annullamenti disposti dalla Corte di cassazione, le condanne diventano definitive nel 1999. Tutti i provvedimenti giudiziari sul caso Moro, con i relativi incartamenti, sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma.
[18] Per il racconto fornito da alcuni brigatisti che furono protagonisti della operazione Moro v. Mario Moretti (intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca), Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2017; Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, PGreco, 2014; Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, 2003; Aldo Grandi, L’ultimo brigatista, BUR, 2007; Barbara Balzerani, Compagna luna, DeriveApprodi, 2013.
[19] Per incarico della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro, il Reparto Investigazioni Scientifiche Carabinieri ha svolto accertamenti sulla vicenda Moro. Ha escluso che, nei reperti della base di via Gradoli, vi fossero tracce biologiche riconducibili ad Aldo Moro (dimostrando, in maniera inconfutabile, che Moro non è mai stato nell’appartamento) ed ha, invece, accertato la presenza di profili genetici riconducibili a 2 soggetti maschili ignoti e 2 soggetti femminili ignoti. Inoltre, il RIS accedeva, il 4 maggio 2017, in via Montalcini 8 per effettuare una sperimentazione all’interno del box auto che, nel ’78, apparteneva a Laura Braghetti. Secondo la relazione tecnica «si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro…le prove reali e virtuali d’ingombro con la Renault4 consentono di non escludere che la vittima sia stata attinta nel bagagliaio mentre l’auto era parcheggiata a retromarcia nel box» (v. audizioni del Comandante RIS Roma, Luigi Ripani, nelle sedute del 30 settembre 2015, 23 febbraio 2017 e 2 marzo 2017 della Commissione Moro). Infine, gli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia Scientifica in via Fani-via Stresa (sul numero dei colpi esplosi, sulla traiettoria dei proiettili esplosi dalle armi usate dai brigatisti ecc.) smentivano sia la ipotesi di un “super sparatore” sia la tesi della presenza, in via Fani, durante l’azione, di persone diverse ed ulteriori rispetto a quelle che sono individuate e condannate dalla magistratura (v. audizione del Dirigente Servizio Centrale Polizia Scientifica nella seduta del 10 giugno 2015 della Commissione Moro).
[20] Sulla identificazione di Corrado Alunni da parte del teste Alessandro Marini v. l’audizione, del 25 marzo 2015, dell’ex giudice istruttore di Roma Ferdinando Imposimato davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.
[21] Sulla tormentata testimonianza di Alessandro Marini e sul tema della moto Honda usata a via Fani v. Gianremo Armeni, Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, cit.; inoltre, v. dell’autore l’articolo, Il secolo breve del testimone di via Fani, in http://www.questionegiustizia.it, 9 giugno 2023.
[22] L’audizione del Procuratore Generale di Roma Luigi Ciampoli si è svolta nella seduta del 12 novembre 2014 della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro e può essere consultata accedendo al sito della Camera dei deputati alla voce Resoconti stenografici–audizioni.
[23] Il funzionario della Polizia di Stato Federico Boffi è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro nelle sedute del 10 giugno ed 8 luglio 2015.
[24] Peci sostenne che Nicolotti, Micaletto, Gallinari, Faranda, Piancone e Bonisoli erano membri del fronte della lotta alla controrivoluzione durante l’interrogatorio reso alla udienza del 17 giugno ’82 nel processo di primo grado Moro uno/bis. Nel corso del processo Moro ter svoltosi innanzi la 2° Corte di Assise di Roma, alla udienza del 7 maggio ‘97, Morucci dichiarò che Luca Nicolotti non era membro del fronte della lotta alla controrivoluzione.
[25] Il memoriale Morucci-Faranda, redatto nella seconda parte degli anni ’80, è divenuto pubblico nel 1990 ed è allegato agli atti del processo di appello del Moro ter.
[26] Alla riunione della Direzione strategica svoltasi in via Fracchia a Genova, nell’appartamento di Anna Maria Ludmann, parteciparono Mario Moretti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo, Nadia Ponti, Riccardo Dura, Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Renato Arreni, Maurizio Iannelli, Antonio Savasta, Rocco Micaletto, Patrizio Peci e Lorenzo Betassa.
[27] Nel processo Moro uno/bis, Antonio Savasta rese interrogatorio nelle udienze del 28 e 29 aprile, 3, 4, 5, 10, 12 e 17 maggio ’82; Emilia Libéra durante le udienze del 12, 17, 18 e 19 maggio ’82; Patrizio Peci alle udienze del 14, 15, 16 e 17 giugno ’82; Teodoro Spadaccini alle udienze del 2 e 3 giugno ’82; Massimo Cianfanelli nel corso delle udienze del 17, 20 e 24 maggio ’82.
[28] Un interessante e documentato reportage fotografico di tutti i luoghi del sequestro e della fuga verso via Montalcini è stato realizzato dal fotografo Luca Dammico. Il reportage Geografia del caso Moro è consultabile nel sito www.lucadammico.it. Inoltre, una meticolosa ricostruzione del percorso di fuga dei brigatisti da via Fani alla base di via Montalcini è contenuta nel libro di Marco Clementi-Paolo Persichetti-Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla campagna di primavera, Vol. I, cit.
[29] Nel gruppo dei condannati con la sentenza di primo grado del Moro ter, solo Perrotta era stato rinviato a giudizio per tutti i fatti principali (uccisione della scorta, tentato omicidio Marini, sequestro ed uccisione di Aldo Moro). A Baciocchi, Di Cera e Palamà i delitti vennero contestati nel corso del processo, ad eccezione di quelli riguardanti l’uccisione della scorta e il tentato omicidio Marini. La sentenza sancì un trattamento uniforme e Perrotta vene assolto per questi ultimi reati. Nel processo di appello, svoltosi nel 1992, Baciocchi, Di Cera e Palamà si avvalsero del nuovo istituto introdotto dall’art. 599 nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre 1989, e definirono la propria posizione in udienza camerale, senza affrontare il dibattimento.
[30] Nel processo d’appello del Moro uno/bis, Caterina Piunti venne assolta per l’omicidio Palma, avvenuto nel febbraio ’78, in quanto restava in dubbio che l’attività svolta dalla imputata nella brigata fosse «in nesso di causalità con la produzione della suddetta azione criminosa». La scelta, condivisibile, di assolvere la Piunti, perché non era dimostrato quale contributo avesse fornito alla consumazione del delitto Palma, non è però coerente con quella, di segno diametralmente opposto, seguita per gli altri imputati in riferimento ai delitti commessi a Roma dalle BR tra febbraio e maggio 1978. Sempre con riferimento all’omicidio del magistrato Riccardo Palma, i processi Moro quater e quinquies (sulla base delle dichiarazioni di Adriana Faranda, Valerio Morucci, Antonio Savasta, Emilia Libéra e Raimondo Etro) stabilirono che la uccisione di Palma, deliberata dal Comitato esecutivo e dalla Direzione della colonna romana, venne organizzata ed eseguita dai componenti del settore romano della lotta alla controrivoluzione: Faranda, Gallinari, Lojacono, Casimirri, Algranati ed Etro. È significativa l’ampia distanza che intercorre tra questo accertamento giudiziale e la decisione dei giudici del processo Moro uno/bis che, invece, condannarono per il delitto Palma anche militanti brigatisti che non integravano il settore della contro.
[31] Raimondo Etro era stato incaricato di svolgere una prima inchiesta preliminare sui movimenti di Moro e della scorta ed aveva disegnato la planimetria della zona della chiesa situata in piazza dei Giochi Delfici. Etro sarà poi estromesso dall’azione di via Fani per manifesta incapacità. Durante le fasi preparatorie della operazione, nella zona di via Trionfale-angolo via Fani, avrebbe dovuto controllare gli orari di passaggio della scorta e avvisare gli altri brigatisti con un walkie-talkie, ma non riuscì a farlo perché sopraffatto dalla paura. Una situazione analoga avvenne anche in occasione della uccisione del magistrato Riccardo Palma perché Etro, che era incaricato di sparare al magistrato, non ebbe il coraggio di farlo. Fu Prospero Gallinari ad intervenire, prendendo il posto di Etro ed ammazzando Palma.
[32] Il brano è tratto dalla sentenza emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di cassazione, Pres. Ippolito, il 17 settembre 2014.
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